Macroanalisi 2025: sulla coltivazione in vitro dei trumpismi. Lo strano “caporale austriaco” e il nuovo “Putzi”

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Senza scadere nei toni da Repubblica e soci, un approfondimento sulla Atlantic Connection tra ambienti USA e trumpismi europei, sugli obiettivi geopolitici e sugli antidoti, partendo dal cuore geografico ed economico dell’Europa, la Germania.

Il Tazebao – Continua, un secolo dopo, a far notizia in Italia la vicenda del focoso socialista romagnolo, sebbene con risultati modesti dal punto di vista visivo, di quello storico-politico meglio non parlare. Il “novello Tacito”, al secolo Federico Dezzani, autore del fondamentale Terra contro mare. Dalla rivoluzione inglese a quella russa, ha scritto brillantemente: «Un serio dibattito storico su Mussolini affosserebbe il suo indice di gradimento, soprattutto tra gli ambienti più militaristi e nazionalisti. Fu la sua incoerenza di fondo, che si protrasse tra il 1914 ed il 1943, a costarci pessime prestazioni militari durante il conflitto. Anglo-filo, franco-filo, germano-filo secondo il momento. Pessimo geopolitico, grande opportunista. Con un altro dittatore, avremmo fatto meglio. Dopotutto il Giappone non era molto più forte di noi in termini economici e conquistò mezzo Pacifico». 

Cosa avrebbe dovuto dire, per restare al cinema, il grande Bruno Ganz impersonando – al suo fianco un cast di attori tedeschi – un Hitler vecchio e malato, in una Berlino in fiamme come il Walhalla wagneriano?

Ebbene, poche settimane or sono, in Germania, la leader di Alternative für Deutschland, Alice Weidel, nel corso dell’intervista con il solito Elon Musk, perché ogni epoca ha i suoi “Putzi”, intervenuto anche da remoto a un recente congresso del partito, ha citato l’ex Führer Adolf Hitler, additandolo come “collettivista” e, perfino, “comunista”.

Ovviamente, non è del tutto fuori luogo, se si accetta l’uso del termine “comunista” lato sensu, come surrogato pop-populistico di “rivoluzionario”, in quanto l’ex caporale austriaco aveva uno spiccato «nichilismo dinamico», per dirla con Hermann Rauschning, e non puntava, come avrebbe voluto un qualsiasi conservatore prussiano (la componente territoriale è sempre decisiva), al ritorno dei confini pre-1914, ma a una ridefinizione globale degli assetti. Con esiti nefasti. Ma confacenti a un preciso disegno geopolitico.

Non è dato sapere quanto profonde siano le letture del sudafricano e della leader di Gütersloh, eppure lo stesso Spengler ipotizzava una convergenza tra conservatorismo e istanze socialisteggianti, valida soprattutto per i popoli continentali, tedesco in primis. Restando ai trumpismi odierni in costruzione, sembra proprio che i due volessero suggerire che Hitler fosse “loro” e non “nostro”.

Per le conseguenze che hanno avuto i nazionalismi del secolo scorso, cioè la costruzione dell’assetto post-45 (per essere ancor più precisi è il 1949 con il consolidamento della Repubblica cinese la fine della guerra egemonica), non è un puro esercizio storico.

Protezionismo economico, cioè nazionalismo politico

Staccandosi dal costruendo mainstream trumpista (sia la rete di Musk sia i vari Huffingtonpost che fanno il controcanto, in realtà alimentando i movimenti nazionalisti), nel condannare coloro che gridano al nazismo praticamente per tutto, salvo poi ignorare chi veramente si riallaccia a quella tragica esperienza (ogni riferimento a quanto avviene in Ucraina è puramente voluto), questa macroanalisi intende andare più nel profondo e mettere in luce i legami tra mondo anglosassone e nazionalismi politici coltivati nel Continente europeo.

