Lo spirito dell’amministrazione Biden

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Sempre a partire dalle riflessioni di Raghida Dergham del Beirut Institute tracciamo un bilancio del cessate il fuoco tra Israele e Gaza e delle sue ricadute sui vari attori regionali.

La diplomazia europea negli anni ’20 fu molto attiva nell’operare in chiave anti-tedesca. Il 16 ottobre 1925, Germania, Francia, Gran Bretagna, Italia, Polonia e Belgio, firmano l’accordo di Locarno. Si diffuse allora lo “Spirito di Locarno”, un clima di inebriante fiducia reciproca, suggellato tre anni dopo dal patto Briand-Kellog, contro la guerra.

Allo stesso modo, l’arrivo del nuovo inquilino alla Casa Bianca, ha rassicurato il mondo lanciando un messaggio di tranquillità e fiducia, considerate le ‘peripezie’ della precedente amministrazione repubblicana. Questo clima di fiducia, tuttavia, non interessa quella parte di mondo che ne avrebbe più bisogno, lo scacchiere mediorientale. Lo “Spirito di Biden” – se così possiamo definirlo – è impotente nel penetrare la solida membrana di violenza e sfiducia che circonda la regione che soprattutto oggi rappresenta la fonte di ossigeno primaria per la politica estera del Pentagono.

La priorità numero uno dell’agenda Biden, in politica estera, è il ripristino del JCPOA, Joint Comprehensive Plan of Action, l’accordo sul nucleare iraniano, una sorta di patto Briand-Kellog sempre contro la guerra, ma in chiave moderna.

I patti di fine secolo, “cacata carta” usando un’espressione di Catullo, sono finiti nel cestino. Nell’auspicio che la storia insegni qualcosa, ai politici soprattutto, analizziamo lo scenario mediorientale adesso che le ostilità tra Hamas e Israele sono finite, solo momentaneamente, e che a Vienna sono in corso i colloqui sull’accordo nucleare.

Il tanto atteso annuncio del cessate il fuoco tra Palestinesi e Israeliani è finalmente arrivato e una tregua dalle ostilità fra i due è in corso da venerdì 21 maggio, dopo ben undici giorni di aspri combattimenti in cui sono state uccise più di 250 persone, la maggior parte delle quali a Gaza. Naturalmente entrambe le parti rivendicano la vittoria sull’altra. Ma chi ha veramente vinto e soprattutto qual è la posta in palio?

Rapido bilancio di guerra: Israele

Entrambe le parti hanno certamente vinto qualcosa, ma è qualcosa di effimero, non è destinato a durare, è uno scenario vecchio al quale oramai siamo abituati. Cambiano gli attori, il copione, ma la trama è sempre la stessa. Un’analista che spesso abbiamo apprezzato e riportato, Raghida Dergham, fondatrice e chairman del Beirut Institute, suggerisce piuttosto che, se esiste l’ombra di un possibile vittoria strategica all’orizzonte, questa è imputabile al regime iraniano.

Ma andiamo con ordine: Netanyahu è ancora al timone della nave anche se non riesce a formare un governo (la situazione è ancora magmatica alla Knesset) in modo da garantirsi l’immunità parlamentare contro i procedimenti penali intentati contro di lui. L’aggressione di Hamas, che controlla Gaza, potrebbe avergli, momentaneamente, salvato la carriera politica. In fin dei conti è il primo ministro più longevo della storia politica d’Israele nonché il “custode della sicurezza nazionale”. Molti, però, non sono d’accordo con quest’ultima affermazione: infatti, Netanyahu ha esposto il paese ai razzi di Hamas per salvarsi la pelle [1]. La popolazione israeliana (si intende la componente ebraica), unita al suono di “Sheket iorim” (“Silenzio, si sta sparando”), nota espressione del lessico politico israeliano che allude al congelare momentaneamente le divisioni interne in nome dell’unità nazionale, al termine dello spettacolo pirotecnico nel cielo di confine tra Israele e Gaza, è scesa in piazza a protestare contro king Bibi.

