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Quale futuro per le macerie?

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“Se guardi la Siria non solamente oggi o negli ultimi due giorni, ma nell’ultimo secolo, puoi notare come sia sempre stata diversificata. È sempre stata un melting pot di religioni e di etnie. Senza questa diversità non ci sarebbe la Siria“.

Questa frase appartiene al presidente siriano Bashar Al-Assad e, analizzando meglio la situazione attuale in cui versa il paese macerato da dieci lunghi e pesanti anni di guerra e da scelte politiche miopi, forse anche volutamente tali, di attori internazionali, sarebbe meglio parlare delle tante piccole e diverse Sirie in grembo alla grande Siria.

Per fornire un quadro più chiaro possibile del totale khaos che regna nel paese, partiamo, scusate l’eufemismo, dallo scenario bellico: lo schieramento delle forze in campo catalogandole come filogovernative e filo-ribelli e le rispettive zone da esse controllate.

Le forze armate regolari siriane

Le forze armate siriane sono costituite dall’Esercito arabo siriano (SAA, Syrian Arab Army), dalla marina, dall’aviazione, dai servizi di intelligence e dalle Forze di difesa nazionale (NDF, National Defense Forces) [1]. Bashar al-Assad è comandante in capo delle forze armate siriane.

Il Quinto Corpo [2] era inizialmente un’associazione di milizie, che è stata poi incorporata nella struttura militare ufficiale nel 2016. Si tratta di un ramo speciale dell’esercito che le forze russe hanno attivamente contribuito a stabilire e che recluta da altre parti della popolazione rispetto ai rami regolari del SAA. Si tratta di individui che hanno già completato il loro servizio militare, funzionari pubblici, ex membri della milizia e, in particolare, ex ribelli. Diverse milizie filogovernative, sia locali che straniere, stanno operando in Siria a fianco delle forze armate regolari. Tali milizie giocarono un ruolo chiave nella sopravvivenza del governo di Assad e furono coinvolte in molte offensive militari e nell’applicazione della sicurezza locale durante tutto il conflitto. Gli esperti hanno operato una distinzione tra milizie locali, come l’NDF, e milizie non siriane composte da combattenti stranieri, principalmente sostenuti dall’Iran.

Le Forze di difesa locali [3] (LDF, Local Defense Forces), istituite dall’Iran, comprendono milizie locali che hanno operato al di fuori delle strutture militari ufficiali ma sono state formalmente integrate nelle forze armate siriane nel 2017. Oltre alle milizie filogovernative siriane, i combattenti stranieri sciiti sono stati mobilitati dall’Iran e inviati a combattere a fianco del governo di Assad. I gruppi più importanti includevano gli Hezbollah libanesi, la Brigata afgana Fatemiyoun, la Brigata pakistana Zeinabiyoun, così come varie milizie sciite irachene che sono membri delle Forze di Mobilitazione Popolare Irachena e combattenti dello Yemen. Le milizie palestinesi come il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, il Comando Generale, l’Esercito di Liberazione Palestinese affiliato alla SAA e la Liwa al-Quds hanno anche sostenuto l’esercito del governo nel conflitto.

Le forze armate anti- Assad

Le Forze Democratiche Siriane [4] (SDF Syrian Democratic Forces) sono una forza multietnica guidata da curdi, arabi e altri gruppi etnici. È stato creato nel 2015 per sostenere la coalizione guidata dagli Stati Uniti nella guerra contro l’ISIS. È considerato un’apparecchiatura di sicurezza ad ampio spettro che conduce operazioni di contro insurrezione, pattuglie (locali), operazioni di controllo, operazioni di detenzione e di ‘pulizia’. Le forze curde sono state il principale partner di terra degli Stati Uniti nella lotta contro l’ISIS e sono state da loro fornite di addestramento e attrezzature militari. A partire da novembre 2019, la SDF continua a mantenere ruoli di sicurezza significativi nel nord-est della Siria, ma la situazione è soggetta a rapidi cambiamenti. L’SDF è dominato dalle unità di protezione del popolo curdo (YPG, Yekîneyên Parastina Gel), che hanno contribuito a stabilire l’SDF nel mese di ottobre 2015 e che forniscono le sue forze di combattimento di base e in gran parte garantire la sua leadership. I YPG sono stati istituiti nel 2012 come l’ala militare del Kurdish Democratic Union Party (PYD), una sezione siriana del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK).

A partire dal febbraio 2020, nella Siria nord-orientale, la SDF controllava la maggior parte dei governatorati di Raqqa e Hasaka, parte del governatorato di Deir Ez-Zor a nord-est dell’Eufrate, e parti del governatorato di Aleppo intorno a Manbij e Kobane, e l’area intorno a Tal Rifaat.

