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30 aprile 1993 – Non avevate a tirare quelle monetine!

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Un primo, incalzante, lucido focus sul crollo della Prima Repubblica, che inizia, plasticamente con le monetine contro Craxi.

“Non avevate a tirare quelle monetine!” Ogni tanto mi diverto ad apostrofare con questa espressione in vernacolo fiorentino gli astanti, anche qualche giovane che non porta responsabilità della gogna del terribile 1992-93: è il mio modo per rispondere a chi si lagna del disfacimento italiano dei nostri tempi.

Non sopporto i piagnistei per una situazione generale che, ad onta delle rincorse individualiste sempre più disperate a trovare le scorciatoie che non esistono, acceleratasi con Monti alla fine del 2011, come una pallina su un piano inclinato ha preso velocità e non dà segni di voler decelerare. E poi sono tanti quelli che conosco che per ignavia o furbizia, la moralità figuriamoci ma anche l’ideologia sono state virtù accessorie prevalevano l’invidia e una cattiveria quasi “bosniaca”, accompagnarono quella stagione golpista ed io ne conosco molti, non farò nomi e non posso perdonare.

Il riformismo di Craxi è l’occasione persa dal nostro Paese per darsi una prospettiva identitaria modernizzata, altro che sovranismo, nel disordine mondiale che succedeva alla caduta del Muro. La sua sconfitta ci ha consegnato ad una discesa sociale ininterrotta ed all’irrilevanza geopolitica, nonostante il geniale tentativo di Berlusconi nel 2002 a Pratica di Mare di superare con l’impegno di collaborazione fra la Nato e la Russia, alla presenza di Putin e G.W. Bush, la dottrina Brzezinski di sfondamento ad est. L’assassinio di Gheddafi e la tribalizzazione della Libia certificheranno la disillusione di un ammaraggio dolce dalla tempesta post-sovietica.

Intanto onoriamo il bel libro di Filippo Facci “30 aprile 1993” (che verrà presentato oggi dalla Fondazione Craxi), giornalista di vaglia e di straordinario coraggio, che rinfresca la memoria a chi quegli avvenimenti li ha sofferti e ne ricostruisce il dispiegarsi sul filo di una cronaca incalzante per tutti quelli tagliati fuori anagraficamente oppure distratti allora dalla vita o peggio ancora quanti hanno rimosso quella stagione.

Io la ricordo bene. Ero nell’occhio del ciclone, a capo di una grande azienda energetica del più importante Gruppo italiano, il tempo non ha attenuato il peso sullo stomaco di quel braccaggio che era la cifra dei moralisti già senza morale e la cultura giuridica della società civile acclamante la ghigliottina. Facci ce la fa sentire ancora carnalmente viva. I proclami del pool di Milano, i media assatanati di galera, i giornalisti feroci ed irridenti desiderosi di liberarsi dei loro padrini politici a cui dovevano carriera e prebende, un’imprenditoria piagnucolosa cresciuta nella protezione di Stato che si fingeva concussa, le plebi forcaiole ed il popolo sgomento, una politica impaurita sprofondata in vergognosi mea culpa, l’indegna abolizione dell’immunità parlamentare.

Ma non Bettino Craxi. La Nazione, mi pare, alla sua morte titolò, con una foto in apertura a piena pagina, “L’ultimo gladiatore”, nel senso dell’ultimo irriducibile combattente inevitabilmente destinato alla sconfitta, il film di Ridley Scott non era ancora uscito, a cui detti un’interpretazione forzatamente romantica che mi inorgoglì. Eravamo davvero soli ora.

Facci ci racconta la sua velata amarezza nell’esilio di Hammamet nel rilevare che Forza Italia in nemmeno sei mesi faceva numeri, ereditando i voti del “famigerato” CAF, Craxi-Andreotti-Forlani e degli italiani richiamati alla realtà dalla gioiosa macchina da guerra di Occhetto, inimmaginabili per un PSI che negli anni Ottanta era avanzato di solo quattro punti percentuali con una leadership forte ed una classe dirigente, al cui confronto impallidiscono gli “ininfluenti” attuali, che avevano portato l’Italia a diventare la quarta potenza economica mondiale.

