Con questo ciclo di approfondimenti, Il Tazebao ha cercato di indagare la questione razziale negli Stati Uniti, il complesso mosaico etnico-religioso, le convergenze tra gruppi, le radici di Black Lives Matter, fino ad arrivare al nuovo pantheon repubblicano di Biden che include proprio esponenti del Movimento.
Ed ecco l’ultimo articolo di Sabrina Tanini che analizza la frattura tra Movimento per i diritti civili e ambienti liberal-progressisti.
Estate 1964. Alla Convention Democratica di Atlantic City, in rappresentanza dello Stato del Mississippi si presentano due diverse e tra loro opposte delegazioni: i delegati bianchi eletti ufficialmente attraverso, però, un sistema di consultazione elettorale fortemente viziato da gravissime irregolarità; dall’altro i rappresentanti del MFDP, (Mississippi Freedom Democratic Party), portavoce delle rivendicazioni della popolazione di colore ingiustamente esclusa dal voto. Il presidente Johnson decise di opporsi alle richieste della delegazione del MFDP: poter sostituire con i propri delegati la rappresentanza “ufficiale” dello Stato del Mississippi durante i lavori della Convention. Per gli attivisti di colore ciò avrebbe significato il pubblico riconoscimento della loro legittimità politica e morale e dell’eventuale facoltà di esercitare il diritto di voto in sede di designazione del futuro candidato alla presidenza degli Stati Uniti.
Il compromesso proposto – solamente due delegati su sessantotto sarebbero stati ammessi al voto – creò una frattura insanabile nella compagine variegata degli attivisti.
Molti delegati afro-americani abbandonarono la Convention accusando di tradimento sia il Partito Democratico sia gli alleati ebrei liberali, che come nel caso di Allard Lowenstein, avevano svolto un ruolo importante nel tentativo di mediare tra le due posizioni. Nel rifiutare il compromesso proposto che delegittimava la presenza e il peso politico della delegazione afro-americana, il leader del MFDP Robert Moses motivò così la decisone:
«Loro dicevano che non potevamo avere i nostri seggi alla Convention perché non eravamo legali. Questo è il modo più semplice per perdere di vista l’intera questione. Dicono che non siamo legali perché non ci siamo attenuti a quelle che sono le leggi statali del Mississippi ma sono proprio le leggi del Mississippi che sono illegali perché non si attengono a quelle che sono le disposizioni legislative degli Stati Uniti» (fonte: Burner E. “And Gently He Shall Lead Them: Robert Parris Moses and the Civil Rights in Mississippi”, N.Y. University Press, 1994).
Ciò che accadde nell’estate del 1964 può essere considerato, come molti storici americani hanno sottolineato, come il punto di svolta dell’intero Movimento: la scissione tra liberali e radicali aprì la porta alla dinamica della rivoluzione razziale e alle rivendicazioni separatiste come scopo ultimo della lotta sociale. Gli attivisti ebrei – che fossero politici, intellettuali o avvocati – all’interno del Movimento rappresentarono posizioni politiche tra le più eterogenee.
Lontani dall’essere un unico monolite di facile etichettatura, per etnicità, per passione politica, o per religione, i militanti ebrei che si impegnarono a favore della causa dei neri americani agirono quasi esclusivamente a titolo personale. E come stava accadendo nel caso degli attivisti afro-americani anche gli ebrei si trovarono a combattere per una causa comune attraverso l’uso di metodologie diverse e rappresentando ideali spesso in contrasto tra loro.
La svolta ‘massimalista’
Dopo gli avvenimenti di Atlantic City l’alleanza già compromessa con i liberali ebrei fu definitivamente distrutta quando parte dei leader della comunità afro-americana dichiararono che il loro obiettivo principale era il “Black Power”. Il potere nero era uno slogan in certo senso nazionalista; e il fatto che, più o meno improvvisamente, nella prima metà degli anni Sessanta fosse divenuto popolare tra i neri dei ghetti significò che c’era stato un concomitante sviluppo di tale sentimento.
