Ci sono state molte polemiche dopo la notizia dei tanti rifiuti da parte dei giovani, che spesso percepiscono il reddito di cittadinanza, di offerte lavorative.
Non è una novità che il sistema italiano disistimi merito e spirito d’impresa. E che imprenditori, commercianti, liberi professionisti siano, culturalmente, marchiati come evasori o sfruttatori, pur contribuendo e non poco alla tenuta del sistema che li detesta. Non è certo una scoperta che ci sia una massa, nutrita nei numeri, costosa e votante, di persone che non sostengono la collettività, che prendono senza dare, senza l’ambizione o la voglia di migliorare la propria condizione. Costoro incrinano, di fatto, le basi di una società che, per sua natura, dovrebbe partire dalla reciprocità e contribuiscono a generare, con ragionevole certezza, la sensazione di un discrimine ampio tra garantiti e non garantiti, che tutto sommato se la passano pure meglio di loro.
Sebbene al costo di estreme inefficienze, l’Italia non punisce chi non voglia lavorare, non premia chi costruisce, non sostiene imprenditoria e libere professioni, elemento di dinamismo nell’economia e di costante rinnovamento. Il reddito di cittadinanza, di cui si è tornati a parlare dopo i tanti rifiuti di fronte ad offerte lavorative – talvolta sì, truffaldine o esageratamente al ribasso, ma del resto la concorrenza di Amazon, Facebook e gli altri è serrata – è stato l’ultimo perverso ritrovato, figlio di una cultura e vetusta e inefficiente che, però, vanta sempre proseliti. L’assistenzialismo di Stato non ha mai portato cambiamenti significativi, nemmeno ai beneficiari; persino nel caso tedesco il sistema del reddito e dei centri per l’impiego non garantisce di uscire dalla trappola del precariato. Lo Stato dà qualcosa – qualche briciola a fronte di ciò che prende dalle forze produttive – in compenso ottiene completa fedeltà e controllo. Insomma, per due spiccioli si prende la libertà e tiene in pugno una massa di bisognosi e indolenti, destinata, per altro, a crescere.
Indietro tutta
Mentre l’Italia si arrovella su queste quisquilie, il mondo ha compiuto degli scatti in avanti e il discrimine tra l’Italia e il Mundus Furiosus che prima era già corposo si è ulteriormente acuito ed è forse incolmabile. È bene premettere che, per le profonde fratture, per le segmentazioni, è molto difficile parlare di un mercato del lavoro in Italia. Questo concetto prevedrebbe comunque l’esistenza di meccanismi coerenti, più o meno prevedibili e studiabili. È, invero, un sistema, estremamente disfunzionante, che si è provato a riformare tra infinite ritrosie. Il riformista Marco Biagi – che ci ha donato anche il concetto di benchmark, unico sistema sensato per migliorarsi – ha pagato con la vita la volontà di adeguarsi al mondo post-1989. Tra le varie segmentazione una delle più complesse è quella dei giovani, esclusi sistematici dal mercato del lavoro ma in ciò ci sono una molteplicità di colpe. Anche dei giovani stessi.
L’importanza delle pre-competenze
Uno dei maggiori limiti del sistema italiano è che, salvo rare eccezioni, lo studente non ha modo di apprendere metodi di lavoro e competenze necessarie per ogni mansione, al di là del singolo percorso di studio. Approda nel lavoro, anche molto formato, spesso in ambiti specifici e anche richiesti, ma privo di quelle competenze che sono essenziali per ogni lavoratore. Le competenze, per alte che siano, non portano automaticamente nulla. Chiamiamole pre-competenze, trasversali e richieste nel lavoro ma non solo: attitudini al lavoro di squadra, alla rendicontazione, al controllo dei risultati, alla reportistica, alla soluzione dei problemi al dialogo e alla mediazione.
Senza un lavoro paziente di relazioni, oggi essenziali per tutti e non solo limitate ai social, senza umiltà, che non vuol dire piegarsi a paghe da fame ma capire come entrare e consolidarsi a seconda del singolo mercato e degli altri, senza pazienza, ascolto, perché gli altri hanno la nostra stessa dignità, senza costruzione quotidiana e quindi continuità non si ottengono risultati.
TINSTAAFL, “There is no such thing as a free lunch” ovvero “Non ci sono pasti gratuiti”. Cerchiamo di capirlo presto altrimenti sarà Nomadland. Per restare agli acronimi, TINA: non ci sono alternative.
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