Economy first. Compreso il quadro economico nella precedente macroanalisi, si passa all’evoluzione del sistema politico. Messo in luce il funzionamento del sistema politico delle isole (il Trump-bis come completamento del mandato di Biden e l’Inghilterra che va per conto suo e si butta sul Labour), si può passare al Continente, dove le forze di destra nazionalista, dalla Germania alla Grecia (dai tempi di Venizelos sobillata in funzione anti-turca, ma il turco ha capito da un bel pezzo), anticipate – come sempre – da Italia, Ungheria e Polonia, vivono una nuova acme.

È bene tener presente che interessi europei e interessi americani difficilmente coincidono e, il più delle volte, confliggono ed è bene ricordare che la guerra – in questo c’è una “strana” convergenza – è anche, e soprattutto, contro l’Europa. Perché l’Europa è il centro culturale del mondo, in primis, e perché prima della pandemia stava tornando a essere, forte dell’integrazione con Russia e Cina, un pivot produttivo globale.

I trumpismi europei, sapientemente coltivati e – è ragionevole credere – foraggiati attraverso organizzazioni e think tank anche durante i quattro anni di traversata nel deserto, forti sia di apparati pop sia di voci più “accademiche”, più che costruire “una nuova Europa”, le cui basi sono tanto ridicole quanto fumose, serviranno a minare le residue basi della cooperazione europea, più che mai indispensabile in un mondo frammentato economicamente, e, in ultima analisi, ad affossare la manifattura europea.

Da capire come il sistema europeo assorbirà l’impatto. Molto dipende, come sempre, dal suo cuore geografico e produttivo: la Germania. La società tedesca, fortemente polarizzata tra Verdi – altro prodotto allogeno – e trumpisti, privata da anni di folli politiche green del prezioso contributo della produzione carbonifera – indispensabile allo sviluppo tedesco fin dall’Ottocento – e del nucleare, avrà compreso la trappola? Non dovrebbe sfuggire, al tedesco, che la sua industria è sotto attacco, fin dal mandato di Obama – la continuità nella discontinuità della politica anglosassone -, con lo “scandalo” Dieselgate.

Tornando alla casa-madre dei trumpismi, come sottolineato in precedenza, sono le isole, as usual, ad anticipare il cambiamento, trasformandosi da esportatori di “libero mercato”, valori green e liberal, “globalizzazione” (questa è stata la seconda globalizzazione dopo quella 1870-1914: allora dominò la Germania, la seconda è stata di marca cinese), in paladini ed esportatori del protezionismo economico e dei nazionalismi.

Gli Stati Uniti di Donald Trump tornano a ragionare e agire come una panregione estesa dalla Groenlandia a Panama (si ricorderà l’invasione del 1989 per deporre Noriega), con la naturale estensione a tutto il Sud America (è la dottrina Monroe), forte del rapporto con Milei, costringendo gli altri a creare degli analoghi blocchi economici, mandando in frantumi quel che resta della globalizzazione. Ammesso ci riescano, perché, appunto, i nazionalismi non cooperano, ma reintroducono assurde linee di separazione.

Non stupisce, infatti, che i nazionalismi nascano in ambienti anglofoni, con l’obiettivo, fin dall’Ottocento, di colpire i grandi complessi multietnici sobillando divisioni etnico-religiose. Lo strano caporale austriaco citato da Weidel, infatti, come si suggerisce poco dopo, sarà visceralmente ostile alla politica guglielmina basata sulle colonie, l’espansione commerciale in Asia, Africa e Sud America, su progetti quali la Bagdadbahn, sulla naturale integrazione euro-asiatica, non sull’Operazione Barbarossa.

Per restare al Sud America, sempre per impedire qualsiasi forma di cooperazionedivide et impera -, si può notare come ad un governo con toni “socialisteggianti” come quello di Lula in Brasile si sia affiancato uno “liberista” come quello di Milei in Argentina. Una dinamica simile si può riscontrare nell’Europa dell’Est, con l’Ungheria del “russofilo” Orban e la Polonia fortemente “russofoba” con Tusk, mentre un paese chiave come la Romania è lasciato provvidenzialmente nel caos. Infine, il caso francese: come quasi un secolo fa, il Fronte popolare, fragile e instabile, in ultima analisi incapace di comprendere la minaccia alle porte e modernizzare l’esercito, si trova isolato dal concerto europeo.