Anche l’immagine di superpotenza regionale che voleva offrire del suo paese è fallita miseramente: la Iron Dome, la Cupola di Ferro, il sistema di difesa israeliano, è stato colto di sorpresa dalla raffica di razzi lanciati da Hamas dalla striscia di Gaza, per non parlare dell’insurrezione della popolazione araba nei cosiddetti “quartieri misti” delle città di Haifa, Tayibe e Lod. In città come Tel-Aviv e Nazareth, ci sono state proteste di palestinesi israeliani ed ebrei israeliani che insieme hanno chiesto la fine delle violenze al proprio governo.

Nella città a maggioranza araba di Sakhnin, migliaia di persone sono scese in piazza al fianco dei rappresentanti della “Lista Unita”, un’alleanza politica formata da quattro dei cinque principali partiti israeliani che rappresentano la comunità palestinese in Israele; all’appello mancava, ovviamente, la fazione Ra’am, il partito di Mansour Abbas (di cui spesso abbiamo parlato a partire dalla possibile “Alleanza di Abramo”), l’ago della bilancia della politica israeliana.

Rapido bilancio di guerra: Gaza

Dall’altra parte del campo di battaglia, la situazione non è di certo migliore: la rappresaglia israeliana ha devastato Gaza. Il bilancio delle vittime è allarmante: si contano 63 bambini uccisi, 40 donne e 25 anziani morti [2]. Raghida Dergham, qui, richiama l’attenzione su un punto cruciale: indifferentemente dalla provenienza dell’arsenale di Hamas, quest’ultimo non potrà più pretendere di rappresentare tutti i palestinesi della regione. L’organizzazione ha fallito nel rivendicare la leadership alla rivale Autorità palestinese a guida di Mahmoud Abbas, che ne è a capo ininterrottamente dal 2005 e ha fatto saltare l’appuntamento elettorale fissato per il 22 maggio motivando tale decisione con il divieto di partecipazione della popolazione araba residente a Gerusalemme Est imposto del governo israeliano, quest’ultimo ovviamente ha smentito il tutto.

La comunità internazionale, nonostante tutto, riconosce l’Autorità palestinese di Abbas come l’unico interlocutore del mondo palestinese e gli aiuti statunitensi per ricostruire Gaza non finiranno nelle mani di Hamas. Persino l’Egitto, che ha avuto un ruolo di primo piano nel definire il cessate il fuoco, bypasserà l’organizzazione terroristica e dirigerà i suoi aiuti direttamente ai beneficiari di Gaza. Il principale obiettivo di Israele e dell’amministrazione Biden, adesso, è quello di far arrivare gli aiuti a Gaza, ma senza conferire alcuna autorità a Hamas, che controlla la striscia! Come Haaretz scriveva il 25 maggio:

“Blinken’s Israel Mission: Helping Gaza Without Strengthening Hamas” [3], aiutare Gaza senza rafforzare Hamas.

Il Pirro di Plutarco avrebbe detto: “Ἂν ἔτι μίαν μάχην νικήσωμεν, ἀπολώλαμεν”, “un’altra vittoria così e sarò perduto”. (Plutarco, Pirro, 21). Nella nostra narrazione ci sono troppi Pirro, però!

La repubblica Islamica: tante priorità contrastanti in vista delle elezioni di giugno

L’Iran ha mantenuto un profilo basso in questo conflitto nonostante la sua inimicizia con Israele. Mentre il cielo sopra Tel-Aviv e quello sulla striscia erano illuminati da razzi danzanti nel delirante desiderio di ostentare il proprio arsenale militare, sembrava addirittura di assistere ad uno spettacolo di fuochi d’artificio, a Vienna spirava il vento della speranza: nella capitale austriaca erano in corso, e lo sono tuttora, i colloqui tra l’Iran e le potenze mondiali nel loro tentativo collettivo di resuscitare l’accordo sul nucleare del 2015.

