In questi giorni abbiamo assistito all’avvilente spettacolo delle inaugurazioni dell’anno giudiziario, che rappresentano una ricorrenza periodica di analisi della giustizia. Ci uniamo anche noi, con analisi e rigore.
Il Tazebao – In primo luogo, si deve specificare che non è accettabile, perché autolesionistico, prendere delle posizioni di scontro, dove qualcuno, come si fosse allo stadio, parteggia a favore dei Magistrati contro la Politica e viceversa. Questa è una idiozia, perché lo Stato siamo noi e parteggiare pro o contro noi stessi è veramente cosa insulsa. L’approccio corretto è sempre costruttivo, ma questo non vuole dire che non vi possa essere dialettica, anche aspra. Questo non esime dal poter prendere posizione o dallo stigmatizzare determinati comportamenti. Il fatto è che dette attività interpretative si dovrebbero fondare su una visione complessiva sulla cosa pubblica. È quello che cerco di fare in questo articolo.
Inquisitorio e Accusatorio: un confronto tra modelli. Il caso italiano
Il tema delle separazioni delle carriere è di vitale importanza dal passaggio da un modello (di origine medioevale) Inquisitorio a quello Accusatorio, la cui origine è, addirittura, romanistica.
Nell’Inquisizione, l’indagante era anche Giudice, mentre nel modello accusatorio, romanistico, la dialettica accusa e difesa avveniva alla luce del sole.
L’origine romanistica trova la sua applicazione nel modello di Common Law, che più di tutti ha una derivazione dalla giustizia pretoria romana. Nella evoluzione del costituzionalismo moderno si viene a formare uno zoccolo duro di diritti legati al processo che viene denominato “giusto processo”, che in estrema sintesi si dipana intorno a pochi e semplici e basilari principi, oltre a quelli del Giudice Naturale predeterminato per legge, vi sono altri elencati in specifico dall’art.6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu), che concerne il tema dell’equo processo, della ragionevole durata (articolo 6 § 1), della presunzione di innocenza (articolo 6 § 2) e delle garanzie processuali dell’imputato in relazione al principio del contraddittorio (articolo 6 § 3).
Nell’ottica di tali garanzie, ruolo di primaria importanza ha il c.d. right to be heard, ossia il diritto ad essere ascoltati, riconoscimento all’imputato di potersi confrontare in giudizio con l’accusatore, previsto all’art. 6 § 3 lett. d della CEDU, nell’ambito del più ampio principio del contraddittorio disciplinato anche dalle costituzioni e legislazioni nazionali.
Il diritto ad essere ascoltati, in un confronto diretto con l’accusatore, sta a significare che il modello di riferimento è quello accusatorio.
Questo modello, a grandi linee, è stato ripreso dal nostro Legislatore, nella revisione costituzionale del 1999, all’art.111 costituzione che così recita: “La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata. Nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato […] abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico […]. Il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova. La colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore. La legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita”.
La parte sottolineata, l’inciso “in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale” è il nodo della questione. Tale nodo si è amplificato in conseguenza di una ripartizione correntizia all’interno della magistratura, ripartizione che non corrisponde pienamente alle aree politiche, quanto piuttosto, alla nascita di una sensibilità, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, in materia di indipendenza ed autonomia interna dei magistrati rispetto alle cariche direttive. Tale visione è sottesa alla questione della separazione delle carriere, perché le garanzie di indipendenza, imparzialità e terzietà, a ben vedere, nel “Giusto processo”, sono richieste al solo Giudicante, non all’accusa.
In altre parole, nel modello accusatorio, la garanzia di autonomia e indipendenza si ha nel contraddittorio e la terzietà del soggetto volto al rispetto della dialettica è fondamentale.
A rendere ulteriormente deflagrante la situazione, vi è, in Italia, un retaggio del modello Inquisitorio nell’obbligatorietà dell’azione penale, sconosciuta, per lo più, nei modelli tipicamente accusatori.