Epperò, su questo punto, mi sento di ribadire un ragionamento sviluppato in dettaglio nel numero 21 della rivista Il Nodo di Gordio, ma esposto in più di un incontro pubblico. Che alla Prima Repubblica occorresse una riforma istituzionale in grado di reggere la rottura dello status quo della guerra fredda era perfettamente chiaro a Craxi che l’aveva perseguita per l’intero arco degli anni ’80. Cossiga e la sua famosa lettera di denuncia sul precipitare degli eventi ci arrivano nell’estate del 1991 quando l’URSS è già in liquidazione. Questa constatazione del resto non cancella il fatto inoppugnabile, su cui troppi glissano, che il quadripartito DC-PSI-PSDI-PLI, senza i repubblicani di Giorgio La Malfa attratti nell’orbita scalfariana, quelle elezioni politiche della primavera del 1992 le vince. Eccome se le vince, con maggioranze parlamentari largamente autosufficienti – 346 su 630 deputati alla Camera e 163 su 315 al Senato. Ed il differenziale tra PCI-PDS e PSI è minore di tre punti percentuale.

La Magistratura, per farla breve, non ratificò un bel niente, ma entrò a gamba tesa, e non l’avrebbe mai più ritirata, nel giuoco politico e determinò le condizioni per l’esclusione da parte di Scalfaro, subentrato subito dopo Capaci per effetto delle dimissioni di Cossiga, della candidatura naturale di Craxi alla Presidenza del Consiglio.
Questi sono i fatti, se parliamo di liberaldemocrazia. Certo che c’era uno scontro in atto, come c’era stato altre volte, ma non più drammatico di come lo si viveva ai tempi del governo Tambroni nel 1960 oppure per l’assassinio di Aldo Moro e della sua scorta nel 1978. Certo che avvertivamo la durezza della fase e la necessità di un salto di qualità politico, non eravamo né miopi né sprovveduti, ma la violenta escalation giustizialista non ci lasciò spazio di manovra, al netto delle vigliaccherie, osannate, che furono tante e degli eroismi, occultati, che comunque ci furono.

Il mondo stava cambiando, ma si poteva risparmiare all’Italia un’altra rottura storica, esistevano le condizioni per affrontare Maastricht e la transizione epocale coscienti del ruolo conquistato nel consesso internazionale dopo la tragedia bellica. Altri, Germania sopra tutti, ci sono riusciti, e partivano da situazioni geopolitiche forse ancora più complesse. E non si può dire che il gruppo dirigente socialista non possedesse una visione lungimirante della crisi che preconizzava la fine del blocco sovietico e non proponesse una soluzione gradualista per impedire quella deriva puntualmente avvenuta che è la madre della pericolosa instabilità che percorre la cerniera euroasiatica dal Baltico fino alla Crimea. Ma quali nani e ballerine! Il 45º congresso socialista del maggio 1989 all’Ansaldo di Milano, una grande assemblea di popolo, ha il suo fuoco sulle “prove competitive” che attendono il nostro sistema economico in forza della realizzazione del Mercato Unico Europeo e nell’apertura alle istanze democratiche e riformiste dell’Europa Comunista. Nella sua relazione il Segretario socialista riafferma che “il socialismo democratico dell’Europa occidentale deve essere un protagonista nel dialogo aperto con i riformatori dell’Est” e lo dice davanti a Brandt, a Burns, a Delors, a Hart, a Lamentowicz, a Miller, a Pozsgay, al figlio di Nahy, a Shimon Peres, ad Andrej Sacharov.

Lo stesso concetto ripete ed è un grande merito del nostro autore l’avercelo rammentato, il 3 luglio 1992 nel celebre discorso sul finanziamento irregolare, in cui chiama invano il sistema politico-istituzionale ad una prova di responsabilità e di coraggio ed invita l’Europa a guardare, cito testualmente, “al proprio riequilibrio interno ma anche all’altra Europa che si è liberata dal comunismo ma che rischia di restare ancora separata e divisa non più, come è stato detto, dalla cortina di ferro, ma dal muro del denaro”. Il 5 agosto Occhetto gli scrive “con amicizia”, per chiedergli il suo appoggio indispensabile per far accogliere la domanda di adesione del PDS all’Internazionale Socialista, l’8 marzo dell’anno dopo Craxi ne viene praticamente sbattuto fuori, come ci riporta sempre il nostro autore.

30 aprile 1993 – Perché tutto è iniziato lì – Il Tazebao

È andata così, cioè molto male per il Partito Socialista cancellato quando celebrava il suo centenario ed anche il nostro Paese non se la passa tanto bene. Quel 30 aprile 1993 davanti al Raphael il rito espiatorio con cui si intendeva sacrificare l’ultimo grande leader socialista non ha funzionato. Quelle monetine con cui l’odio manovrato voleva segnare fisicamente il trapasso storico, ha invece avviato il nostro declino inarrestabile ed ha vanificato il miracolo compiuto nel dopoguerra per risollevarci. Leggere Facci forse non fa bene al mio umore, ma sicuramente fa bene alla nostra Storia. Non siamo tutti colpevoli.

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