Israele non ha vinto, l’Iran non ha perso e gli Usa vogliono la pace

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Il Tazebao – Al primo boato nel solito mainstream hanno cominciato a circolare ipotesi di un regime change in Iran. Fiumi di interviste in fotocopia – nel giornalismo d’oggi va di moda di fare uscire la stessa intervista su più media – hanno perfino sollevato lo spettro del ritorno dei Pahlavi con la candidatura spontanea di Reza Ciro, il quale pare godere di un modesto seguito in Italia. Forse. Allora, sotto i Pahlavi, l’Iran era il baluardo reazionario occidentale nella regione – proprio per questo non fu coinvolto nelle rivoluzioni nazionaliste come l’Egitto o la Siria –, sebbene lo stesso scià tentasse alcune sortite autonome che sicuramente ne insospettirono i padrini. Al netto delle sconfinate risorse naturali, un paese incastonato nel cuore della terra come l’Iran, sempre più connesso con gli altri colossi quali Russia e Cina – la tratta Ürümqi-Samarcanda-Tehran potrebbe avere l’effetto dirompente della Transiberiana –, e non c’è da stupirsi se, allora come oggi, si tenti di colpirlo o dissanguarlo (la guerra fratricida con l’Iraq). I copiosi acquisti di armi occidentali con i proventi del petrolio non bastarono a Pahlavi. Il copione rivoluzionario – facile il parallelismo tra il volo Air France e il treno Zurigo-Pietrogrado – è sempre lo stesso (crisi delle finanze regie come Carlo I e Luigi XVI, maidan nelle piazze, tentennamenti della casa regnante come Nicola II, una sorta di “stati generali” con Shapur Bakhtiar incaricato di aprire ai rivoluzionari) e anche la rivoluzione iraniana mischia, come sempre, la necessità di riforma sociale alla purificazione religiosa appellandosi al dettato del Corano, ben impersonata dalla personalità carismatica dell’ayatollah e dalle oceaniche preghiere del venerdì. Significativo che allora l’Aviazione, la forza più moderna, si sia schierata con i rivoluzionari: ogni rivoluzione, dai Roundheads agli assalti alla baionetta, porta con sé con modo di combattere nuovo. Tuttavia, tornando all’oggi, in Iran c’è una continuità del potere, testimoniata dalla capacità di organizzare lo spazio, esiste una civiltà che ha saputo preservare le sue caratteristiche distintive, è entrata in contatto con l’Islam e lo ha cambiato, esiste un sincretismo religioso – e anche una tolleranza –, che sfuggono al solito mainstream. Sicuramente, l’accanimento da parte di Israele contro l’Iran è dovuto al progresso nei colloqui con gli Stati Uniti, con i quali la sapiente diplomazia iraniana ha evitato scrupolosamente di venire a uno scontro diretto, pur manifestando la necessità di rispondere. Non è stato affatto indolore, ci sono state molte morti civili, probabilmente ci saranno anche dei regressi nella ricerca nucleare, si è manifestato il grado di infiltrazione dei servizi segreti stranieri nel paese (da sempre arma prediletta del serpente marino), ma Israele ha confermato di non poter reggere uno scontro diretto senza quel sostegno americano che diventa sempre più oneroso, non solo da un punto di vista economico. Sì, perché talvolta bisogna essere bravi a rendere un appoggio troppo difficile, troppo costoso, lavorando sulle contraddizioni in campo avversario. Che la diplomazia eclettica di Trump offra una finestra di dialogo è indubbio, come è fuor di dubbio che il rapporto con Netanyahu si stia logorando, e non da adesso. Non pervenuto, come sempre, il mondo arabo, che conferma la sua miopia. Quanto a Israele la questione della sua sopravvivenza è più cogente che mai, al netto della propaganda mainstream. La soluzione vera, e non la proposta pelosa dei “due popoli e due stati”, è un unico stato, multietnico e multireligioso: pari dignità e doveri uguali per tutte le comunità, fine dell’apartheid ai danni dei palestinesi, equilibrio di governo e cooperazione. Si deve tornare a costruire modelli di dialogo. In generale, sembra che la strategia di infiammare i conflitti trovi sempre più ostacoli. Di contro, resta valido il progetto del presidente riformista Masoud Pezeshkian, come delineato al Tehran Dialogue Forum: una regione “unita e stabile” dal Pakistan all’Iraq, includendo tutti i paesi della regione, quelli del Golfo e quelli del Caucaso. Non a caso Trump promette soldi: gli iraniani sono tra le menti più brillanti al mondo, rifarebbero nuova la regione. Se ci fosse una pace stabile.

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