Questa situazione di guado fra i due modelli, però, ha delle sue ragioni che possiamo rinvenire in retaggi storici e contesti sociali che hanno indotto ad una situazione, in teoria, più sfumata, mettendo, comunque il Pubblico Ministero in un ruolo di imparziale funzionario dello Stato, il che sarebbe o dovrebbe essere presidio di libertà.
Le aggravanti e il “controllo sociale”
Vi è un ulteriore nodo sotteso, che non è spesso affrontato: il nesso fra Codice penale e ricadute sul processo. Il modello Inquisitorio costituiva presidio di un codice penale del controllo sociale, costituito da una miriade di reati (fra questi gli odiosi reati di pericolo presunto, quali, ad esempio, il passare con il rosso ad una segnalazione semaforica o di responsabilità oggettiva e, peggio ancora le norme penali in bianco) e l’inquirente diveniva il primo soggetto volto a scremare le situazioni più gravi da quelle meno, cioè era colui che, in un contesto di controllo sociale, a sua discrezione vagliava le ipotesi, in particolare in punto di applicazione delle aggravanti.
Il tema delle aggravanti, nell’opinione pubblica è quasi del tutto misconosciuto, quando invece è sintomo di un retaggio del modello del controllo sociale, perché viene attribuito alla pubblica autorità un potere discrezionale e valutativo, che in tema di tutela delle libertà non è mai cosa positiva.
In un siffatto contesto, dove il legislatore (di qualsiasi colore), all’incalzare della demagogia emozionale della folla (come ci ha insegnato il Manzoni) emette sempre nuove tipologie di reato, si assiste anche alla nascita di nuove fattispecie dovute all’evoluzione sociale (penso ai reati ambientali, a quelli informatici, ai reati finanziari e delle imprese…) porta ad una pletora di reati, che acuisce il ruolo del controllo sociale, ancora più esacerbato dalle nuove tecnologie.
Anche in punto di giustizia, purtroppo, vi sono mode, dottrine e teorie che dovrebbero essere ripudiate dagli operatori del diritto; una di queste è il concetto di “Pericolosità sociale”, che se è oggettivamente valutata in sede processuale, costituisce ponderazione della soggettività del reo (cioè di colui che è accertato che sia effettivamente l’autore del reato), ma se è attuata in sede antecedente alla condanna costituisce una deriva che porta automaticamente a modelli dittatoriali, irrispettosi dei diritti umani. Gli operatori nell’ambito della Giustizia penale sono vincolati al fatto (tipizzato nel reato) e solo a quello devono attenersi. Ovviamente, più il legislatore è “analfabeta”, ovvero incapace di definire la fattispecie con i crismi di chiarezza e tassatività, più l’ideale di libertà si liquefà, concedendo, giuoco forza, spazi all’interpretazione dell’operatore.
E la Presunzione di Innocenza?
Correlato a questo si deve riflettere al fatto che il Giusto processo presuppone il religioso ossequio al principio di Presunzione di Innocenza che è cosa ben diversa dalla Presunzione di non Colpevolezza vigente nel nostro antiquato modello, giacché con la seconda (specie a seguito delle affermazioni televisive del Dott. Davigo) si presuppone che un soggetto sia (sotto-sotto) colpevole, finché non è dimostrata la sua innocenza. Per questo motivo è ammessa, tollerata e talvolta incentivata la “Gogna mediatica” che si innesca al momento della (divulgazione) dell’avviso di garanzia.
Forse per evitare questo, basterebbe che vi fosse il rispetto di alcune basilari norme di civiltà: la preclusione ai giornalisti di accesso alle cancellerie e stanze dei magistrati e un uso più accorto delle conferenze stampa. Ma, come ho detto, il nostro paese presenta profondi arretramenti in punto di rispetto dei parametri tipici dei sistemi liberaldemocratici, che dovrebbero fondarsi sulla presunzione di innocenza.