Gli Asayish [5] sono le forze di sicurezza interne curde e svolgono vari ruoli di sicurezza che vanno dalla polizia all’antiterrorismo. L’Asayish è composto da sei rami: polizia stradale, forze antiterrorismo, unità femminile, sicurezza dei checkpoint, sicurezza generale e criminalità organizzata. Le forze antiterrorismo si occupano di operazioni di sicurezza che coinvolgono rapimenti, terrorismo, attacchi suicidi, cattura di fuggitivi e intelligence. Forniscono anche supporto alle operazioni SDF/YPG. Asayish ha centri di comando in ogni cantone della regione controllata dai curdi, alcuni dei quali operano indipendentemente l’uno dall’altro. A metà del 2017, Asayish stima la sua forza tra i 10.000 e 12.000 membri.

Fonti locali hanno notato che l’SDF/YPG ha arbitrariamente arrestato e ucciso indiscriminatamente civili durante i raid anti-ISIL (Islamic State of Iraq and the Levant). Sono stati segnalati anche arresti arbitrari e sparizioni forzate di persone ritenute affiliate all’ISIS o a gruppi armati dell’opposizione. Inoltre, è stato riferito che migliaia di donne, uomini e bambini hanno continuato ad essere internati o detenuti illegalmente, alcuni di loro detenuti in condizioni deplorevoli in campi di fortuna non idonei a soddisfare i loro bisogni fondamentali.

Ci sono stati anche resoconti di emarginazione degli arabi e persecuzione dei cristiani in materia di governance e chiusure temporanee di scuole che hanno rifiutato di adottare il curriculum curdo. Nel governatorato di Deir Ez-Zor, i residenti arabi hanno denunciato la mancanza di servizi, la discriminazione, la coscrizione forzata e il mancato rilascio dei prigionieri [6].

Le elezioni di maggio e gli scontri ad Al-Tanf

Mercoledì 21 aprile, il presidente siriano Bashar al-Assad ha presentato la sua candidatura per la rielezione il mese prossimo, in un voto presidenziale derubricato dai governi occidentali e dagli oppositori politici come una farsa. Come si può leggere sul quotidiano online Notizie Geopolitiche [7]:

“I ministri degli Esteri di Italia, Gran Bretagna, Germania, Usa e Francia hanno chiesto alla popolazione di boicottare le elezioni”.

La data delle elezioni, le seconde che il paese affronta dall’inizio della decennale guerra, è stata fissata al 26 maggio 2021. I potenziali candidati interessati ad affrontare alle urne al-Assad hanno un periodo di dieci giorni, iniziato lunedì 19 aprile, per presentare le richieste di nomina.

Secondo la costituzione siriana [8] dovranno ottenere l’approvazione di almeno 35 membri del parlamento del paese composto da 250 seggi e dominato dal partito Baath di al- Assad. Sei aspiranti alla presidenza hanno presentato richieste, tra cui l’avvocato Faten Nahar, figlia del generale Ali Nahar. È la prima candidata presidenziale donna della Siria. Un altro candidato è l’ex deputato Abdullah Abdullah del Partito dell’Unione Socialista, visto come vicino ad al-Assad e al suo partito. La costituzione siriana del 2012 permette al presidente di scontare solo due mandati consecutivi, anche se tale regola è stata esentata durante il voto del 2014 che ha visto al-Assad assicurarsi l’88,7 % per vincere un terzo mandato contro altri due candidati.

“Come molte altre dittature, usano le elezioni per ricostituire il loro potere” ha detto ad Al Jazeera l’accademico e attivista siriano-svizzero Joseph Daher [9]. “In precedenza, si sarebbero visti i candidati in televisione con il ritratto di al-Assad dietro di loro. È uno scherzo. È così che accade tutto il tempo.”

Sempre Daher ha riferito che non c’è una valida opposizione politica nelle aree controllate dal governo siriano. Ha aggiunto che gli unici gruppi con un certo sostegno popolare hanno sede in aree che non sono detenute dal governo di al-Assad, come le forze democratiche siriane curdo-arabe nel nord-est e gli ex affiliati di al-Qaida Hay’et Tahrir al-Sham e i loro alleati a Idlib nel nord-ovest.

