Dal 30 luglio 2020 il pianeta ha vissuto quasi centomila situazioni di conflitto, sommosse, scontri armati, proteste, violenze, attentati. Fra queste, la continuazione della guerra nello Yemen, della quale i media occidentali parlano sempre meno.
Dal 2020 la pandemia di Covid-19 ha unito i Paesi del mondo contro un nemico comune, senza però che i vari governi abbiano imparato la lezione: essere uniti contro un altro millenario nemico comune, la guerra. Invece la storia insegna che non esiste peggior sordo chi non vuole sentire, e in numerosi Paesi persistono situazioni di crisi.
Uno scenario desolante
Secondo i più recenti dati ACLED (Armed Conflict Location and Event Data Project) gran parte del Pianeta è impegnato in una qualche forma di conflitto, dove per conflitto si intende non solo una guerra vera e propria, ma in modo più ampio una qualche manifestazione di lotta, fino a eccessi come in Myanmar con oltre 3.500 morti dopo il colpo di stato dei militari, o il Messico, dove le violenze hanno causato ad oggi più di 8.000 vittime, e la Siria, diversi Paesi dell’Africa, e lo Yemen. Di contro, in molti casi è stata proprio la pandemia a esacerbare tensioni, sfociate in aperte crisi. Un esempio è Cuba, dove le severe restrizioni hanno fatto precipitare il Paese in un clima quasi post-bellico, con lunghissime file di fronte ai negozi di generi di prima necessità, soprattutto medicinali e alimentari. Vi è poi la questione Afghanistan, che meriterebbe un approfondito discorso a parte.
In panorama mondiale non è certo incoraggiante, se si considera anche il fenomeno dilagante del terrorismo internazionale. In Africa si registrano conflitti in 31 Stati, con circa 300 differenti milizie e formazioni combattenti. I punti più incandescenti sono Burkina Faso (scontri di tipo etnico-tribale), Egitto (miliziani fondamentalisti che fanno capo all’Isis, o Daesh), Libia (guerra civile con presenza di formazioni irregolari straniere), Mali (scontri fra esercito regolare e gruppi ribelli), Mozambico (scontri tra forze regolari e guerriglieri RENAMO), Nigeria (guerra contro fondamentalisti islamici), Repubblica Centrafricana (scontri armati a sfondo religioso fra cristiani e musulmani), Repubblica Democratica del Congo (gruppi ribelli), Somalia (guerriglieri di Al-Shabaab), Sudan (in particolare nel Darfur), Sud Sudan (gruppi ribelli).
In Asia ci sono guerre in 16 Stati, con circa 200 formazioni combattenti: Afghanistan (da agosto 2021 con il ritorno dei Talebani), Myanmar (gruppi ribelli, dittatura militare e sterminio dell’etnia Rohingya), Filippine (militanti islamici), Pakistan (militanti islamici), Thailandia (colpo di stato e dittatura instaurata nel 2014). Altre problematiche sono in Cecenia (militanti islamici), Ucraina (crisi politica e guerra fra separatisti e filorussi in Donbass), Daghestan (militanti islamici), Nagorno-Karabakh (aggressione da parte dell’Azerbaijan con supporto turco).
In Medio Oriente oltre 250 formazioni combattenti si stanno scontrando in sette Paesi: Iraq (esercito contro Isis), Libano (crisi economica, povertà), Territori Palestinesi (sottoposti a occupazione israeliana), Siria (guerra civile), Yemen (caso particolare dove si combatte una guerra costituita da più guerre).
Nelle Americhe vi sono scontri armati in sette Paesi con oltre una trentina di formazioni combattenti: (Colombia (esercito contro ribelli), Messico (guerra al narcotraffico), Venezuela (scontri interni per il potere). In sintesi, il 2021 è stato caratterizzato da guerre in 70 nazioni, e nella maggior parte dei casi sono situazioni che durano da decenni e delle quali non si intravvede soluzione a breve termine.
Caso Yemen e impotenza ONU
La guerra in Yemen, e la devastante crisi umanitaria che ne è derivata, in un territorio che già aveva il triste primato della povertà, hanno determinato una situazione drammatica con circa 50mila vittime, in maggior parte civili, fra marzo 2015 e novembre 2022. Sette anni di conflitto hanno costretto circa cinque milioni di persone, fra cui oltre due milioni di bambini, a lasciare le loro case, e si stima che l’80% della popolazione (25 milioni) siano in condizioni di emergenza umanitaria che richiederebbe priorità assoluta.
Com’è noto, la guerra nello Yemen ha avuto origine dal fenomeno della Primavera Araba del 2011, al quale alcuni governo occidentali non sono estranei. Il Paese è precipitato in una rivolta contro il presidente Ali Abdullah Saleh, sostituito da Abdrabbuh Mansour Hadi, il quale però non è stato in grado di trasportare il Paese attraverso la transizione politica, e la situazione di crisi ha favorito l’ascesa delle milizie Houthi, sostenute dall’Iran.
