Dialogo tra Lorenzo Somigli e Lorenzo Villani
È una sera di mezza estate. È piovuto e si sta bene. Si cena in un luogo di civiltà: il lampredotto è indispensabile. La stella rossa della Heineken solletica il nostro subconscio. Siamo al giardino Silvano Sarti, partigiano, tra San Frediano e Pignone, dove c’è ancora parvenza di una fiorentinità. Lontano dalla città vetrina ma ancora guardandola.
Lorenzo Somigli: Comincio io… Ero di rientro da Ferrara, mancavo da molto: era il 2017 e ricordo la gioia per la promozione della SPAL. Rivedo Palazzo Diamanti, il suo bugnato, l’Addizione Erculea: come l’ingegno umano persegue un’idea di città, attraverso la pianificazione dello spazio. Ritorno e rivedo il disordine: la stazione SMN impacchettata, non è una provocazione di Christo, i taxi che non ci sono (non ci provo nemmeno con il nuovo autobus “toscano”), e poi il marcescente Stadio Franchi, mentre il marciapiede di fronte al Palazzo Arcivescovile – povera ekklesía! – presenta una lunga faglia. Si consoleranno con lo sbrilluccicare delle vetrine? Elkann padre, immagino tu abbia letto, si lamenta dei giovani “lanzi” ma in realtà celebra il successo, totale, della sua élite. Viviamo il periodo più classista di sempre ma sembra non si possa dire, io però lo dico. Il potere ha degradato il popolo a massa informe, passiva e al tempo stesso schizofrenica, massa di liberi sudditi che autoalimentano il corto-circuito del consumo white trash, compulsando un Fedez. Va da sé, senza prospettiva politica. Il potere ci ha fatto questo. E noi vogliamo ancora una vita così?
Lorenzo Villani: In vent’anni – non è un elogio del bel tempo andato ma una constatazione – tutto quello che davamo per scontato, una vita sicura, non esiste più. La precarietà e la disoccupazione, quell’incertezza diffusa, la sanità che, per esser teneri, non funziona, il trasporto pubblico che ha perduto la sua funzione di ridurre le distanze (e disuguaglianze) geografiche che sono anche socio-politiche. Non parliamo dell’urbanistica, che è stata la scienza-politica per dare sistema allo spazio, per armonizzare uomo e terra, uomo e natura, natura e costruzione, cielo e cemento, cemento e fiume. Quel video, quello sull’urbanistica partecipata dell’architetto Bicocchi, è ancor più rivoluzionario oggi che tutto quello spirito civico e progettuale sembra essersi perduto. Di fronte a noi oggi c’è il caos…
LS: È così e, duole constatarlo, è voluto e perfettamente riuscito. Come resistere alle brutture del nostro tempo? Una domanda che mi pongo da un po’. Iniziai a pormela a fine 2020, c’era la seconda ondata e la scala di rossi. Ricordo che ci incontrammo, quasi come briganti alla macchia, in Piazza Dalmazia. Intanto, bisogna chiarire che tutto questo ha una radice precisamente bio-politica. Il conflitto politico si è spostato sulla vita. Credo poi occorra un grande sforzo di resistenza, non resilienza, e di lucidità, per resistere ai cantori di questa narrazione. E anche – non ho timore a dirlo – ai contro-menestrelli che sono funzionali, al vannaccismo. Molti cadranno, molto sono già caduti. La filosofia degli antichi, scuola di libertà, è sempre una risorsa. Purtroppo, la Chiesa, post-2013 soprattutto, non è più quella grande costruzione civile a cui eravamo tutti, credenti e no, abituati; tuttavia, i libri ci sono ancora. Il paesaggio intorno è ancora, oggettivamente, bello, per nostra fortuna, e consolatorio: le geometrie e la luce di San Miniato, i punti come questo dove la città incontra il suo fiume. Ci sono ancora dei presidi di civiltà come questo e il lampredotto sintetico ancora non lo hanno escogitato. Poi, ci sono le risposte umane, collettive. Con il nostro Tazebao ci stiamo provando. Ne sei una riprova anche te.
LV: Eppure, ci viene descritto come il migliore dei mondi possibili, anche se nessuno trova quel che cerca. Quando parlo con altri nostri coetanei sento risentimento, rabbia e non di rado rassegnazione. L’impatto del digitale è stato devastante.
LS: Non giriamoci troppo intorno. Di fronte a tutto questo, abbiamo tre opzioni. O la fuga, disordinata, verso un altrove ma i mali vengono con noi, direbbe Seneca e, aggiungo modestamente io, i problemi sono globali perché globale è questa trasformazione – diciamo le cose come stanno – in seno al capitalismo, politico. L’isolamento sarebbe una piccola fuga, come lo stordimento dei sensi, ma il potere arriva, prima o poi, e il risveglio è duro. Eppure, dobbiamo vivere. Eppure, abbiamo la vita, che è ciò che il potere ci vuole togliere.
LV: È necessario formulare nuove forme di dialogo e ovviamente di azione e cooperazione. Comprendere che la soluzione non risiede nel cedere all’individualismo, il modello che viene pompato in ogni modo, ma agire nei margini di critica, quei pochi, che questo modello non riesce ad anestetizzare e fare leva sulle sue contraddizioni, che sono molteplici. Se l’orizzonte generale è peggiorativo, l’azione di critica dovrà essere in controtendenza e mostrarsi all’altezza dei tempi in cui viviamo.
