Concludendo il ciclo delle macroanalisi, naturalmente tre (gennaio, fine gennaio e oggi l’inizio di marzo), sulla scia degli ultimi salienti fatti, ci soffermiamo sul ruolo, difficile da cogliere ma decisivo, di Londra. Protagonista vera e vera tessitrice di trame, as usual, sfuggente ai più e letale per questo.
Il Tazebao – Come sempre, ci sganciamo dal mainstream per puntare alla sostanza. È l’unica scelta sensata di fronte a un tale turning point della Storia. Non è nel nostro interesse, né utile minimamente al fidato lettore, soffermarsi sullo screzio tra Donald Trump e Volodymyr Zelens’kij. Lo derubrichiamo, nella migliore delle ipotesi, a una pantomima tra un ex palazzinaro di Nuova York e un ex attore comico – ogni riferimento a cose o persone è puramente casuale -, che si è fatto il suo partito e ha vinto in quella marca così centrale negli equilibri dell’Europa e del mondo. Ci siamo progressivamente allontanati da ogni tipo di propaganda, sia più filo-americana sia più filo-russa, intuendo che, per l’ennesima volta, rischiamo di fare la fine del vaso di coccio. Diffidiamo di entrambi e siamo per un approccio differente.
Bisogna tener presente i precedenti storici, non dimenticare il peso della geografia – questa sconosciuta – e dei legami economici e culturali, troppo spesso in secondo piano. Questo è l’unico modo per comprendere la fase e, auspicabilmente, prendere decisioni corrette. Ovviamente, non tutto è prevedibile e non tutto è analizzabile in modo analitico e asettico: anche la Storia ha un suo spirito, che va colto, intuito, assecondato.
Le ultime guerre mondiali, combattute nonostante ampie spinte neutraliste (si pensi alla lettera del «parecchio» del grande Giolitti), sono state un disastro senza precedenti per l’Italia e lo sono state anche perché mancava una chiara comprensione del «Grande gioco». Nella Prima, non ce ne voglia l’incredibile eroismo dei nostri nonni e bisnonni, l’Italia è servita per aggiungere un fronte, contribuendo a dissanguare la Germania; la Seconda è stata talmente disastrosa da aver ridotto il Paese, che ha rischiato di finire diviso in sfere d’influenza (così era stato proposto alla Conferenza di Teheran del 1943), a una sovranità costantemente sorvegliata e, alla bisogna, corretta. In entrambe, va detto, gli italiani si fanno forti e combattono per la Patria e, se nella Prima non mancano le diserzioni, nella Seconda gli italiani sono sempre gli ultimi a retrocedere. Ciò doverosamente premesso, procediamo a quest’ultima analisi.
Il blocco panamericano
Le elezioni, ebbe a dire un certo ex seminarista georgiano, conta chi le organizza; per questo, ricordiamo che Biden e Trump, nella “naturale” alternanza al governo tra Repubblicani e Democratici, completano, mantenendo dei pilastri di fondo, le rispettive agende strategiche, con l’obiettivo di conservare l’egemonia mondiale anglosassone. I Democratici fanno la guerra alla Russia (ha un peso l’odio verso la religione ortodossa), i Repubblicani si concentrano su Iran e Cina (e in questo trovano come motivazione ideologica la lotta contro regimi che attentano alle libertà). Stante questo indirizzo strategico di fondo si alternano leadership più “russofobe” o più “russofile” (vale anche per gli altri avversari), a seconda dei momenti.
Contrariamente alla narrazione tossica dei media, soprattutto – ci sia consentito – di quelli “destro-terminali”, il “debole” e “malato” Biden ha fatto gli interessi americani, riportando il paese sui binari dell’industria, a partire dalle lucrose commesse belliche, colpendo al tempo stesso – per effetto delle sanzioni – l’industria europea e favorendo un drastico rientro di capitali dall’Europa negli Stati Uniti. Sulla sua politica si innesta il “dinamico” e “muscolare” Trump.
