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L’attualità di Alfred T. Mahan. Da Inimicizie

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Inimicizie – Per quasi tutti, il nome del Capitano Alfred T. Mahan – il leggendario storico e teorico navale anglosassone di fine diciannovesimo secolo – è immediatamente riconducibile al campo degli studi strategici: Nei suoi due grandi classici, “The Influence of Sea Power Upon History” e “The Influence of Sea Power Upon the French Revolution and Empire”, il Contrammiraglio statunitense (che però prediligeva il titolo di Capitano) tramite una scrupolosa analisi delle campagne navali britanniche e francesi dal diciassettesimo al diciannovesimo secolo, delinea quella che sarà nota ai posteri come la dottrina militare della talassocrazia, del “sea power”. Una dottrina perorante l’azione autonoma della marina rispetto all’esercito di terra, in una funzione di controllo del commercio come mezzo supremo per “asfissiare” la potenza rivale. (…)

Alcune delle sue teorie navali sono oggi cadute in disuso, come quella della guerra navale indipendente, soppiantata dalla “combined arms warfare”; le operazioni militari interforze, che necessitano di un elevato grado di integrazione tra la forza navale, quella terrestre e quella aerea. Nonostante ciò, Mahan è stato per tutto il ventesimo secolo, ed è ancora oggi (con ben 4 navi della US Navy che hanno preso il suo nome) estremamente influente, tanto che, il Segretario alla Guerra (1940-1945) statunitense Henry Stimson, si lamentava della “particolare psicologia della marina, che molto spesso sembrava ritirarsi dal regno della logica per entrare in un oscuro mondo religioso nel quale Nettuno era Dio, Mahan il suo profeta e la marina degli Stati Uniti l’unica chiesa riconosciuta”. (…)

Esiste anche un altro Mahan

Un Mahan grande stratega e geopolitico che – dopo aver vissuto l’acquisizione delle Hawaii, delle Filippine e l’inizio della costruzione del Canale di Panama da parte statunitense – invita i suoi concittadini a ripensare gli Stati Uniti come una potenza globale, uscita dal suo “splendido isolamento”, per citare Lord Palmerston.

Mahan nel meno noto – rispetto ai suoi classici – “The Problem of Asia Its Effect upon International Politics” (1900) mentre scoppia la rivolta dei boxer, infuria la guerra anglo-boera e ribollono le tensioni tra Russia e Giappone che porteranno alla guerra 4 anni dopo, vede negli Stati Uniti una potenza che è diventata (o usando le sue parole, è stata “obbligata a diventare”) tramite l’acquisizione delle Filippine, una potenza anche asiatica.

In un momento in cui l’Asia sta diventando il fulcro delle tensioni globali, la grande domanda – correttamente individuata da Mahan – diventa: come gestire lo sgretolamento dell’Impero Cinese sotto la pressione delle potenze esterne, in un modo che sia adatto all’interesse nazionale statunitense, nonché conforme ai suoi valori? Il Contrammiraglio tenta dunque di elaborare una grande strategia statunitense nel continente eurasiatico. (…)

Nel Mahan geopolitico troviamo dei concetti che anticipano quelli che esprimerà pochi anni dopo l’arcinoto geografo britannico Halford Mackinder, e che ispireranno i pensieri strategici britannico e statunitense nei decenni a venire. Nonché un’attenzione particolare rivolta alla complicata “apertura” della Cina, al contenimento della Russia e alla “relazione speciale” tra Stati Uniti e Regno Unito che ci appaiono oggi estremamente attuali.

La zona contestabile: un concetto ancora attuale

L’elaborazione geopolitica di Mahan parte da un assunto: le tensioni tra grandi potenze si incentrano intorno ad una zona calda, chiamata “zona contestata e contestabile”, in cui si scatenano sia le pressioni da nord e da sud, sia le tensioni interne dovute alla difficoltà in cui versano i regimi politici che la occupano, come l’Impero Ottomano. Questa zona viene individuata – schematicamente parlando – nella fascia di territorio asiatico compresa tra il 30esimo e il 40esimo parallelo.

Al di sotto del 30esimo parallelo, l’influenza britannica – consolidatasi nel subcontinente indiano – è solida e indiscutibile, è la testa di ponte nel continente di un impero talassocratico globale. Al di sopra del 40esimo parallelo, è invece preponderante l’influenza – in questo caso squisitamente tellurica – dell’Impero Russo.