Il “pittore” di Braunau am Inn

Visto che è stato citato, è opportuno ricostruire la vita, il “pensiero”, le relazioni di quello strano caporale austriaco, già ospite del Männerheim (dormitorio per scapoli) di Vienna e poi meldegänger (staffetta) durante la “prima guerra punica” contro il magnete tedesco, definito da un entusiasta attaché americano, Truman Smith, come “lucido e fanatico”.

Ebbene, senza l’investitura anglosassone, cioè del Leviatano, la storia, forse, sarebbe andata diversamente: sono proprio gli Stati Uniti a identificare in lui l’uomo giusto per riunire la galassia nazionalista. Non è certo Ludendorff – l’eroe di Liegi – l’uomo giusto, troppo ancorato alla vecchia classe junker. Serve un uomo nuovo, figlio delle contraddizioni della sua epoca: costui è proprio Hitler.

Dopo lo sfortunato esordio a Linz, durante la magra esistenza a Vienna, che acuisce il suo isolamento – e il suo fanatismo -, avviene il primo contatto con le ridicole idee völkisch anti-semite e pangermaniste (sono gli anni del borgomastro Karl Lueger e dell’occultismo neopagano dell’Osthara di Jörg Lanz von Liebenfels), poi converge su Monaco, culla di rivoluzioni e rivoluzionari; in quel di Monaco vive a poca distanza dall’indirizzo di Lenin.

Incapace di costruirsi un’esistenza inquadrata, riluttante verso il compassato mondo borghese, attende un qualcosa che possa sconvolgere l’esistente. E quel qualcosa arriva. Una fortuita fotografiaqualcuno sostiene ritoccata – lo cattura quando saluta festante lo scoppio della guerra nella Odeonsplatz; inquadrato nel XVI reggimento della riserva bavarese, combatte sul fronte occidentale, prendendo parte alla battaglia di Ypres (ottobre 1914), fa la staffetta – compito molto rischioso ma fondamentale per garantire la rapidità nelle comunicazione come mette in luce lo stesso Rommel nel suo Fanteria all’attacco – e ottiene ben due decorazioni, che avranno un peso specifico notevole nella sua discesa in politica.

La notizia dell’armistizio arriva quando è all’ospedale di Pasewalk, dopo essere stato accecato dal gas, ed è per lui un vero colpo. La guerra era l’occasione per ottenere il riconoscimento che gli era mancato nella vita, nel grigio mondo borghese, anche se il suo carattere schivo e solitario, facilmente compreso dagli ufficiali prussiani, gli aveva sbarrato la strada a qualsiasi incarico di comando.

Tornato a Monaco, diventata culla del radicalismo di destra dopo la repressione del soviet bavarese, all’età di 29 anni e decorato, l’ex caporale viene subito notato e inserito nel giro, il merito è di Karl Alexander von Müller, del Deutscher Arbeipartei di Anton Drexler, vero e proprio antesignano del NSDAP.

In questo humus, fioriscono anche società mistico-gnostiche, cioè di derivazione – o deviazione – massonica, come la Thule Geselschaft, fondata nel cruciale 1917 da Rudolf von Sebottendorff, custode delle idee “ariane”. Avranno un ruolo cruciale nella penetrazione delle idee radicali “ariane” e “pangermaniste” e nella costruzione di una – per così dire – élite. Qualche mese fa, Maduro, nel corso di un’intervista, tirò fuori il legame tra destra Usa, in sostanza in nascituri trumpismi, e occultismo.

Il suo, seppur ridicolo, pensiero merita un ulteriore approfondimento. Prima di tutto l’irrazionalismo, che nasce dalla particolare passione per il Maestro di Bayreuth, che mira a soppiantare il compassato razionalismo hegeliano che, tuttavia, aveva guidato – con successo – l’edificazione dello Stato tedesco.