Da allora la situazione è precipitata. Il presidente Hadi ha dovuto affrontare vari attacchi anche da parte delle forze fedeli a Saleh (assassinato a Sanaa nel 2017), una crescente insicurezza alimentare e una crisi economica dilagante.
La guerra vera e propria scoppia nel 2014, quando il movimento musulmano sciita Houthi ha preso il controllo della provincia settentrionale di Saada e delle aree limitrofe, e ha continuato a guadagnare porzioni sempre più ampie di territorio, fino ad occupare la capitale Sanaa, costringendo Hadi alla fuga. Il conflitto si è intensificato nel marzo 2015, quando l’Arabia Saudita, e altri otto stati in maggioranza sunniti, hanno lanciato attacchi aerei contro gli Houthi, fedeli al presidente Saleh, con l’obiettivo di ripristinare il governo di Hadi.
L’Arabia Saudita ha giustificato il proprio intervento in Yemen affermando che l’Iran sostiene gli Houthi con armi e supporto logistico, accusa che Teheran continua a negare.
Da quando sono scoppiate le violenze, le condizioni della popolazione nello Yemen sono rapidamente peggiorate, portando il Paese sull’orlo della carestia e del collasso economico. Carenza di cibo e acqua, di servizi igienici e assistenza sanitaria, nonché la diffusione di colera e difterite, hanno gravato sulle condizioni di vita della popolazione (bambini in primis), che manca degli elementari bisogni primari. A tutto ciò si è recentemente aggiunto il Covid, che ha fatto aumentare il tasso di mortalità del 30%, in una situazione in cui risulta estremamente difficile avere dati certi, a causa della chiusura del Paese verso il mondo esterno, soprattutto a livello di comunicazione, oltre ai frequenti attacchi alle strutture sanitarie.
Secondo i dati delle Nazioni Unite, dal 2015 a oggi le vittime della guerra sono almeno 250.000, e circa 4 milioni gli sfollati. Lo Yemen è di fatto un paese raso al suolo.
In questo desolante scenario, suona come una beffa la decisione del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite di non rinnovare il mandato del gruppo di esperti che avrebbe dovuto monitorare le violazioni dei diritti umani. La mozione, che proponeva il rinnovo per altri due anni dell’organismo, era stata presentata dai Paesi Bassi, ma è stata respinta con 21 voti (fra i contrari Cina, Cuba, Pakistan, Russia, Venezuela e Uzbekistan) contro 18 a favore (Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia).
L’ONU dimostra quindi ancora una volta (come se ce ne fosse stato bisogno) di essere sostanzialmente un enorme baraccone da circo. E d’altra parte, il fatto è spiegabile solamente considerando che il Consiglio di Sicurezza ONU è composto da cinque membri permanenti che, al tempo stesso, sono i principali produttori ed esportatori di armamenti del mondo.
Lo Yemen è diventato così uno dei Paesi più pericolosi in assoluto, dopo essere uno dei più poveri, e a rischio soprattutto per gli operatori dell’informazione: diversi giornalisti sono sopravvissuti a condizioni di detenzione disumane.
Una guerra fatta di guerre
Cominciata come guerra civile, il conflitto yemenita si è presto trasformato in una guerra internazionale, e i motivi sono evidenti, a partire dalla posizione geografica estremamente strategica. Nel 2015 in campo è entrata l’Arabia Saudita, che ha creato una coalizione con Emirati Arabi, Sudan, Bahrein, Kuwait, Egitto e Qatar, e il supporto logistico e di armamenti da parte di USA, Gran Bretagna, Francia e Israele, mentre sul fronte opposto, a sostegno delle milizie Houthi, si sono schierati Iran, Nord Corea, Eritrea e il movimento sciita libanese Hezbollah.
Da allora la guerra è stata ininterrotta, con l’ulteriore discesa nell’arena dell’organizzazione AQAP (Al-Qaeda Arab Peninsula) e la locale diramazione del sedicente Stato Islamico, che hanno occupato territori nel sud del Paese, dando vita a un secondo fronte di conflitto interno, che si è ampliato a comprenderne un terzo, con la mobilitazione dei secessionisti del Consiglio di Transizione del Sud (TSC), sostenuto dagli Emirati Arabi, ma non del tutto dall’Arabia Saudita, fra i quali sono sorte complicazioni bilaterali.
Un inestricabile intreccio di conflitti locali e internazionali, che hanno origine principalmente per tre motivi:
- impedire alle milizie filo-iraniane di prendere il potere;
- contrastare la conquista di territori da parte di organizzazioni legate al terrorismo islamico;
- e infine il controllo dei corridoi strategici, via mare e via terra, delle risorse energetiche.
Le variabili sono innumerevoli
Una di queste riguarda il ruolo degli Stati Uniti, che nel marzo 2015 (sotto la presidenza di Barack Obama) avevano dato il via libera ai bombardamenti aerei sauditi contro gli Houthi (e contro la capitale Sanaa, d’inestimabile bellezza e patrimonio Unesco). Un impegno logistico e strategico, confermato durante la presidenza di Donald Trump, ma bruscamente interrotto con l’elezione di Joe Biden, che punta invece apertamente a un cessate-il-fuoco e a riallacciare i negoziati con l’Iran sul suo programma nucleare. Il segretario di Stato americano, Antony Blinken, ha ribadito che la risoluzione del conflitto in Yemen rimane una delle principali priorità della politica estera degli Stati Uniti.