Tra i due paralleli, troviamo invece il fulcro della tensione che passerà alla storia – quantomeno nella sua declinazione centroasiatica – come “grande gioco” e verrà risolta con l’entente anglo-russo del 1907.

È legittimo chiedersi se questo concetto abbia un valore anche più di un secolo dopo, con una Russia – perso il controllo diretto sull’Asia Centrale e sulle pendici meridionali del Caucaso – ben lontana dal suo massimo splendore imperiale, e un impero talassocratico che – pur passato in modo quasi indolore da Londra a Washington – non controlla più l’India, diventata un importantissimo polo indipendente, e si vede notevolmente ridimensionato nel Vicino Oriente. Il concetto di “zona contestabile” però – nonostante sia stato messo alla prova del tempo – mantiene ancora elementi di attualità.

Mahan – dimostrando lo spessore della sua analisi geopolitica – è stato in grado di individuare almeno due elementi caratteristici della “zona contestabile” che hanno passato la prova dei decenni.

Il primo è il perpetuo anelito – mai pienamente realizzato neanche all’apice della sua potenza – della Russia verso il pieno e libero accesso agli oceani. Accesso da realizzarsi o attraverso un’estensione della sua influenza indiretta, o attraverso il controllo diretto di un porto caldo che permetta di accedere agli oceani senza passare da strettoie come i Dardanelli (che coincidono esattamente con il 40esimo parallelo) e l’Istmo di Suez (30esimo parallelo).

Nel fare ciò la Russia si scontra – oltreché con le potenze locali, ove decidesse di espandere la sua influenza contro la loro volontà – con le potenze talassocratiche, desiderose di espandere la propria influenza – partendo dalle teste di ponte costiere, conquistate tramite la coercizione o il commercio – in profondità nel continente asiatico.

Quello che Mahan “racconta” è uno scontro tra Heartland e Rimland per il controllo dell’isola-mondo, che si consuma nelle sue zone più instabili e contestabili.

Questo è un tema ricorrente nella geopolitica del continente eurasiatico. Un tema reso più che mai attuale dall’intervento russo nella guerra civile siriana, risultato nell’apertura della base navale di Tortosa, la prima base russa nel mediterraneo dal 1991.

Nella “zona contestabile” di Mahan troviamo le zone più ricche di tensioni del “Rimland”, la fascia costiera del continente eurasiatico la cui importanza viene teorizzata dal geopolitico statunitense Nicholas J. Spykman negli anni ’40.

La Corea, l’ingresso del Mar Nero, il Canale di Suez, il Levante e lo Shatt al-Arab sono ancora zone in cui le potenze tellurocratiche che hanno il loro centro nell’interno del continente eurasiatico (ora non più solo la Russia) si scontrano con le capitali d’oltremare, oggi rappresentate principalmente (anche se non solo) dagli Stati Uniti.

Ma l’aspetto più interessante – anche più di quanto non lo sia il controllo della fascia costiera – è l’importanza della “zona contestabile” nel garantire e controllare le comunicazioni tra Europa e Asia Orientale.

In particolare, il Canale di Suez – e dunque anche il Levante, la regione che sul suo funzionamento può più influire – è di fondamentale importanza in quanto garantisce le comunicazioni – sia in tempo di pace che in tempo di guerra – tra l’Europa Occidentale e le regioni dell’Asia in cui essa estende la sua influenza tramite il mare: prima tra tutte, la Cina.

Queste linee di comunicazione – ammette Mahan, sostenitore della supremazia del mare come veicolo del commercio – possono però anche essere terrestri. Anche in questo caso, però, devono passare attraverso la “zona contestabile”.

Oggi questa prospettiva è più che mai realtà grazie alla Nuova Via della Seta cinese, di cui uno degli scopi principali – dal punto di vista cinese – è proprio quello di integrare commercialmente l’Eurasia sfuggendo al controllo che la potenza oceanica statunitense esercita sulle vie di comunicazione oceaniche. Il suo punto focale è lo Xinjiang, in piena zona contestabile: è da qui che passa ogni treno della Nuova Via della Seta, ed è qui che Stati Uniti ed alleati cercano maggiormente di usare la loro influenza per destabilizzare la Repubblica Popolare Cinese, sfruttando le particolari condizioni politiche locali.

