Il Tazebao – C’è un Leone sul trono di Pietro, il mondo osserva e cerca di dare delle coordinate a ciò, di divinarne il significato. La figura di Robert Francis Prevost era lontana dai nomi più sussurrati, più menzionati ritmicamente nel totopapa che ha pervaso gli algoritmi dei dispositivi elettronici in queste settimane. Ma se la nomina è inaspettata, quel nome aleggia come un enigma sul palazzo apostolico, è arrivato il Leone che respinse Attila, quello dei lavoratori e della Rerum Novarum o quello della scomunica ai luterani? Ma soprattutto, mentre il mondo cerca di collocare Papa Leone XIV in una casella per fare di lui un progressista o un conservatore – un tentativo maldestro di prevedere le prossime mosse della Santa Sede in un mondo frammentato –, la domanda è un’altra: quali orizzonti ha il cattolicesimo politico?
Non è una domanda scontata, il crepuscolo dell’autorità pontificia sulla scena globale non è un fulmine a ciel sereno, è l’esito distillato di un ventennio, forse più, di lenta erosione. Le ultime due figure che hanno seduto al soglio di Pietro hanno tentato di imprimere una direzione, intraprendendo due sentieri divergenti.
L’uno, Benedetto, ha cercato nelle fondamenta, nel richiamo a un ordine antico – quello stesso del monaco di Norcia, faro della civiltà sulle rovine imperiali – la chiave per una rinascita occidentale. Un’aspirazione alta, quella ratzingeriana, a un consolidamento dottrinale che fungesse da argine contro il relativismo moderno. Ma le architetture della Chiesa, non diversamente da quelle politiche, necessitano di un apparato che ne condivida la visione. E qui, il progetto si arenò, sino al gesto – non per viltade – del “gran rifiuto”. Il sogno di un nuovo Montecassino svaniva tra i corridoi vaticani.
L’altro, Francesco, ha evocato il santo d’Assisi per scuotere le coscienze. Una spinta ideale verso gli ultimi, verso i perdenti della globalizzazione, una critica allo sfruttamento dell’uomo e della natura. La sua Laudato Si’ rimane un testo largamente frainteso, un’enciclica che travalica la facile etichetta “ecologista” per svelare una critica feroce ai meccanismi del capitale tecnocratico, alle false soluzioni di mercato, alla stessa retorica ambientalista che il potere mette in circolo. Eppure, anche questa voce si è rivelata incapace di veicolare il proprio messaggio. Ciò che del magistero bergogliano è stato amplificato dal circo mediatico globale è risultato essere, solo quella patina di “modernizzazione” dei costumi – qualche apertura sui temi LGBT, un’adesione acritica alle narrazioni dominanti su emergenze sanitarie – funzionale a un’immagine di progressismo addomesticato. Le sue invettive contro il capitale finanziario, le sue posizioni non allineate su scenari geopolitici cruciali – dalla Palestina alla Russia – sono state silenziate, quando non apertamente osteggiate.
Così, i due pontificati così divergenti tra loro, si consegnano alla storia come emblemi di una sostanziale impotenza. Il primo, d’ispirazione conservatrice, paralizzato dall’interno. Il secondo, di matrice progressista, neutralizzato e strumentalizzato dall’esterno, ogni qualvolta osava deviare dalla corrente. Il bilancio di questi due decenni segna un arretramento, una perdita di centralità e autorevolezza del cattolicesimo romano.
La nuova fumata bianca, dunque, si staglia su un orizzonte di aspettative necessariamente dimesse. Ma come un osservatore attento già ha notato, quella del Leone di Chicago è una Chiesa che parla di combattere il male, qualcosa che da molto non si sentiva più proclamato. Non resta che attendere e vedere se la roccia di Pietro sarà rialzata dagli agostiniani, dopo la parentesi gesuita.