Come nel caso di molti “ismi”, non può mancare il legame con Londra e i circoli anglofoni, tanto che, come Napoleone, anche il Führer non penserà mai di sostituirsi all’Impero ma di “affiancarlo” sul continente, nella Fortezza Europa, legame garantito da figure quali Houston Steward Chamberlain, sposato nientemeno che con la “figlia” di Wagner (Eva von Bülow), e Ernst Sedgewick Hanfstaengl alias “Putzi” (mezzo bavarese e mezzo americano), indispensabile nel dotare il giovane leader di mezzi per una moderna campagna mediatica. Putzi, dal 1942, dopo una provvidenziale distacco dal nazionalsocialismo sarà informatore dell’OSS, superando indenne la guerra.

A corredo, si può aggiungere che le truppe americane del generale Pershing, acquartierate tra Treviri e Coblenza (ripartiranno solo dopo il 1919), daranno un tacito consenso alla proliferazione di milizie irregolari come i Freikorps contro “il pericolo rosso”, anziché debellarle.

Fin dalle prime orazioni abbondano, infine, gli accessi anti-parlamentari, anti-marxisti, i riferimenti al complotto, la necessità di land und boden, terra e colonie, che poi maturerà, con l’iniziazione alla geopolitica, nello pseudo-concetto di spazio vitale, da ricercare non più nei nuovi mercati, non più nelle colonie, non più con la flotta ma a Est. Il resto della storia è, purtroppo, noto. E questi “pensieri” non erano certo ignoti a un fine geopolitico, l’ex seminarista georgiano.

Tirando le somme

I trumpismi, a partire dalla Germania, hanno lo scopo di spezzare i residui legami di cooperazione europea, quando invece servirebbe accrescere i meccanismi di condivisione, dal debito comune alla difesa. I paesi europei, già soli e già affamati, privati del fondamentale legame con la Russia, vivranno, mentre gli Stati Uniti si allargano e si reindustrializzano, un’ondata di crisi. Quanto al rapporto con il mondo asiatico, è facile supporre che i trumpisti d’Europa, come nel secolo scorso, non vedranno di buon occhio il ritorno dell’imperialismo russo, naturalmente proteso a tutto ciò che era “suo”.

Cionondimeno, anche i nuovi nazionalismi si possono fermare, rileggendo la storia. Giova ricordare che, a differenza di quanto sostiene la vulgata, la Repubblica di Weimar, pur fragile, seppe reggere oltre 10 anni, respingendo colpi di Stato da destra – i “catilinari bavaresi” per dirla con il grande Malaparte – e da sinistra.

Da un lato, la disciplina del ceto operaio tedesco, inquadrato nella Socialdemocrazia e nei solidi sindacati, impedirono la penetrazione della “rivoluzione mondiale”; dall’altro, l’ala destra era perfettamente presidiata dall’apparato burocratico e militare prussiano – e dai residui del formidabile Stato maggiore – e non è un caso che uno degli avversari più ostinati del nazionalismo sia von Seeckt. Ugualmente, Gustav Stresemann sarà il cancelliere migliore per la Germania: purtroppo morì troppo presto.

E alla difesa di Weimar contribuì, fino alla morte, sempre con i suoi preziosi consigli, anche il nemico pubblico numero 1 dei nazisti, “ebreo e marxista”: il grande “Parvus”.

Certo, non c’è più lo Stato maggiore, la società tedesca è stata insufflata di green & gender, altro prodotto Made in Usa, rendendo il suo ceto operaio improduttivo e i giovani indolenti, le città sono colme di immigrati e il sentimento di insicurezza – complici gli attentati – sale, mentre la storica Socialdemocrazia tedesca – il primo, vero, moderno partito politico, chiaramente di ispirazione socialista – vive la peggior crisi di sempre. Molto si capirà dalla tenuta dei Cristiano-democratici e dall’emersione di figure che capiscano quali problemi si celano nell’eventuale, e al momento non improbabile, abbraccio e sdoganamento di Alternative für Deutschland.

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