È inutile dire che due linee arbitrarie sul planisfero non possano essere la base di alcuna solida teoria geopolitica, e infatti non lo sono, neanche per un uomo ottocentesco influenzato dal determinismo geografico come Mahan. (…)

Terra contro mare: il contenimento della Russia

Il leitmotiv dell’intero pensiero di Alfred T. Mahan, come abbiamo già detto, è quello dello scontro “terra contro mare”.

In questo Mahan precede – evidenziando la diffusione di simili concetti nella società anglosassone del tempo e liberandoli, ai nostri occhi, dall’etichetta di elaborazione teorica di nicchia – i celebri scritti, uno del 1904 e uno del 1919, del geografo britannico Halford MacKinder.

Secondo MacKinder, le potenze di terra e le potenze di mare sono strutturalmente diverse, sia nel modo in cui si governano al loro interno, sia nei valori che le animano, sia nel modo in cui propagano la propria influenza nel mondo.

Come spiega il giurista tedesco Carl Schmitt, la contrapposizione simbolica tra terra e mare ha origini antichissime, nella rappresentazione di Behemot e Leviatano del “Libro di Giobbe”. Secondo la cabbala ebraica, i mostri mitologici sono impegnati in uno scontro in cui il Behemot cerca di trafiggere il Leviatano – un’immagine che rimanda alle grandi offensive di Napoleone e Hitler – e quest’ultimo con le sue pinne cerca di soffocare il primo, evocando la tattica militare del blocco navale, tipica delle potenze di mare. Come esempi storici di questa contrapposizione vengono spesso citati la Guerra del Peloponneso, le Guerre Puniche e, appunto, lo scontro tra Gran Bretagna e Russia.

È una rappresentazione simbolica che ancora troviamo nei dibattiti politici odierni, con gli USA rappresentati come potenza commerciale benevola (e benefica per tutto il mondo) o come piovra plutocratica che corrompe con i suoi tentacoli e uccide tutto ciò che tocca, e la Russia rappresentata come baluardo della tradizione – patria di uno stile di vita sano e “spartano” – o come antico oppressore asiatico, come sostiene il principe del revival neocon italiano – Vittorio Emanuele Parsi – “strutturalmente” portato ad aggredire e soggiogare l’intera Eurasia (e, quindi, da debellare tramite la guerra).

Mahan però, a differenza di MacKinder e di leader messianici statunitensi da Woodrow Wilson a George W. Bush, non vede nel “dispotismo asiatico” un nemico da combattere in quanto tale (nonostante attribuisca agli USA il diritto di intervenire ovunque nel mondo “su basi semplicemente morali”) ma vede nella Russia del tempo una potenza di cui vanno riconosciuti gli interessi per garantire la pace in Eurasia. In questo caso, Mahan individua i limiti della potenza tellurocratica nel grande continente, inserendosi in un lungo filone “minimalista” che spazia dal teorico della guerra fredda George Kennan all’attuale direttore di Stratfor, George Friedman.
Il problema principale dell’espansione dell’influenza di Mosca in Eurasia sarebbe invece la sua tendenza a “chiudere la porta” – esercitando un “controllo esclusivo” – al commercio delle potenze talassocratiche laddove estenda la sua influenza. Questa tendenza è contraria all’interesse nazionale statunitense – e, si potrebbe dire, alla sua way of life di cui l’esistenza continua di una frontiera commerciale è uno dei cardini fondamentali – e va combattuta, ovunque nel Rimland.

In questo scontro per l’influenza sulle coste dell’Eurasia le potenze oceaniche hanno sia uno svantaggio – dovuto alla possibilità da parte di quella di terra di concentrare potenza ovunque lungo i suoi ampi confini, senza attraversare barriere politiche e amministrative, lungo linee interne – che un vantaggio: la possibilità di controllare il commercio, che si muove prevalentemente sugli oceani. Questa è secondo il Contrammiraglio – che nelle sue opere principali addebita al blocco navale britannico la sconfitta del tentativo egemonico di Napoleone – un’arma estremamente potente, da usare senza scrupoli e senza parsimonia, anche piegando un concetto – quello di proprietà privata – fondativo per il sistema valoriale anglosassone:

“La merce appartenente ad individui privati, in transito verso altri paesi nell’ambito di scambi commerciali, non è proprietà ‘privata’ nel senso ordinario della parola. […] Quando impegnata nel commercio estero, la merce di cittadini individuali sta contribuendo ad arricchire lo stato; gioca un ruolo fondamentale nel rifornire di linfa vitale l’organismo della nazione belligerante”.

