«Dì al Sultano: se c’è guerra in Libano ci sarà guerra in Levante e dì al Sultano che se c’è pace in Libano ci sarà pace nel Levante».
Klemens von Metternich al suo ambasciatore in partenza per Istanbul.
Pur tra mille traversie il Libano ha sperimentato un’originale forma di governo, il confessionalismo, che negli ultimi decenni vive una profonda crisi.
Si fa presto a dire unità. Ogni processo di unificazione, al netto degli sforzi profusi dal centro per normalizzare la supposta periferia, è non lineare, non coerente, discontinuo. Questo perché gli individui agiscono motu proprio, perché le dinamiche molecolari sfuggono ai vincoli e alle pretese di uniformità, perché i fattori identitari sono resistenti e duraturi.
Queste problematiche si acuiscono quando si tratta di edificare ex novo un paese estremamente composito dal punto di vista religioso e solcato da profonde divergenze sui rapporti con i corregionali, con gli altri paesi rivieraschi e vicini, animato da differenti visioni del proprio ruolo e degli equilibri.
Proprio per questo il processo di state building del Libano è uno dei più affascinanti a livello globale perché origina dalla totale coincidenza tra identità politica e identità religiosa. Prima che essere cittadini libanesi si è maroniti o sunniti, con le ampie ricadute che ciò può avere sul senso di cittadinanza e dello stato.
Il confessionalismo libanese
Il confessionalismo, considerato dalla Scienza Politica una branchia o un sottosistema del consociativismo [1], ultima risorsa per paesi frammentati prima che riesplodano le differenze etniche o etnico-religiose, consiste nel riconoscere l’identità religiosa come fonte dell’identità politica, nel garantire a ogni comunità una rappresentanza politica proporzionale alla sua consistenza nella società, senza che, comunque, nessun gruppo prevalga sull’altro. Questa pratica è l’esito della storia complessa del Paese dei cedri e, sebbene avviato ufficialmente con il mandato francese, affonda in esempi analoghi dei secoli precedenti.
Scrive bene l’Atlante Geopolitico (2013): «Il Libano è un paese multiconfessionale ma non multietnico (a parte le esigue comunità armena e curda), e le 18 comunità ufficialmente riconosciute appartengono ai tre grandi monoteismi. Al loro interno si dividono in gruppi più o meno consistenti: tra i cristiani emergono i maroniti, i greco-ortodossi e i greco-cattolici; i musulmani si dividono in sunniti, sciiti e drusi; gli ebrei libanesi, che attorno agli anni Cinquanta del secolo scorso costituivano la più folta comunità giudaica del Levante arabo, oggi contano ormai poche centinaia di persone. Nessuno di questi gruppi può comunque rivendicare un esclusivo rapporto naturale col territorio che oggi è il Libano, e la loro presenza tra l’Antilibano e il Mediterraneo è frutto di una mediazione storica segnata da migrazioni, conversioni di massa e riscrittura a posteriori di una propria storia mitica» [2].
Proprio per la sua particolarità storica, cerniera tra Oriente ed Occidente, terra spesso ambita dalle potenze europee – emblematico il caso di Cosimo II Granduca di Toscana al tempo di Fakhr ad-Din II – anche la Costituzione libanese è la fusione di più esperienze. Vi sopravvive la tolleranza religiosa sperimentata nell’Impero Ottomano a partire dal 1861 mentre è forte l’impianto repubblicano di genitura francese che lasciò, però prevalere la componente maronita. Al netto degli errori e delle lacune un’esperienza unica nel suo genere e meritevole di essere studiata.
Uno sguardo alla Costituzione del 23 maggio 1926
Il Grande Libano, nato nel 1920 dalla fusione tra l’antica provincia libanese ovvero il Mont-Liban (in gran parte maronita) con le regioni costiere di Beirut, Sidone, Tiro e Tripoli, nonché la valle della Bekaa (in gran parte musulmana), viene riconosciuto come uno Stato unitario e indipendente (art.1), indivisibile (art. 2), la forma di governo è la “république” (art. 4).
Limpide le enunciazioni del dettato costituzionale sull’eguaglianza e la libertà individuale con un passaggio notevole sulla libertà religiosa. La libertà di coscienza è, infatti, “absolue” e lo Stato rispetta “tutte le fedi e ne garantisce e ne tutela il libero esercizio purché non sia leso l’ordine pubblico. Garantisce inoltre alle popolazioni, a qualunque rito appartengano, il rispetto della loro condizione personale e dei loro interessi religiosi” (art. 9).
