La prossima Europa e il ruolo di Roma

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Leggere la fase, agire di conseguenza

Il TazebaoCi sono dei momenti che vanno saputi leggere correttamente e in tempo, per orientare l’azione. Da esportatori di merci e libertà, gli Stati Uniti si trincerano dietro una muraglia di dazi, riducendo l’impegno economico – chi vuole intendere intenda – e militare sul Vecchio Continente. Si formerà, come nel secolo scorso, un analogo “blocco della sterlina” – la moneta inglese si sta apprezzando sul dollaro da oltre un mese, toccando 1,30 -, facilitato dal perfettamente oleato Commonwealth e dalla sapiente diplomazia di Re Carlo III. Nulla di nuovo, sbaglia chi sottovaluta, resta indietro chi non segue.

Il vero vantaggio dell’Europa adesso, come il grande Alexander Helphand “Parvus” aveva previsto dopo la Prima guerra mondiale, anticipando perfino Keynes, è l’avere un mercato comune interno privo di barriere doganali, che necessita però di ulteriori miglioramenti, a partire dalla rete infrastrutturale “TEN-T” e, ovviamente, dall’indispensabile riarmo bellico.

È un frangente di passaggio che va letto: da un lato può costringere gli europei a ri-fare veramente un’Unione e dall’altro può aprire una finestra per un ruolo più autonomo e serio dell’Italia. L’Italia ha tutto da guadagnare da questa fase: ri-avvicinandosi alla Union Jack, potrebbe ridurre sensibilmente la dipendenza da Washington – e dal suo modello economico e culturale -, avviando un serio piano di riarmo che favorisca al tempo stesso la reindustrializzazione (anche riconvertendo le filiere oggi più in affanno), ristabilendo una relazione preferenziale con la Germania che, grazie alla solidità dei cristiano-democratici, votati in risposta alle mire muskiane, si prepara a tornare a essere il magnete produttivo ed economico della Mitteleuropa e dell’area che naturalmente le gravita intorno, dalla Scandinavia ai Balcani fino al Bacino del Danubio e al Mediterraneo grazie a una Trieste che ‐ solo così – può giocare un ruolo pivot. È, ovviamente, l’occasione ideale per rompere la tutela francese sulla penisola, sancita dal Trattato del Quirinale e coincisa, come sempre, con la fase di massima decadenza, come già nei precedenti storici degli Angiò, sotto i quali riprese la decadenza del Mezzogiorno, o dei Valois. È nota la preferenza del Padre Dante per gli Svevi. Italia e Germania hanno destini comuni: quando sta male l’una, soffre anche l’altra (si pensi al Seicento nel quale entrambe non sono altro che “espressioni geografiche”); insieme, naturalmente su basi democratiche (non si sa mai di questi tempi), si completano. Anziché un asse tutto continentale franco-tedesco, un’Europa italo-tedesca che congiunga la Scandinavia con Tunisi, fino al Medio Oriente (in coabitazione pacifica con Ankara). Un qualcosa di “triplicista”, come sempre benedetto da Londra (oggi come allora).

Purtroppo, il dibattito italiano è ancora vecchio, decrepito. E non leggere questa attualità rischia di compromettere il futuro della penisola. Va svecchiato. Meloni, che tiene schiacciato il paese su Trump più che sugli Stati Uniti, butta un’esca, le opposizioni abboccano, il mainstream si accoda. Lo spirito socialisteggiante del “Manifesto di Ventotene” nasceva dalla necessità di trovare un dialogo con il gigante sovietico e dalla volontà di ampliare la base sociale nell’ottica della ricostruzione. Alla fine, nel Dopoguerra, la spuntò la DC e i dollari Usa servirono a impedire che la tragedia del fascismo (guerra persa, leggi razziali quando l’Italia liberale era una sorta di terra promessa per gli ebrei e occupazione) si trasformasse in una rivoluzione sociale. Ad ogni modo, è una discussione vecchia. Purtroppo, Meloni sembra intenzionata a restare agganciata al carroccio trumpiano che se ne va, finendo del tutto isolata in Europa, sia prima sia dopo la guerra. Il dibattito, invece, dovrebbe essere tra chi predilige un approccio militare di terra o di mare, quanto e come potenziare le guerre “ibride”, come difendere le lunghe coste italiane. Ma lo faremo noi.

Un occhio di riguardo per quel paese, per dirla con Parvus, dove “il nodo di Gordio si intreccia”: la Turchia. Il paese vive anni di crescita, merito di una modernizzazione guidata dall’alto, incentrata su manifattura e infrastrutture, alla quale si associa uno spiccato ritorno alla religione come garanzia di coesione sociale e di proiezione esterna. L’essere indispensabile piazzaforte contro le mire di Mosca, oggi come nella Guerra Fredda, pur senza mai una guerra aperta, si associa alla leadership quasi-regia di Erdoğan all’interno. Così ci permettiamo di leggere le ultime vicende turche.

Gli inglesi, as usual, sembrano intenzionati ad andare fino in fondo. Quando lo dicono lo fanno. Ad ogni modo, un modus vivendi con la Russia, come con l’Iran, paese nel quale aumentano prepotentemente le spinte riformiste (che vanno seguite con serietà nel rispetto della sovranità del popolo iraniano), va trovato. Dopo la guerra. Non vanno ripetuti gli errori degli anni ’80 e ’90, quando la ristrutturazione della perestrojka poteva favorire un passo graduale verso l’Europa, su comuni basi social-democratiche. L’Italia può e deve essere il terreno di questo dialogo possibile. 

In una ring composition, terminiamo con la politica nazionale. Ci sono idee sintonizzate con il ciclo storico e altre drammaticamente indietro. L’area “di destra” deve prontamente riposizionarsi, avvicinandosi ai cristiano-democratici tedeschi. Molto dipenderà anche dal futuro del soglio petrino, dopo il travagliato pontificato di Papa Francesco. Nel campo opposto, l’area post-post-marxista deve prima di tutto superare la stagione dei diritti, del green e del gender. Ciò che non si colloca in questa dicotomia è stato testato. E non funziona. Tazebanti, sempre avanti!

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