Il quotidiano online Notizie Geopolitiche [10], riporta, nella sezione “Qui Medioriente”, la notizia dei bombardamenti in atto da parte dei servizi segreti russi e siriani ai danni di una “base terroristica” mimetizzata a nordest della città di Palmira, sede di addestramento dei terroristi. Questi ribelli, sempre secondo quanto riportato dal sopracitato quotidiano, etichettati subito come affiliati a “gruppi Jihadisti”, stavano progettando un attacco a edifici governativi, in segno di protesta, in vista delle elezioni del 26 maggio. Il contrammiraglio Alexander Karpov, vicedirettore del Centro per la riconciliazione delle parti in conflitto, ha sostenuto che “gruppi jihadisti” si trovavano nella zona di al-Tanf, nel governatorato di Homs in mano ai ribelli siriani e “controllata dalle forze armate statunitensi” dal 2016. L’inospitale zona di 55 km ospita circa 7.000-10.000 civili siriani fuggiti dall’esercito di Assad e dall’ISIS durante la decennale guerra civile che ha ridotto il paese in un pugno di macerie [11]. Al-Tanf, dall’inizio del conflitto, ha ospitato cinque fazioni ribelli, tra cui i Leoni dell’Armata Orientale, le Forze del Martire Ahmad al-Abdo, l’Esercito delle Tribù Libere, l’Esercito del Commando Rivoluzionario (Maghawir al-Thawra (Mat)) e la Brigata dei Martiri di al-Qaryatayn.

La presenza americana, nonostante il ritiro delle truppe dal territorio siriano voluto da Donald Trump, ritiro al quale aveva allegato anche l’ormai famoso tweet “gli Stati Uniti hanno assicurato il  petrolio” [12], è forte anche nell’area di Ain Dewar, nella provincia di  Al-Hasakah, nell’estremità nord-orientale.

Come Gianni Bonini, ispiratore de Il Tazebao, scrive nel nuovo numero di Le Sfide, rivista della Fondazione Craxi: “avamposto americano che congela il limes di Assad e i Russi sull’Eufrate” [13]. Di fatto, l’airstrike della sera del 25 febbraio sulle milizie filoiraniane del valico tra Siria e Iraq, sull’Eufrate a nord di quello di Al-Tanf in mano americana

“ha inaugurato la stagione mediorientale della presidenza con un atto bellico che ha inteso segnalare la indiscussa superiorità tecnologica e di intelligence anche nel settore tradizionale della guerra sul campo” [14].

Seguendo sempre il ragionamento di Bonini, sembra che gli americani, consci dell’impossibilità di controllare la regione, siano convinti della necessità di alimentarne il caos. La caparbietà dell’amministrazione Biden di interrompere la continuità con l’amministrazione precedente, costante tipica della politica estera americana, “rischia di far cadere Washington in un’imboscata di sua iniziativa” [15], sono queste le parole di Raghida Derham, Founder and Executive Chairman del Beirut Institute.

Come ben ricorda Matteo Gerlini [16], storico e analista di relazioni internazionali, docente presso La Sapienza, su Le Sfide nel suo articolo “Oriente e Occidente fra Dittatura e Democrazia”, la presenza dell’ISIS nella regione, ha messo in discussione l’assetto post mandatario del Vicino Oriente e dei suoi confini e “posto una lapide” sulle mobilitazioni popolari che sbrigativamente sono chiamate primavere arabe. A tale revisionismo, l’amministrazione Trump aveva risposto con gli Accordi di Abramo.

Ritornando alle elezioni di maggio: milioni di persone sfollate a causa della lunga guerra in Siria non potranno votare. La notizia dell’apertura delle ambasciate siriane per la registrazione degli elettori è stata accolta con disappunto dai rifugiati in Libano, che hanno anche espresso la loro frustrazione nei confronti della comunità internazionale. I rifugiati siriani in Libano sono stati distribuiti nella valle della Bekaa e sui confini settentrionali del paese da quando sono arrivati in Libano, con la maggior parte di coloro che hanno partecipato alla rivoluzione contro Assad concentrati nella zona di Arsal. [17]

Lo scontro nella città di Qamishlo

Nella notte di martedì 20 aprile sono scoppiati pesanti scontri tra combattenti curdi appoggiati dagli Stati Uniti e gruppi armati fedeli a Bashar al-Assad, nella città di Qamishli, all’estremità nord-est della Siria, che hanno causato vittime e feriti da entrambe le parti. I combattenti locali della milizia sostenuta dal regime, nota come National Defense Forces (NDF), hanno ucciso un comandante delle forze di sicurezza curde Asayish, parte delle forze democratiche siriane (SDF) appoggiate dagli Stati Uniti, in un posto di blocco SDF nel centro della città di Qamishlo. Le forze curde hanno respinto l’attacco e gli scontri sono continuati nel quartiere di al-Tay durante la notte, lasciando diversi morti e feriti dal lato sostenuto dal regime.