Come l’aggressione da parte della Russia di Putin all’Ucraina ha avviato una fase nella quale si possono rettificare manu militari i confini (Israele come sempre ne approfitta), svuotando di senso gli organismi internazionali nati dopo il 1945, il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump ha segnato un giro di boa del sistema internazionale. Si va verso una fase di nazionalismo economico e politico, a partire da Panamerica – una sorta di estensione della dottrina Monroe dalla Groenlandia all’Argentina di Milei fino ad arrivare alle Filippine – nasceranno blocchi economici in stile panregioni, a patirne gli effetti saranno soprattutto sulle medie potenze manifatturiere, cioè Germania, Italia, Giappone, Corea del Sud (ci permettiamo di suggerire una connessione tra tutto questo e quel tentativo di golpe non andato in porto), ovvero quelle che traevano maggiori benefici dal regime liberoscambista. Non ci sarà più una valvola di sfogo alla disoccupazione come l’emigrazione. I legami di solidarietà reciproca si allenteranno con l’emersione di nuove leadership radicali, xenofobe, nazionaliste.
Il ruolo “impercettibile” di Londra
Ovviamente, l’alternanza non è Made in Usa: nasceva, nella casa-madre, dallo storico duello tra il “vecchio” mondo di Oxford e la “dinamica” City di Londra, guidata da un’arrembante élite capitalista presbiteriana. Sì, perché quella inglese è una storia da conoscere. È figlia di passaggi violenti e brutali, strappi e lacerazioni profonde che il paese ha saputo – e dovuto – incorporare e riassorbire. Ciò è stato possibile, indubbiamente, grazie al ruolo della monarchia, la quale mantiene codici e stilemi del passato, tentando un dialogo con la contemporaneità (la vicinanza di Re Carlo all’ambientalismo ne è un esempio).
Dalle lotte intestine seguite alla sconfitta nella “prima” Guerra dei Cento anni alla rivoluzione nelle campagne, frutto dell’afflusso dei capitali strappati dopo aver scelto la “via del mare”, dalla recinzione delle terre, come ricostruita dal grande storico inglese Christopher Hill, al saldarsi tra predicazione religiosa e istanze politiche, attraverso la quale emergono anche le prime manifestazioni socialisteggianti dei levellers e dei diggers, fino al grande sviluppo scientifico, possibile solo grazie alla temperie figlia della Riforma, indispensabile al decollo industriale, di cui Engels descrive i lati più disumani e brutali.
Londra mantiene una sua via autonoma, solida e differente. Se Trump va contro il clima, il Re pianta un albero. L’Europa vira a destra e Londra torna, dopo il cruciale decennio a guida conservatore contraddistinto dalla Brexit, in mano a un Labour party più affine al “nuovo” Labour di Anthony Crosland (1918-1977) e Hugh Gaitskell (1906-1963) che alle posizioni radicali di Corbyn (comunque rieletto come indipendente). Giova ricordare che in quegli anni, mentre Londra pensa il New Labour della prima maniera, la sinistra italiana si divide tra un Psi stordito per le batoste e chi guarda non a Bad Godesberg ma alla Cina di Mao.
Pur tuttavia, fin da subito, a differenza di larga parte degli osservatori nostrani, abbiamo messo in guardia dal vedere una frattura tra Stati Uniti e Inghilterra. Invitiamo a diffidare di chi parla di una lotta tra le ex colonie “buone” e la Perfida Albione “cattiva”. Al più, questo rapporto è in fase di rodaggio e di riequilibrio, come lo è stato nel cruciale decennio ’20-’30 nel Secolo Breve. Londra e Washington sono legate in maniera più profonda di quanto possa sembrare. Legate non vuol dire che si amino, certamente. Vuol dire che, alla fine, fanno la guerra mondiale insieme. Probabilmente, Londra si ergerà fin dall’inizio a paladina dei valori occidentali, pronta a combattere per essi, anche se non con le sue “giubbe rosse” direttamente, Washington si accoderà un po’ dopo.
