A colloquio con Daniele Ruvinetti, autore per Formiche e analista geopolitico per la Fondazione Med-Or.
A margine dell’incontro Anuman di Tolfa promosso dall’On. Alessandro Battilocchio abbiamo contattato Daniele Ruvinetti, esperto di scenari strategici, autore per Formiche, analista geopolitico per la Fondazione Med-Or. Con lui abbiamo fatto un quadro sul Mediterraneo e sul ruolo dell’Italia.
Nel nostro Paese scontiamo una storica ritrosia verso l’estero, frutto in parte del nostro atavico provincialismo. La stampa ne è, ahinoi, uno specchio fedele.
“Rispetto ad altri paesi dedichiamo troppo poco spazio alla lettura e all’analisi delle vicende estere, che, in un mondo globale, ci influenzano molto più di quanto possiamo pensare. Una delle poche eccezioni nei grandi quotidiani è Repubblica, diretta da Maurizio Molinari che anche grazie alla sua direzione è diventata molto sensibile ai temi di politica estera. Il baricentro dei media è sempre spostato sui fatti di casa nostra, spesso poco significativi: è un limite che, volenti o nolenti, prima o poi, dobbiamo superare”.
Nel Medioriente costantemente travolto dal caos spicca, e i fatti degli ultimi tempi lo testimoniano di nuovo, il Libano, un paese di cristallo sia per la crisi economica sia per quella istituzionale-politico.
“Il Libano è fragile. È da tempo in condizioni estremamente precarie. Tra pochi giorni sarà un anno dall’esplosione del porto, che ha esposto al mondo tutte le fragilità del paese. Quanto succede è anche parte della perdita della capacità di influenza che i paesi Ue sono, o meglio non sono più in grado di smuovere: questa mancanza lascia spazi ampi che vengono colmati da altri. Le spaccature interne, nelle quali gli attori esterni si sono buttati, hanno scomposto il paese devastando l’equilibrio istituzionale. Il quadro si è complicato con la guerra siriana e il progressivo indebolimento di uno storico partner. I francesi vivono un periodo di difficoltà interna e stanno abbandonando non solo il Medioriente ma anche tutta l’Africa francofona e in questo faticano anche a trovare il bandolo della matassa a Beirut, dove invece per lungo tempo hanno avuto il pallino del gioco. Contemporaneamente l’Italia non sembra in grado di dare copertura politica all’impegno militare esercitato attraverso l’Unifil”.
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Si conferma quello che spesso diciamo. Il Libano è una cartina di tornasole per tutto il Medioriente.
“Tutto il bacino mediorientale è in una lunga e complessa crisi. Assad che traballa ma è ancora in sella, il mosaico libico, il conflitto nemmeno troppo sopito tra Israele e Iran. Non esagero quando dico che per il Medioriente è in uno dei momenti più complessi di sempre”.
Come Italia c’è ancora margine per inserirsi nuovamente e in Medioriente e, soprattutto, in Africa?
“Certamente. L’Italia è un paese che viene accettato molto bene in tutta quella regione ampia che gli americani indicano con l’acronimo MENA e che noi definiamo Mediterraneo Allargato. Siamo importanti, abbiamo connessioni, siamo accolti e ascoltati. Forse quello che serve è uscire un po’ dai nostri confini, dalle nostre comfort zone, lanciarsi con una proiezione più strategica. In fine dei conti, quello che dicevamo a proposito dell’interesse dei media e dei cittadini sugli affari esteri, si può anche traslare anche sul quadro politico. Va comunque detto che stanno crescendo centri di pensiero analitico e approfondimento su certi scenari strategici che sono un grande punto di appoggio per i policy maker, tra questi la Fondazione Med Or di Leonardo, che è composta da figure altamente qualificate su certi quadranti”.
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In questo caso, rigenerando l’esperienza ottomana, la Turchia si sta imponendo in tutte le aree strategiche.