La situazione è esplosiva, perché a partire dal caso «Traghetti del Mediterraneo» la Corte di Giustizia (europea) ha avuto occasione di precisare la portata del principio di responsabilità dello Stato membro per i danni causati in caso di violazione del diritto comunitario, imputabile ad una decisione di una giurisdizione suprema, dichiarando la manifesta violazione del diritto comunitario ed affermando che quest’ultimo «osta ad una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la violazione controversa risulta da un’interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale» e che «il diritto comunitario osta altresì ad una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto vigente» (paragrafo 46 della sentenza del 13 giugno 2006, Traghetti del Mediterraneo – causa C-173/03).
Questa vicenda portò alla apertura di una procedura di infrazione (la C-379/2010) nei confronti dell’Italia. Qualcosa il Legislatore ha fatto, ma il tema della ricerca di un equilibrio, in materia, sicuramente si ripresenterà, tenuto conto delle numerosissime sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo contro l’Italia in punto di distorsione e abuso dei provvedimenti cautelari, talvolta definiti dalla stessa Corte quali ipotesi di tortura. Si ricorda che l’Italia, in materia, ha più condanne della stessa Turchia.
E a proposito dell’inaugurazione
Quindi la sceneggiata e lo scontro che è avvenuto all’Inaugurazione dell’Anno giudiziario che ha visto la proclamazione dell’insulsa rievocazione del borrelliano “resistere, resistere, resistere” e la sacrosanta conclusione del Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Milano, Avv. Antonino La Lumia, autentico cultore del Giusto Processo, “procedere, procedere, procedere”, pone al centro una questione di ordine costituzionale, sulla ammissibilità che soggetti che devono attuare le disposizioni, possano opporsi all’espressione della sovranità popolare, pur in una legittima dialettica democratica, con la “volgarità”, perché intrinsecamente antidemocratica, di abbandonare l’aula del confronto, sale della democrazia.
Con piacere abbiamo assistito al fatto che i magistrati avessero in mano la Costituzione Italiana, però, sarebbe opportuno che riflettessero sull’art. 2 della Costituzione medesima “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”, che, come è noto, è una formula aperta che porta al recepimento della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e di conseguenza al rispetto delle relative sentenze della Corte preposta.
In conclusione
Dal quadro, mi pare che emerga una necessità di trovare un punto di equilibrio tra necessità di riforme dell’assetto generale e tutela delle funzioni costituzionali, perché si palesa, comunque, una sorta di schizofrenia di fondo fra progressi in punto di Giusto Processo e ulteriori aumenti di tendenze illiberali, quali quelle che emergono dalle recenti modifiche del codice della strada che vanno a minare il diritto di movimento, che sommato agli aumenti sanzionatori ivi presenti, stanno portando un diritto costituzionale ad essere un privilegio. Tendenza, questa, comunque perniciosamente diffusa anche ad altri diritti fondamentale come quello alla salute.
Spero di aver dato spunti di riflessione e di essere stato il più obbiettivo possibile, sapendo, al contempo, che, in verità, il tema della separazione delle carriere è un falso problema, perché, ad una analisi comparata (con la Spagna in particolare) emerge che il modello di compensazione previsto dal Consiglio Superiore della Magistratura pare non funzionare correttamente e, invece, di essere lo strumento di armonizzazione fra la necessaria autonomia ed indipendenza e limite al corporativismo, diviene strumento di frammentazione di parte.
Certo è che vedere ed aver visto soggetti con esperienza di politica militante ricoprire i ruoli di Vicepresidente del CSM non agevola al funzionamento dell’Istituto.
Allargando lo sguardo si comprende, però, una assenza nel nostro paese, forse anche per retaggio storico, del ruolo e indipendenza del funzionario pubblico che costituisce fisiologico contraltare rispetto alla possibile protervia del potere politico.