Del resto, la guerra per l’egemonia mondiale non è mai indolore, nemmeno per Londra: la Prima è costata il sorpasso economico da parte degli Stati Uniti, mentre la vittoria della seconda guerra punica alla Germania ha richiesto il tributo dell’impero, anche di quell’India che era sì il gioiello della Corona in quanto solo Londra è riuscita a riunificare la varietà indiana – nemmeno l’Impero Moghul ci era riuscito -, infondendogli una coscienza nazionale. Con questo, invitiamo a diffidare anche dei Brics: contano i precedenti, i legami strutturali dettati dalla cultura, dalle affinità religiose e dall’economia.
Non può sfuggire, infine, che Londra si sia staccata dal Continente e dall’Unione, poco prima che iniziasse tutto cinque anni fa, dopo averla sapientemente sabotata dall’interno, impedendo nei decenni precedenti di crescere dal punto di vista della coesione interna.
L’Italia verso la terza crisi strutturale
L’Italia, recisi violentemente i suoi legami con Russia e Cina, costretta a una rapida rispetto alla tradizionale politica filo-russa e filo-palestinese, ha trovato una complessa -e insperata – stabilità politica con Meloni. La premier si barcamena più o meno diligentemente, cerca qualche sponda estera per aprire nuovi sbocchi commerciali (in quest’ottica vanno letti i recenti accordi con paesi del Medio Oriente e del Centro Asia), come valvola di sfogo per il manifatturiero, senza dimenticare le risorse energetiche di cui la penisola ha disperatamente bisogno.
Tuttavia, ciò non sembra bastare: il sistema produttivo arranca, i costi sono alle stelle, la povertà avanza. Occorre una politica all’altezza della fase e un dibattito centrato sul tema, altrimenti l’Italia rischia di dover affrontare una terza crisi strutturale, al pari di quella 1917-1921 e di quella 1943-1948.
Corre l’obbligo di ricordare, senza invalidare minimamente la bontà del processo storico del Risorgimento, che la nazione italiana è un prodotto inglese. L’unificazione avviene sotto le insegne della Union Jack per obiettivi strategici e anche per il pervicace odio gnostico contro il potere temporale di Roma, smontato sul piano filologico da Lorenzo Valla e sul piano politico dal Padre Dante. Ricordiamo che per secoli il Papato è sempre stato ostile agli interessi nazionali italiani, impedendo una “soluzione ghibellina” come quella di Federico II o ridimensionando l’espansionismo veneziano a inizio Cinquecento. La visita dei Reali inglesi nella penisola sarà, chiaramente, un punto di svolta.
Tirando le somme
Con ogni probabilità, in conclusione, il processo di sganciamento degli Stati Uniti dal dossier Ucraina proseguirà – è iniziato con il progressivo rallentamento negli aiuti militari già sotto Biden -, seppur in modo graduale accelerando il passaggio ad una fase post-Nato. In quest’ottica vanno lette quella pluralità di iniziative già post-Nato, come il Trimarium, una sorta di riedizione in grande della Piccola Intesa, che investe direttamente l’Italia e il porto di Trieste. Chi ha creduto ad una facile pace ha creduto invano. Basti ricordare che, prima della decisiva battaglia di Kursk (dopo Stalingrado), Unione Sovietica e Terzo Reich – ne dà conto Reinhard Gehlen, vicino all’ammiraglio Wilhelm Canaris, nel suo Memorie di una spia – tentarono un accomodamento, che fallì proprio per l’articolazione del confine sull’Ucraina. Londra, pur non facendo più parte dell’Europa, ne prenderà la guida de facto, subappaltando però le spese di mezzi e di uomini, as usual, agli alleati del Continente. E mentre Londra prenderà il comando delle operazioni in Europa, Washington, l’altra testa del Leviatano, si dedicherà al vero avversario sistemico: la Cina.