Una concezione organica dello stato che butta fuori dalla finestra il dogma liberale del cittadino e della “società civile” filosoficamente separati dal proprio governo, peraltro iper-utilizzato per giustificare interventi “umanitari” dalla guerra ispano-statunitense fino a quella civile siriana. E ancora:

“Non ci sono dubbi sull’effetto del blocco agli scambi commerciali, con la cattura della proprietà cosiddetta ‘privata’. Porta direttamente alla fine della guerra, producendo uno sfiancamento senza spargimenti di sangue, obbligando alla sottomissione con minimi spargimenti di sangue”.

Sono questi concetti oggi estremamente attuali

Come si può conciliare l’ethos anglosassone del libero commercio con l’interdizione – tramite l’uso della forza – degli scambi commerciali tra paesi terzi, quando a Gibilterra viene sequestrata una petroliera iraniana diretta verso la Siria, o quando vengono minacciate ritorsioni contro la costruzione e la messa in funzionamento del gasdotto Nord Stream 2 tra Germania e Russia, arrivando poi a distruggerlo fisicamente.

La risposta la troviamo in Alfred T. Mahan: laddove sia necessario contrastare potenze rivali in Eurasia – che possano potenzialmente espellere l’influenza anglosassone dall’Isola-Mondo – si agisce in regime di “stato d’eccezione” (per dirla con Schmitt). Lontani sono i tempi in cui l’Impero Britannico della Regina Vittoria – con Primo Ministro il Visconte di Palmerston – all’apice della sua fiducia in se stesso e nei suoi valori, abolisce nel 1856 il diritto d’ispezione delle navi straniere in tempo di guerra, in ossequio ai principi liberoscambisti.

Vi è poi un secondo elemento della strategia russa di Mahan di particolare attualità: quello della distrazione su un fronte per sterilizzare le potenzialità di Mosca sul fronte opposto.

Il Contrammiraglio evidenzia correttamente come la dispersione territoriale della Russia renda pressoché impossibile per Mosca impegnarsi simultaneamente su due fronti. Dunque, ove mai vi sia necessità di “sterilizzare” la potenza russa sul fronte occidentale o su quello orientale, sarebbe sufficiente creare una distrazione sul fronte opposto.

Questo concetto strategico è stato più volte provato dalla storia ed ha influenzato le azioni di Mosca e Washington: si pensi alla rapida distensione tra Russia e Giappone (e Gran Bretagna in Asia Centrale, con Londra sempre più preoccupata dalla Germania guglielmina) dopo la cocente sconfitta di Mosca in Manciuria – in previsione della conflagrazione europea che appariva sempre più inevitabile – o alla strategia kissingeriana di asse Washington – Pechino, nell’ambito di scontri tra Russia e Cina che erano diventati anche militari, per condurre alla distensione (quindi al contenimento) in Europa, culminata con gli accordi di Helsinki del 1975.

La guerra per procura condotta in Ucraina da Londra e Washington dal 2014 può essere vista, in modo piuttosto convincente, anche sotto questa lente: ora la minaccia più grande all’egemonia statunitense è la Cina, e questo viene messo nero su bianco con il “Pivot to Asia” di Obama. La Cina, estremamente potente, va isolata anche tramite la sterilizzazione della potenza dei suoi possibili alleati. Una Russia permanentemente in conflitto con l’Ucraina – supportata anche localmente dai baltici – non potrà fornire nessun sostegno alla Cina in una futura guerra nel Pacifico, anche se strettamente legata a Pechino.

È lo stesso concetto che il Regno Unito applica all’Argentina, sfruttando la sua alleanza con il Cile di Pinochet per impegnare gran parte dell’esercito di terra di Buenos Aires, o che la Cina stessa applica all’India, arrivando addirittura a fornire l’arma atomica al Pakistan.

L’apertura della Cina e le rotte oceaniche

Per Mahan – dopo il conflitto con la Russia – il secondo problema dell’Asia (in parte legato al primo) che la strategia statunitense è chiamata a gestire è quello del rapporto con la Cina, collegato alla gestione delle rotte commerciali e militari che collegano l’Europa Occidentale e gli imperi talassocratici all’Asia Orientale.

Mahan scrive in piena rivolta dei boxer, e correttamente individua quella che diventerà quasi un secolo dopo la questione dirimente per la politica estera statunitense: come gestire l’entrata della Cina nel sistema internazionale?