Fonti provenienti dalle file degli Asayish [18] hanno riferito mercoledì, 21 aprile, che controllavano parti del quartiere Tay e avevano preso il controllo di due checkpoint NDF.

Qamishli è sotto il controllo ‘condiviso’ delle forze curde sostenute dagli Stati Uniti e delle truppe di regime e della milizia affiliata all’Iran. Le forze militari siriane controllano un’area di circa un terzo dello spazio della città, tra cui Tay, sotto il controllo dell’NDF, un altro quartiere vicino e l’aeroporto nella periferia meridionale della città. L’NDF e le forze curde si sono scontrate diverse volte dal 2016, ma il regime siriano ha cercato in gran parte di evitare tensioni con l’SDF e ha chiuso un occhio sul loro controllo delle città abitate da curdi dopo la rivolta del 2011, concentrandosi, invece, principalmente sulla lotta contro le fazioni ribelli che cercano di rovesciare il governo di al Assad. Il regime inoltre non ha bloccato gli stipendi per i dipendenti statali nelle aree SDF. [19]

Gli scontri più violenti tra l’SDF e i combattenti pro-Assad hanno avuto luogo nel 2016 a Qamishlo e nella vicina Hasakah, portando i curdi a catturare la maggior parte di entrambi, lasciando circa un terzo di Qamishlo e il 10% di Hasakah sotto il controllo del regime.

In questi scontri tra le due fazioni, le tribù locali giocano un ruolo chiave. Come specificato da Kurdistan24 [20], i leader tribali allineati con il governo siriano hanno nuovamente fatto pressione sugli arabi nel nord-est della Siria affinché disertassero dalle forze democratiche siriane (SDF) e si unissero al regime. L’articolo datato febbraio 2021 testimonia come le figure tribali fedeli al governo di Assad hanno rilasciato una dichiarazione in cui chiedono alle tribù arabe, in particolare nella provincia di Hasakah, di respingere le SDF.

Il giornalista Angelo Gambella [21], sul suo profilo Twitter, ci tiene aggiornati sulla complicata situazione siriana e pone l’accento sull’“interventismo” delle tribù arabe: nella controversia di Qamishlo, la NDF, lanciato il contrattacco con l’aiuto di forze tribali, è riuscita a riconquistare alcuni degli edifici perduti nel quartiere di Tayy e ha preso il controllo di nuove aree in Hilku (area scolastica) e quartieri di Al-Zohoor.

A gennaio 2021, una grande quantità di polizia militare russa ha attraversato le aree controllate dalla SDF, una piccola parte di loro sono stati schierati presso la base aerea di Taqba e la città di Ain Issa, nel governatorato di Raqqa. La destinazione della maggior parte di questi rinforzi è la città di Tell Tamr e la città di Qamishli, dove la situazione è deteriorata dopo che la SDF ha bloccato l’ingresso di merci e truppe alle posizioni della NDF all’interno della città. La Russia potrebbe avviare negoziati tra le due parti al fine di raggiungere un accordo. Nel frattempo, la situazione è peggiore nella città di Hasakah, dove le posizioni di governo sono molto ridotte e l’influenza russa è troppo debole finora.

Venerdì 23 aprile, dopo che le forze Asayish hanno riconquistato aree perdute nel quartiere di Hilku e hanno fatto nuovi progressi nel quartiere di Tayy, è stato raggiunto un accordo tra NDF e Asayish con l’intervento della Russia. L’accordo prevede il ritiro delle forze filogovernative dal quartiere di Tayy fino alla strada meridionale, che sarà sotto controllo congiunto in questa sezione. D’altra parte, una cassetta di sicurezza (“security box”) sarà istituita nel quartiere di Tayy sotto il controllo delle forze filogovernative.

E l’Europa dov’è?

Gianni Bonini, sempre su Le Sfide, ha riportato un passaggio dell’intervista del presidente francese Macron lasciata per Le Grand Continent. Macron, a voce dell’intera unione, dice:

“Per noi Europei è molto difficile far rispettare le cose quando gli Stati Uniti d’America non sono dalla nostra parte… questa è la nostra debolezza oggi, ed è emersa pienamente in Siria”. [22]

Esiste una soluzione a tutto questo khaos ad portas? La risposta la troviamo nella storia imperiale romana e prende il nome di “diplomazia coercitiva”. Il sistema di sicurezza imperiale, conclude Bonini nel suo contributo su Le Sfide, era imperniato sulla creazione di una serie di stati clienti cuscinetto in grado di garantire i confini in un delicato equilibrio fra forza e debolezza.

Come scrisse lo storico militare Edward Luttwak, “i Romani conquistarono il proprio Impero con poche battaglie e molta diplomazia coercitiva”.

Bibliografia delle fonti

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