La libertà religiosa viene tutelata anche nell’ambito scolastico, e non è un aspetto affatto secondario: “(…) Il diritto delle comunità ad avere le proprie scuole non sarà in alcun modo leso, fatte salve le disposizioni generali sull’istruzione pubblica emanate dallo Stato (…)” [3].
La Costituzione proclamata durante il mandato francese è un momento primigenio del futuro Libano, che animerà un felice dibattito tra le comunità che si combatteva su giornali e riviste. Come in Europa, così in Libano. Uno dei momenti essenziali è la lettera di Salah Bayhum a L’Orient [4] che apre ad una discussione tra le comunità poi recepita anche dai maroniti e trasformata nel fondamento dello stato indipendente dalla Francia, ma pur legato culturalmente e non solo ad essa, che vedrà la luce nel 1943.
Crisi del confessionalismo
Il confessionalismo è una pratica politica originale, che recupera l’esperienza ottomana di tolleranza religiosa, a sua volta mutuata da quella seicentesca di Faccardino, aggiornandola con i principi del liberalismo democratico di stampo europeo e occidentale. È molto musulmana perché non contempla una divisione netta tra sfera politica e sfera religiosa, indispensabile nel liberalismo occidentale, ugualmente tende a cancellare il conflitto tra le identità favorendo il riconoscimento reciproco o comunque a sterilizzare qualsiasi tentativo di supremazia e, per questo, è molto liberale perché bilancia e controbilancia i poteri delle rispettive comunità.
Le storture nella pratica del confessionalismo non mancano, anche perché le popolazioni evolvono, nei numeri e nel peso economico, mentre le condizioni esterne si deteriorano e il Libano, fin dalla sua nascita, ha pagato le svariate crisi che hanno sconvolto il Medioriente. Il dibattito è acceso, in Libano e non solo.
Tra fattori solitamente individuati come origine della crisi del confessionalismo libanese ci sono: i cambiamenti demografici, come l’afflusso dei rifugiati palestinesi negli anni ’70, difficili da ammortizzare in breve tempo ma anche i processi di concessione di cittadinanza e di naturalizzazione, le interferenze straniere, come quelle di Siria e Israele, la presenza di gruppi militari, come Hezbollah che non ha mai dismesso le armi.
Una vexata quaestio che lo United States Institute of Peace ha trattato dettagliatamente più volte il problema, come in un esaustivo approfondimento pubblicato nel 2006 ma sempre attuale [5], al quale hanno partecipato Hassan Mneimneh, Direttore dell’IMF (Iraq Memory Foundation) e penna del giornale pan-arabo Al-Hayat, Marwan Kraidy, Preside della Northwestern University in Qatar e, in precedenza, Professore di Comunicazione alla Annenberg School for Communication dell’Università della Pennsylvania e Hisham Melhem, giornalista americano-libanese e corrispondente estero.
Sono molte le riflessioni emerse. Il riconoscimento di tutte le identità religiose espone il paese dei cedri alle ripercussioni delle dinamiche regionali poiché i cristiani tenderanno sempre a guardare ai paesi rivieraschi mentre i musulmani tenderanno a voler riformare un’unità con il mondo arabo (del resto, al momento della creazione dovettero rinunciare alla pretesa di unirsi alla Siria).
Il potere di veto reciproco, che ha insegnato a tutti la tolleranza e l’equilibrio, spesso blocca il sistema impedendogli di essere efficace nei momenti che contano come le crisi; in più, sia chi ha più potere sia chi ne ha meno, è solito incolpare gli altri dell’impasse.
La forte scomposizione religiosa è oggi, come al tempo dell’Impero Ottomano, quando gli inglesi supportavano i drusi e i francesi i maroniti (privilegiati anche nella spartizione posti come detto), particolarmente appetibile per le potenze straniere, spesso interessate a sostenere uno dei gruppi in lotta con gli altri.
La crisi del confessionalismo nel quadro della crisi generale del Libano
Il Libano attraversa una crisi organica di lungo periodo che ne mina le fondamenta stesse. Negli ultimi tempi la già traballante economia è stata falcidiata dalla pandemia e dal dramma dell’esplosione, per la quale, a quasi un anno, si cercano ancora i colpevoli. In più, come accennato in precedenza e come sottolineato nell’intervista a Maroun El Moujabber del febbraio scorso, il Libano è vittima e, in un certo senso, anticipatore dei fenomeni e dei problemi di tutta la regione mediorientale. La crisi della Siria, da sempre vicina e attenta alle sue sorti, ancora dissanguata dalla lotta contro Isis, è un dramma anche per il Libano stesso e non solo per le centinaia di migliaia di profughi, come notato da Andrea Marcigliano, Senior Fellow de Il Nodo di Gordio, in un contributo del marzo 2015 [6].