Nel 1900, è passato ormai più di mezzo secolo da quando i britannici hanno aperto (a cannonate) la porta del mercato cinese ai loro mercanti di oppio, inaugurando quello che nella storiografia cinese è noto come il “lungo secolo dell’umiliazione”, segnato da una serie di penetrazioni militari e commerciali da parte delle potenze europee, del Giappone e degli Stati Uniti, accompagnate anche da concessioni territoriali, cessioni di sovranità su funzioni del governo. (…)

Del resto, poco noto è il fatto che gli Stati Uniti – e non la Gran Bretagna – abbiano essi stessi inaugurato la stagione della “diplomazia delle cannoniere” in Asia insieme all’Olanda, quando due spedizioni punitive a Kuala Batu (Indonesia) nel 1831/32 – dunque prima delle guerre dell’oppio – portarono all’annessione di parti dell’isola di Sumatra da parte dell’impero olandese. Gli Stati Uniti sono poi responsabili dell’apertura con la forza del Giappone alle navi statunitensi nel 1853/54, e di un simile tentativo – fallito – in Corea nel 1871.

Mahan però è abbastanza lungimirante da capire che il regime di “tutela” cinese non durerà in eterno, e che prima o poi il Regno di Mezzo si affrancherà utilizzando gli stessi strumenti (tecniche belliche, sistemi moderni di governo, ricchezza materiale) che le potenze ingerenti gli hanno fornito; proprio come avvenuto nel caso del Giappone, ormai diventato una potenza indipendente in grado di competere (o collaborare in regime di parità, come nella repressione dei boxer) con quelle europee ed anglosassoni.

I vettori su cui si deve muovere la strategia statunitense secondo il Contrammiraglio sono fondamentalmente tre

Il primo: non si può permettere che la Cina si rafforzi commerciando con le talassocrazie (e mutuandone anche alcune istituzioni di governo) e al contempo mantenga valori radicalmente diversi da quelli europei, diventando in futuro una minaccia. Per ovviare a questo problema, la penetrazione delle idee europee deve affiancare quella delle merci, naturalmente anche con la forza se necessario.

È inutile dire quanto sia attuale questo concetto, alla luce dell’apertura della Cina di Deng Xiaoping, tramutatasi in minaccia esistenziale per l’impero statunitense quando Pechino, invece di diventare subordinata al capitale straniero che fluisce copiosamente nel paese – come prevederebbero i valori anglosassoni del Washington Consensus – lo imbriglia con i suoi controlli politici e le sue joint ventures, ne assorbe il valore e i segreti per costruire l’alternativa del “socialismo con caratteristiche cinesi”. In questo senso la premonizione di Mahan si rivela più che mai veritiera.

Il secondo: si deve mantenere la porta aperta su tutto il grande spazio cinese. Questo significa che si deve scongiurare – riprendendo il pericolo di controllo russo del Rimland – che si stabilisca sul territorio cinese un “controllo esclusivo”, che chiuda la porta alle merci e al capitale anglosassoni. Questo controllo esclusivo può appunto risultare dall’espansione di una potenza tellurocratica, come la Russia, o il Giappone. (…)

Ma anche da un potenziale governo centrale cinese: per questo, sostiene Mahan, è preferibile che non vi sia un unico potere centrale a governare centinaia di milioni di persone in Cina (un polo potenzialmente invincibile anche per gli Stati Uniti) ma che invece il grande spazio cinese sia frammentato in più parti; ponendosi in continuità con la dottrina MacKinderiana nei confronti della Russia, elaborata in “Democratic Ideals and Reality”. Ove questo non fosse possibile, sarebbe comunque preferibile un potere politico piagato da forti divisioni interne.

Anche in questo caso ci troviamo – al giorno d’oggi – nel più nero degli incubi mahaniani: un partito unico fermamente in controllo dell’intero grande spazio cinese, ed intenzionato ad esercitarvi il proprio “controllo esclusivo”.

Sono noti ed evidenti – riaffermando l’attualità della strategia di Mahan – i tentativi statunitensi di volgere al termine questo stato delle cose; sostenendo ogni tentativo separatista in Cina dallo Xinjiang a Taiwan, passando per Tibet ed Hong Kong.

Il terzo: è imperativo per le talassocrazie mantenere il controllo sul commercio e assicurarsi linee di operazioni sicure in tempo di guerra, qualunque sia lo scenario che emergerà in Asia. Solo così facendo sarà possibile competere con una Cina demograficamente e territorialmente imponente.