Teheran, nonostante l’aiuto fornito ad Hamas, aiuto al quale l’amministrazione Biden ha chiuso maliziosamente un occhio, ha mantenuto le giuste distanze tenendo a guinzaglio Hezbollah e tenendo sotto controllo il fronte siriano. Secondo fonti di intelligence [4] che hanno familiarità con i preparativi militari iraniani, turchi e israeliani, Hamas ha ricevuto 600 missili dall’Iran e altro hardware militare attraverso una nave non identificata, che le fonti hanno sottolineato contenere anche aiuti militari turchi. Inoltre, un enorme carico di armi iraniane ha raggiunto Hezbollah attraverso la Siria.

La revoca delle sanzioni americane e il rilancio dell’accordo sul nucleare sono le priorità iraniane del momento. I palestinesi possono aspettare. Il vero fronte iraniano è Vienna, non Gaza. È in Europa che Teheran concentra tutte le sue forze e si gioca il futuro. Dopo aver tenuto testa a due assedi ottomani, uno nel 1529 guidato personalmente dal sultano Solimano il Magnifico, l’altro, più noto come Battaglia di Vienna, nel 1683 guidato dal Gran Visir Merzifonlu Kara Mustafa Pasha e protrattosi per ben due mesi, riuscirà Vienna, ed insieme ad essa l’intera comunità internazionale, a non cedere ai capricci iraniani?

Dergham qui coglie una sottigliezza fondamentale:

“Of course, a strategic victory for Iran does not mean that it will forgot any of its levers in the region, one of which is Hamas. Rather, it is being selective when it comes to using them.” [5]

 

(“Naturalmente, una vittoria strategica per l’Iran non significa che rinuncerà a nessuna delle sue leve nella regione, una delle quali è Hamas. Piuttosto, è selettivo quando si tratta di usarle”.)

In più, come dimenticarsi che il 18 giugno si terranno le elezioni per il rinnovo della presidenza iraniana (contemporaneamente alla sesta elezione dei consigli islamici di città e villaggio e alle elezioni parlamentari di medio termine). Secondo la costituzione iraniana, Hassan Rouhani non ha diritto a candidarsi di nuovo perché ha già servito il paese per due mandati consecutivi.

Qui la giornalista libanese è sicura di due cose: i moderati non hanno quasi nessuna possibilità di vincere le elezioni, e indipendentemente da chi vincerà, l’amministrazione Biden e l’UE sono determinati a raggiungere un accordo con Teheran. Il Pentagono brama di raggiungere un accordo con Teheran a tutti i costi. Teme una repubblica islamica dotata di bomba atomica, ma si finge cieco davanti alla realtà: non prende in considerazioni le sue politiche nel cercare di influenzare gli equilibri della regione a proprio vantaggio e l’espansione militare al di fuori dei suoi confini tramite proxy. I colloqui di Vienna hanno “addomesticato” gli europei (“the Vienna talks have ‘tamed’ the Europeans”) [6], e Teheran lo sa e sa come sfruttarlo a suo vantaggio.

The global powers’ determination to return to their nuclear deal with Tehran may be driven by fear, and the regime has been adept at exploiting it.” [7]

 

(“La determinazione delle potenze globali di tornare al loro accordo nucleare con Teheran può essere guidata dalla paura, e il regime è stato abile a sfruttarla”).

Dal colloquio [8] tra Dergham e Norman Roule, che ha servito nella CIA e ha diretto i suoi programmi per il Medio Oriente, emergono delle tesi molto interessanti. Roule è convinto che l’accordo verrà concluso, ma andrà a beneficiare pesantemente l’Iran.