Il Dr. Elie Abouaoun, Direttore del programma MENA del già citato USIP, in un recente articolo [7] ha posto l’accento sulle prossime elezioni in programma nel 2022, che rappresentano una delle ultime possibilità per uscire dalla crisi. A suo dire sarà essenziale l’emersione di una classe politica sensibile alla riforma. Ma ci sono già molte ombre sulle elezioni, a cominciare da un possibile rinvio e per concludere con la difficoltà di garantire l’indipendenza dei corpi dello stato a partire dal Ministero degli Interni. Di contro c’è anche la componente giovane della società che, come sottolineano diversi osservatori, sentono poco l’attaccamento alla componente religiosa ma sono invece molto sensibili alle condizioni economiche del paese.
Un paese senza futuro?
Il Libano, per quanto affascinante nel suo modello, può considerarsi un incompiuto. Non è diventato una democrazia di stampo occidentale perché non è mai diventato laico (come potrebbe?), non è nemmeno tornato indietro verso una teocrazia sebbene dopo il 2001 sia cresciuto il fondamentalismo islamico [8] che ha trovato terreno fertile nella crisi della classe media.
Sicuramente il sistema necessita di essere riformato. Il confessionalismo, come sottolinea Safia Antoun Saadeh [9], è un sistema che blocca ogni cambiamento sul nascere poiché ogni scelta politica dev’essere concordata da tutte le parti, che, a loro volta, anziché tentare di allargare, di lavorare ad un’agenda comune, si arroccano sulle proprie posizioni, gelose dei vantaggi acquisiti. Ritrosie dure a morire ma che, volenti o nolenti, bisogna iniziare a colpire, altrimenti sarà una crisi senza fine.
Firenze-Beirut: diario di viaggio – Il Tazebao
English abstract
It is easy to say unity. Every process of unification, net of the efforts made by the centre to normalize the supposed periphery, is non-linear, inconsistent, and discontinuous. This is because individuals act motu propriu, because molecular dynamics escape the constraints and claims of uniformity, because identity factors die hard. More so when it comes to building from scratch a country that is extremely composite from the religious point of view and furrowed by profound divergences on relations with fellow countrymen or with other coastal and neighbouring countries. For this very reason, the process of state building in Lebanon is one of the most fascinating because it is based on the total coincidence between political identity – and representation – and religious identity. Before being Lebanese citizens, one is a Maronite or Sunni, with the wide repercussions that this can have on the sense of citizenship and the state.
Confessionalism – the practice of recognizing religious identity as the source of political identity – is a faithful mirror of the cedar country’s complex history. The Atlante Geopolitico (2013) writes well: “Lebanon is a multi-confessional but not multi-ethnic country (apart from the small Armenian and Kurdish communities), and the 18 officially recognized communities belong to the three great monotheisms. Within them they are divided into consistent groups: among the Christians there are Maronites, Greek Orthodox and Greek Catholics; Muslims are divided into Sunni, Shiite, and Druze; Lebanese Jews, who around the fifties of last century constituted the largest Jewish community in the Arab Levant, now number a few hundred people. None of these groups, however, can claim an exclusive natural relationship with the territory that is now Lebanon, and their presence between the Anti-Lebanon and the Mediterranean is the result of a historical mediation marked by migrations, mass conversions and rewriting a posteriori of their own mythical history”.
Precisely because of its historical particularity, hinge between East and West, land often coveted by European powers – emblematic the case of Cosimo II Grand Duke of Tuscany at the time of Faccardino – even the Lebanese Constitution is the fusion of multiple experiences. There survives the religious tolerance experienced in the Ottoman Empire since 1861 while is strong the republican system of French genesis that left, however, prevail the Maronite component. Net of errors and gaps, it is a unique experience of its kind and deserves to be studied.
A look at the Constitution of 23 May 1926
Greater Lebanon is a unitary and independent state (Art.1), indivisible (Art. 2), the form of government is the “république” (Art. 4). The constitutional statements on equality and individual freedom are clear, with a notable passage on religious freedom. Freedom of conscience is, in fact, “absolue” and the State respects “all faiths and guarantees and protects their free exercise as long as public order is not violated. It also guarantees to the people, to whatever rite they belong, respect for their personal condition and their religious interests” (Art. 9). Religious freedom is also protected in schools: “(…) The right of communities to have their own schools will in no way be impaired, subject to the general provisions on public education issued by the State (…)”.