LS: Dobbiamo trovarla questa critica della politica prima che il potere se ne esca, di nuovo, con una “idea forte” per colmare i nostri vuoti ma magari il potere oggi non ne ha più nemmeno bisogno perché, mi ripeto, ha vinto tutto. Iniziamo a ragionare così senza trucchi e infingimenti. Iniziamo a pensare che per l’élite, che non ha mai avuto – senza corpi intermedi a mediare – così tanto potere come oggi, altro non siamo che borseggiatori di ossigeno.
LV: Torniamo alla città. Trovi che questa sia una città chiusa e, azzardo, anche classista? Lo dico da “straniero perpetuo” a Firenze che, a quanto pare, in quanto allogeno non ha il crisma etno-sanguigno per poter parlare della città.
LS: Lo è, caro mio. Dietro il manto dei discorsini ci sta proprio quello. Forse, però, più che un atteggiamento di superiorità, ingiustificata, è sintomo di un ripiegamento, di una paura matta che qualcosa possa turbare l’equilibrio. Non deve muoversi foglia e devono essere sempre le vecchie facce a gestire i pochi spicci rimasti. Se guardi con la tua prospettiva, ti arrabbi, se lo guardi con la mia, inizi a compatirli. Ti faccio una disamina sul declino inesorabile della nostra – ti ho dato la cittadinanza – città. Questa è stata da sempre la città del commercio e delle banche: non c’è più una banca fiorentina. Il Maggio, nato in virtù del trinomio arte-turismo-spettacolo, è commissariato: una prece. I giornali cittadini, anche quelli che dovrebbero parlare alla città “riflessiva”, riducono le pagine e i collaboratori. La sua presunta borghesia ex bottegaia, nel portafoglio (forse) e non nella forma mentis, s-vendidora fin nel midollo, vive dell’appartamentino di nonna messo su Airbnb e ce lo vorrebbe spacciare come grande modello economico. Tralascio i salottini in cui si fanno relazioncine e discorsini che vorrebbero imitare salotti buoni decaduti. Non sai come si affannano alcuni per poter annusare l’aria di questi salottini ini ini! Tutto questo è lo specchio di una città che si guarda sempre di più l’ombelico, sempre più periferica in Italia, dunque povera. Capisci perché mi trovo sempre a disagio, che pur fiorentino sono e fiorentino parlo. Ecco, rivendico il mio diritto a essere a disagio! Per questo amo l’estero, per questo cerco di stare tanto fuori, appena posso. Là si respira, là si capisce, qui c’è solo una stanchissima morte.
LV: Eppure, ci hanno venduto il modello della monocoltura turistica come la soluzione a tutti i mali. Ora ci rendiamo conto che porta lavoro povero, come molti giornali iniziano a documentare, e che perfino i conti non tornano. Ne parlammo a ragion veduta in quel convegno del maggio scorso sul Campo di Marte e lo Stadio, criticando il modello della città vetrina e della precarietà abitativa. Sempre circa lo sviluppo urbano, ho iniziato a studiare il caso della Piana.
LS: E fai bene! La Piana è il territorio più ambito della provincia di Firenze: è l’unico dove si può ancora costruire e molto. Gli altri territori o comuni hanno dei limiti strutturali. Per questo, si è consumato un vero scontro di potere. Ricorderai che ci fu tutta quella mobilitazione indignata e spontanea, dicitur, delle “mamme”. Lo scontro è tra chi vuole cementificare la Piana facendo altri capannoni, magazzini, altri centri commerciali – un modello vecchio di commercio alla luce di Amazon e che non tiene conto dell’impoverimento generale – e chi vuole cementificarla con un mega-aeroporto, anch’esso fuori tempo massimo dopo la pandemia. Tertium non datur. Con buona pace di chi crede al “Parco della Piana”. Integro la tua riflessione su Airbnb. Il capitalismo digitale distrugge il modello della stanzialità qui, per un preciso obiettivo politico, di contro offre una valvola di sfogo, grazie alla muffoteca fungiforme dell’appartamentino, per gli animal spirits delle povere plebi sottoposte alla pressione convergente e durissima di consumismo e digitale e biopotere. Hanno bisogno di uno “spurgatoio” e siamo noi.
LV: E sulle prossime amministrative?
LS: Da seguire. Le seguirò e le seguiremo, penso anche come Tazebao.
LV: E cosa prevedi?
LS: Un’affermazione di Schlein perché serve per completare la transizione degli eredi del – non svenire! – PCI verso l’agenda green e dei diritti. È una declinazione di Ocasio-Cortez: il modello è sempre made in USA e non potrebbe essere altrimenti. Ricorderai le copertine glamour sulla Ocasio-Cortez, noi abbiamo avuto l’armocromia. In questo momento, non vedo Renzi e non perché “non lo vedremo arrivare”. I Sauditi si sono ritirati dal Libano facendo ritirare Hariri, il figlio del grande Rafiq, dalla competizione elettorale, come documentammo su Il Tazebao, devono dedicarsi agli accordi con Israele per cercare una protezione americana. Cosa se ne fanno di un senatore di opposizione con un micro-partito? Sì, ha anche un giornale e quindi? La mia ipotesi è che Firenze sarà una sorta di laboratorio-Schlein e che Schlein avrà le grandi praterie di fronte a sé.