Il Medioriente è influenzato, come sempre accade, da macro-eventi, in primis la debole sicurezza internazionale, la sempre minor rilevanza del consiglio di Sicurezza dell’Onu e da strutture regionali quali l’OPEC e la Lega Araba. Alla lista non può mancare l’assenza di leader iconici che sono stati spazzati via dalla febbre di libertà che ha tanto animato le primavere arabe. Gli equilibri religiosi sono cambiati in seguito anche al riconoscimento di Ali Al-Sistani come guida sciita da parte di papa Francesco durante il suo storico viaggio in Iraq. La popolazione mediorientale è giovane, molto meno attaccata a vecchie questioni, è molto educata, disoccupata, più interessata a trovare soluzioni durature invece che soluzioni effimere e partigiane. Ci sono sempre meno soldi nella regione, alta competizione per attirare investimenti stranieri come anche per i dollari dei turisti. Quello che tiene insieme tutti questi stati è il desiderio di arginare l’Iran e intercettare le sue zone di influenza che spaziano dall’Iraq allo Yemen, dalla Siria al Libano fino al Mediterraneo con il supporto offerto a Gaza contro Israele.

Infine, dobbiamo menzionare la fatigue internazionale verso una regione con tanto potenziale, ma incapace di formulare delle proprie soluzioni.

Ci sono anche degli aspetti positivi tuttavia: gli stati economicamente avanzati che trascinano l’intera regione sono stati che stanno affrontando profondi cambiamenti sociali, sono stati con una solida struttura politica, con solide istituzioni, specialmente l’esercito. Un esercito forte può evitare la creazione di milizie armate.

Assistiamo anche ad un cambio generazionale, non di poco conto, nella leadership della regione: monarchi, emiri, sceicchi giovani, di nuova generazione che hanno capito l’importanza dell’andare d’accordo gli uni con gli altri. Tutto ciò deriva dallo sviluppo economico. Il dialogo interreligioso, l’avvalersi di nuove tecnologie, abissali cambiamenti sociali, l’abbandono dell’atteggiamento settario, l’uscita dalla scena politica di vecchi leader che hanno dominato per troppo tempo la regione ha determinato e sta determinando una rivoluzione epocale nella regione, ma molti sono ancora ciechi e si ostinano a non cogliere questi impercettibili chicchi di sabbia che nel silenzio del tempo hanno rimodellato il Medioriente.

In barba al patto contro la guerra, chi distruggerà chi e quando? “E chi nasconderà la testa sotto la sabbia sperando che tutto questo finisca?” [9] Mentre l’amministrazione Biden è distratta, Israele è imprudente e l’Iran crede che questa sia la sua occasione d’oro per raggiungere i suoi obiettivi. Tutto è sul tavolo.

Bibliografia

[1] Raghida Dergham, “Aimd the Palestine-Israel Ceasefire, Iran eyes a Strategic Win”, The National News, del 23/05/2021.

[2] Ibidem.

[3] Jonathan Lis, “Blinken’s Israel Mission: Helping Gaza Without Strengthening Hamas”, Haaretz, del 25/05/2021.

[4] Raghida Dergham, “Hamas’ Iranian Rockets Rile Up Biden’s Administration; Threaten Israel’s Arabs”, LinkedIn Raghida Dergham, del 16/05/2021.

[5] Raghida Dergham, “Aimd the Palestine-Israel Ceasefire, Iran eyes a Strategic Win”, The National News, del 23/05/2021.

[6] Raghida Dergham, “Hamas’ Iranian Rockets Rile Up Biden’s Administration; Threaten Israel’s Arabs”, LinkedIn Raghida Dergham, del 16/05/2021.

[7] Ibidem.

[8] Beirut Institute Summit e-Policy Circle 35, YouTube, 19/05/2021.

[9] Raghida Dergham, “Hamas’ Iranian Rockets Rile Up Biden’s Administration; Threaten Israel’s Arabs”, LinkedIn Raghida Dergham, del 16/05/2021.

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