The Constitution proclaimed during the French mandate is a primeval moment of the future Lebanon, which will animate a happy debate between the communities that was fought in newspapers and magazines. As in Europe, so in Lebanon. One of the essential moments is the letter of Salah Bayhum to L’Orient [3] which opens a discussion between the communities then also transposed by the Maronites and transformed into the foundation of the state independent from France but still culturally linked to it.
The current critical debate on confessionalism
Confessionalism was and is an original political practice, which records the best of the Ottoman experience of religious tolerance, updating it with the principles of European-style democratic liberalism. It is in this sense very Muslim because it does not contemplate a clear division between politics and religion – indispensable in Western liberalism – but tends to erase the conflict between identities by favouring mutual recognition.
There is no shortage of distortions in the practice of confessionalism, not least because populations evolve, in numbers and economic weight, and external conditions change. The debate is heated, in Lebanon and beyond. Restoring the old confessionalism? Abandon it and choose secularism? A vexata quaestio that the United States Institute of Peace has dealt with in detail several times, as in an exhaustive study published in 2006 but still relevant, in which Hassan Mneimneh, Director of IMF (Iraq Memory Foundation) and pen of the pan-Arab newspaper Al-Hayat, Marwan Kraidy, Dean of Northwestern University in Qatar and formerly Professor of Communication at the Annenberg School for Communication at the University of Pennsylvania and Hisham Melhem, American-Lebanese journalist and foreign correspondent participated.
Many reflections emerged. The recognition of all religious identities exposes the country of the cedars to the repercussions of regional dynamics since Christians will always tend to look to the coastal countries while Muslims will tend to want to reform a unity with the Arab world (after all, at the time of creation they had to give up the claim to join Syria). The mutual veto power, which taught everyone tolerance and balance, often blocks the system preventing it from being effective in the moments that matter.
The strong religious decomposition is today, as at the time of the Ottoman Empire, when the English supported the Druze and the French the Maronites (also privileged in the division of places as mentioned), particularly attractive to foreign powers, often interested in supporting one of the groups in struggle with the others.
The crisis of confessionalism in the context of the general crisis
Lebanon is going through a long-term organic crisis that undermines its very foundations. In recent times, the already shaky economy has been decimated by the pandemic and the drama of the explosion, for which, almost a year later, the culprits are still being sought. In addition, as mentioned above and as underlined in the interview with Maroun El Moujabber last February, Lebanon is a victim and, in a sense, a forerunner of the phenomena and problems of the entire Middle East region. The crisis in Syria, which has always been close and attentive to its fate, still bleeding from the fight against Isis, is also a drama for Lebanon itself and not only for the hundreds of thousands of refugees, as noted by Andrea Marcigliano, Senior Fellow at Il Nodo di Gordio, in a March 2015 contribution.
Dr. Elie Abouaoun, Director of the MENA program of the USIP, in a recent article [6] emphasized the upcoming elections scheduled for 2022, which represent one of the last chances to get out of the crisis. According to him, the emergence of a political class sensitive to the reform will be essential. But there are already many shadows regarding the elections, starting with a possible postponement and concluding with the difficulty of guaranteeing the independence of the bodies of the state starting with the Ministry of the Interior. On the other hand, there is also the young component of society who, as several observers point out, feel little attachment to the religious component but are instead very sensitive to the economic conditions of the country.
Bibliografia
- CJPME (Canadians for Justice and Peace in the Middle East), “Understanding Lebanese Confessionalism”, 26/05/2007;
- L. Trombetta, “Libano, il confessionalismo politico”, Atlante Geopolitico (2013);
- A. Giannini, “Le costituzioni degli stati del vicino oriente”, Istituto per l’Oriente, Roma (1931);
- A. Elias, “Il Grande Libano: «errore storico» o progetto da realizzare?”, Oasis del 01/09/2020;
- I. Harb, “Lebanon’s Confessionalism: Problems and Prospects”, USIP (United States Institute of Peace), 30/03/2006;
- A. Marcigliano, “Ombre sui Cedri. La minaccia del jihad in Libano”, Il Nodo di Gordio, 25/03/2015;
- E. Abouaoun, “What could make or break Lebanon’s 2022 general election”, The Arab Weekly, 29/06/2021;
- S. Saadeh, “The Social Structure of Lebanon: Democracy or Servitude?”, Cambrige University Press (1993);
- C. Habib, “Lebanese Politics and the Tyrany of Confessionalism”, Confluences Méditerraneé (2009).
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