Sette anni di guerra, e la fine non si riesce ancora a vedere. Nel 2018 un accordo fra il governo yemenita e i ribelli Houthi era stato raggiunto con la mediazione delle Nazioni Unite (Accordo di Stoccolma): includeva un cessate il fuoco, il ritiro delle truppe dalla città portuale di al-Hudayda, l’apertura di un corridoio umanitario e uno scambio di prigionieri. Ma non è bastato a porre un freno al conflitto. L’ultimo fronte aperto è nella regione strategica di Marib, ancora sotto controllo del governo sostenuto dalla coalizione saudita. Sette anni di guerra con un enorme tributo, in termini di vite. Il segretario generale dell’Onu António Guterres più volte ha definito la situazione umanitaria yemenita come “la peggiore carestia che il mondo abbia visto da decenni”.
Dalla fine del 2020 gli Houthi controllano la maggior parte dei governatorati situati a nord e centro del Paese, il Consiglio di Transizione del Sud (STC) controlla invece parte dello Yemen meridionale (principalmente la città di Aden e Socotra) e il governo centrale detiene il resto dei governatorati meridionali e orientali.
Quali prospettive?
Recentemente, l’Arabia Saudita, per la quale lo Yemen si è trasformato in una sorta di palude come che gli americani si sono trovati ad affrontare in Vietnam, sta cercando una soluzione diplomatica che consenta almeno di “salvare la faccia”, proponendo un’iniziativa per mettere fine alla guerra e attuare un cessate-il-fuoco su scala nazionale, ma l’iniziativa è stata respinta dal movimento Houthi, che non credono alla sua attuabilità, poiché non garantirebbe una revoca completa del blocco imposto sull’aeroporto internazionale di Sanaa e sul porto di al-Hudayda dove transita, insieme al porto di Al Salif, l’80% delle importazioni dello Yemen, compresi beni alimentari, carburanti e materiale sanitario. È molto probabile invece che continueranno il loro assalto e che avanzeranno nei territori ancora sotto il controllo del presidente Mansur Hadi, in esilio a Riyadh.
Sul piano regionale gli Emirati Arabi Uniti, principali alleati dei sauditi, si sono ritirati dalla guerra ma conservano una roccaforte sulla costa che ne garantisce l’espansione marittima fino al Corno d’Africa. Il suo supporto allo Yemen del Sud ha resuscitato il vecchio progetto di separazione della regione meridionale costiera dallo Yemen unificato.
L’Arabia Saudita contava su Egitto e Pakistan, ma entrambi hanno esitato a farsi coinvolgere direttamente sul campo, lasciando Riyadh a combattere una guerra senza vere capacità militari, nonostante la sua avanzata forza aerea, grazie alla costante fornitura da parte dei governi occidentali, soprattutto Washington e Londra.
A questa debole posizione saudita, si contrappone quella rinvigorita degli Houthi, non più classificati come organizzazione terroristica a Washington. I ribelli hanno compreso rapidamente la debole posizione di Riyadh e hanno intensificato i loro attacchi con i droni al cuore delle infrastrutture economiche saudite, prendendo di mira impianti petroliferi e aeroporti. La iniziale offensiva saudita, che aveva l’obiettivo di mettere in sicurezza i confini meridionali del regno e respingere l’influenza iraniana, non ha avuto successo, e ha determinato il fallimento della cosiddetta “Dottrina MBS”, la ostentazione di forza mirata a un’opinione pubblica saudita scettica rispetto all’ascesa al vertice del governo di Mohammed bin Salman, che aveva bisogno di una rapida vittoria nello Yemen per aumentare il proprio consenso.
Mohammed bin Salman ha quindi interrotto la vecchia rete di alleanze e ha optato per una guerra aperta, credendo che sarebbe diventato il padrone dello Yemen. Di conseguenza, oltre a Saleh, gran parte delle tribù del nord ha cambiato campo schierandosi con gli Houthi.
In assenza di alternative reali che permettano una ripresa, i gruppi locali potrebbero non vedere un reale beneficio nella fine delle ostilità, perché la proposta saudita non chiarisce come la pace e la ricostruzione economica potranno ripartire quando i bombardamenti aerei si saranno fermati. Oggi la guerra nello Yemen ha generato nuove forze che sembrano andare oltre la capacità dell’Arabia Saudita, che ha contribuito a questa distruzione, di arginare il conflitto o di ribaltare la situazione.
La ricostruzione dei fatti qui proposta può essere giustificata dal fatto che pochi si interessano allo Yemen. I media danno poca risonanza ad un problema che non solo è lontano dal mondo occidentale ma appare di natura prevalentemente interna, ma la realtà delle relazioni internazionali, tuttavia, conferma che ci sono ben precise ragioni di politica economica e di economia politica (che non sono la stessa cosa), per dare svolta decisiva.
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