Fondamentale da questo punto di vista è la rotta di Suez, già allora spina dorsale del commercio marittimo. Mahan identifica la necessità di mantenere (per dirla alle cinese) una “stringa di perle” che colleghi la Gran Bretagna e l’Europa Occidentale all’Oceano Indiano e all’Australia.

Questa stringa di perle parte da Gibilterra ed è subito minacciata dalla Francia – potenziale alleato russo nel continente, sostiene – e dall’Italia, “tradizionalmente amica” di Mosca e in grado di controllare il Mediterraneo tramite la sua posizione centrale. Prosegue per Malta arrivando al Canale di Suez, il cui controllo va assicurato sia tramite quello dell’Egitto, che del Levante. Passa poi per lo stretto di Bab el Mandeb, arrivando in India e nelle vicinanze del Golfo Persico, per poi giungere finalmente in Asia Orientale e alla periferia estrema dell’anglosfera: Australia e Nuova Zelanda.

Quest’ultimo aspetto della strategia eurasiatica di Mahan ci appare rilevante in una forma diversa

L’anglosfera ha un controllo incerto sul canale di Suez – anche dopo il coup de theatre di Kissinger e Sadat, che va a rettificare la debacle del 1956 – e non controlla più né l’India né il Golfo Persico. Fortunatamente per Washington però, questo non è più necessariamente un problema: dal punto di vista militare, gli Stati Uniti non hanno più bisogno della marina britannica per esercitare influenza sulla Cina, e possono servirsi di linee “interne” che attraversano l’Oceano Pacifico senza essere minacciate da alcuno stato littoraneo, linee peraltro protette dalla robusta “seconda catena di isole” (Giappone, Guam, Australia) e dalla – meno robusta ma comunque rilevante – “prima catena di isole” (Giappone, Okinawa, Taiwan, Filippine, Borneo malese, Singapore) rispetto a tentativi di incursione cinesi o russi.

Oggi il problema per Washington non è infatti quello di assicurare il commercio tra Cina e Europa Occidentale, bensì di poterlo interrompere, privando alcuni stati europei (come Germania, Italia, Austria e Ungheria) prevedibilmente recalcitranti nei confronti di una sfida aperta alla Cina, della capacità di “rifornire di linfa vitale” la Cina tramite il commercio, in una situazione di guerra o acceso confronto. Per fare ciò è sufficiente esercitare un forte controllo su un singolo punto della catena, in modo da poterla interrompere: sia esso Singapore, Suez, Malta o Gibilterra. (…)

Pur evidenziando il fatto che la Nuova Via della Seta, spostando in parte le rotte commerciali dagli oceani al cuore dell’Eurasia – dove l’influenza anglosassone è meno forte – sia potenzialmente in grado di ridefinire i rapporti di forza, va comunque riconosciuto come il controllo sugli oceani da parte statunitense (da non confondersi con quello sui mari, dove gli avversari possono stabilire una supremazia locale) rimanga preponderante, e che Washington abbia ancora una posizione di forza dovuta alla capacità di sabotare il commercio da e verso la Cina, quantomeno in stato di guerra.

Conclusione

La strategia eurasiatica di Alfred T. Mahan è – su scala più larga – assimilabile a quella europea di MacKinder, in quanto impone di mantenere il controllo del commercio estero del continente, e di evitare la formazione di grossi poli terrestri tramite la loro balcanizzazione e il sabotaggio di alleanze tra tellurocrazie. Non è un caso che il Capitano sia un’ardente sostenitore dell’alleanza naturale (oggi al suo apice, dopo la Brexit e con la guerra in Ucraina) tra USA e Regno Unito – in ossequio ad una totale comunanza di interessi ed identità – tanto da venire accolto come una rockstar, anche dalla Regina Vittoria in persona, durante il suo viaggio in Inghilterra. Precede inoltre quella di Spykman, nella misura in cui suggerisce la fondamentale importanza rivestita dal controllo del Rimland eurasiatico, per una potenza oceanica come gli Stati Uniti. Invero, nel dibattito tra controllo dell’Heartland e controllo del Rimland, Mahan si colloca più verso la seconda posizione.

Con il suo focus su Cina e Russia, Mahan è ad oggi estremamente attuale, pur essendo stato superato dai fatti in alcune sue analisi.

Individua correttamente molte costanti della geopolitica statunitense e – in generale – anglosassone, applicate di frequente e di recente dai decisori politici di Washington.

Fonte: La strategia eurasiatica di Alfred T. Mahan

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