Nonostante le vittorie giuridiche e legislative del Movimento, la vita quotidiana nel ghetto rimase di fatto invariata rispetto alle condizioni del decennio prima. E per quanto riguarda la comunità afro-americana del Nord, i sentimenti di sfiducia e disillusione si espressero in ostilità, prima verso coloro che erano più vicini e che avevano fatto promesse “non mantenute” (come il leader moderato Martin Luther King) poi verso coloro che erano stati gli alleati più stretti della causa dei neri americani, la comunità ebraica. Nel 1964 il giornalista Charles E. Silberman (fonte: “Crisis in Black and White”) analizza gli avvenimenti che portarono alla rottura della coalizione:
«I motivi giacciono nel profondo della storia del movimento dei diritti civili, e particolarmente nel fatto che quel movimento è stato dominato dai bianchi fino ai tempi recenti. Tra la leadership nera e la sua base c’era un divario che poteva essere colmato solamente dai bianchi. La comunità nera dipendeva dall’appoggio politico del liberali bianchi, sindacati, organizzazioni politiche o religiose, perché le loro forze erano troppo esigue per assicurare qualche probabilità di vittoria».
Il fatto di dover dipendere dagli alleati bianchi creava un atteggiamento psicologico di fondo che forse venne in un primo tempo coscientemente represso. Inoltre, il fatto che alcuni leader come King considerassero l’esperienza ebraica nella storia come un modello da seguire, esacerbò il problema.
Alcuni studiosi hanno sottolineato che se davvero sono esistite similitudini nelle esperienze storiche delle due comunità queste vadano ricercate nella zona “dell’invisibile” all’interno del mondo psicologico dove tutto si fa ovviamente più confuso. La dicotomia incontro-scontro, integrazione-separazione che ha caratterizzato la relazione tra i due gruppi trova quindi una spiegazione nella tensione psicologica insita nel costante monito a prendere gli ebrei come esempio, l’odio che nasce per l’altro è in fondo almost the same. E, come in un gioco di specchi, quegli elementi che negli anni Cinquanta e Sessanta costituirono i principi ispiratori della coesione tra gli attivisti delle due comunità divennero i motivi di massima tensione.
Linee di divisione
I comunisti ebrei e afro-americani per esempio cominciarono a dividersi quando la questione della guerra in Medio Oriente e la persecuzione degli ebrei in Unione Sovietica vennero introdotte nella polemica e il problema del riconoscimento delle diverse identità etniche rappresentò per alcuni un ostacolo alla collaborazione.
Il conflitto in Medio Oriente rappresentò uno dei maggiori punti di divergenza: nel momento di massima tensione tra paesi arabi e Israele, quando nel mondo islamico si moltiplicarono dimostrazioni di massa chiamando a raccolta i fedeli alla “Guerra Santa” e in Europa il presidente De Gaulle decise di sospendere qualsiasi aiuto militare agli israeliani, la maggioranza degli ebrei americani si schierò a favore dei loro correligionari.
Di contro, molti attivisti e associazioni in rappresentanza della comunità nera identificarono la loro posizione con quelle dei fratelli “africani” quindi degli arabi, schierandosi, usando toni accesi, contro l’esistenza stessa dello Stato d’Israele. Fu la guerra dei sei giorni infatti che provocò la definitiva rottura di quel “legame psicologico” tra i neri e gli ebrei americani.
Per concludere esplicative sono le parole di uno dei maggiori intellettuali afro-americani, Cornell West; le sue affermazioni possono essere un monito e un auspicio per ogni movimento politico che voglia essere determinante al progresso sociale del proprio Paese:
«Una delle cose migliori che possiamo produrre in una società democratica sono i movimenti sociali. Ma ancora, non possono nascerne di significativi se non viene compreso pienamente l’importanza dell’universalismo che può generare connessioni, coalizioni, alleanze. Non si tratta di una questione che riguarda esclusivamente il mondo delle idee. Il punto cruciale è questo: se l’intellettuale considera se stesso come parte di una tradizione che si è sempre battuta per la libertà, completamente votato a quella battaglia, allora le armi a sua disposizione diventano risolutive».