“La Turchia è un paese molto interessante. È di fatto una “democratura”, una democrazia con un uomo forte al comando e adesso sta vivendo una fase abbastanza complicata ma significativa per lo sviluppo di tutta l’area. Però sta anche subendo una crisi economica e politica. Esternamente il presidente Erdogan sembra molto forte, ma comincia, come dimostrano le elezioni locali, a perdere terreno. Ha condotto una politica di espansionismo, complice il ritiro degli USA, iniziato tra la fine di Obama e l’inizio del mandato Trump. Ha saputo sviluppare una serie di business e sfruttare una posizione dove passano molti interessi. Lavora quotidianamente per conquistare diversi spazi in Africa. Dire che sia alla fine della sua parabola è difficile, sembra controllare molto bene la situazione nonostante gli scricchiolii comunque. Per questo la Turchia è un paese con il quale bisogna fare i conti: è nella Nato, gestisce la politica migratoria dell’Europa, occupa la Libia, si muove nei Balcani, nell’Eurasia, e chiaramente in Medio Oriente. Bisogna per forza dialogarci, perché si è imposta in contesti che contano e che ci condizionano”.
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Un altro attore che si sta imponendo è la Russia ma sconta delle notevoli difficoltà interne e una crescente ostilità.
“La Russia sfrutta spazi, sfrutta quelle crepe all’interno dell’Ue e dei rapporti occidentali, che si sono approfondite durante i mesi della pandemia. C’è da dire che l’effetto dell’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca sembra avere in parte sistemato alcune di queste spaccature. La Russia come la Turchia sta sfruttando due fattori per espandere la sua influenza nel Medioriente e in Africa: il vuoto lasciato dagli americani in quelle zone del mondo e la sua facilità nel mandare mezzi e uomini in giro per il mondo, visto il contesto politico che di fatto vede al potere un uomo forte. È una spregiudicatezza che gli stati di diritto occidentali non possono permettersi in molti casi. Mosca, come Ankara, la sfruttano come un vantaggio”.
L’Iran ha cambiato guida: Raisi, un uomo che rappresenta i centri del potere.
“Nel breve periodo non vedo possibili cambiamenti, Raisi impronterà il suo mandato sulla continuità. L’Iran è un attore rilevante ma non può impensierire gli Americani. Non a caso non c’è stata alcuna ritorsione dopo l’uccisione di Soleimani. Certo è che gli iraniani continueranno ad armare i gruppi all’estero. La tensione tra i paesi però non porterà risultati come nel caso dello Yemen”.
Vogliamo approfondire quest’ultimo aspetto?
“Lo Yemen è una crisi profonda, immensa: c’è un dramma umanitario in atto. Là si sono dimostrati i limiti operativi di paesi come quelli del Golfo che hanno grandi capacità tecniche e tecnologiche ma ancora scarsa esperienza operativa. La crisi yemenita è stata moltiplicata perché diventata area di scontro per procura tra sunniti e sciiti e soprattutto nella competizione contro l’Iran. L’unica speranza è che attori internazionali come gli Stati Uniti riescano a spostare peso diplomatico per trovare una soluzione negoziale nei colloqui sponsorizzati dall’Onu”.
Cosa possiamo aspettarci dal disimpegno USA dal Medioriente e dal loro privilegiare l’Indo-Pacifico?
“Il disimpegno degli USA dal Medioriente è una realtà. Gli spazi lasciati, purtroppo, non sono stati occupati dall’Europa ma da potenze come la Turchia e la Russia, che grazie alla loro agilità nel muovere risorse e mezzi stanno “colonizzando” pezzi importanti del Medioriente e dell’Africa, questo a medio-lungo termini può diventare un problema per l’Europa e per gli USA. Ne è un chiaro esempio l’importanza che la Turchia ha preso nella gestione dei flussi migratori verso l’Europa, sia tramite la rotta balcanica sia ora tramite quella libica. Oppure la presenza di aerei da combattimento russi in Libia, cioè praticamente di fronte alla base americana di Sigonella da dove partono i droni americani. Ora è chiaro che gli Stati Uniti si trovino a dover gestire i propri interessi strategici secondo priorità, e ora la priorità si chiama Cina. L’Indo Pacifico è il teatro di contenimento all’espansionismo cinese che Washington ha individuato. Il tentativo di smarcarsi dal Medio Oriente è anche per concentrare sforzi in quel quadrante. E però è anche vero che mentre gli Usa avviano questo disimpegno, il Medio Oriente aumenta le sue complessità e chiede agli americani un rinnovato interessamento, anche perché le potenze rivali dell’America si stanno muovendo su quel settore”.
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