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Alessandra Romano: “L’innovazione nasce in ambienti ad alto tasso di diversità. La scuola? Sia la prima a praticare l’inclusività”

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Intervista ad Alessandra Romano, Ricercatrice Senior di Didattica generale e Pedagogia sociale all’Università di Siena e autrice del libro “Diversity and Disability Management”.

Il Lavoro, da un punto di vista squisitamente costituzionale, è definito come un diritto di prestazione ovverosia vale la pretesa del singolo affinché la Repubblica intervenga per renderlo effettivo, impiegando a tal proposito le dovute risorse finanziarie. Inoltre, mettere in condizione di lavorare chi è svantaggiato è il cuore della nostra Carta Costituzionale: è “compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Siamo partiti da queste riflessioni nell’intervista che Alessandra Romano, Ricercatrice Senior di Didattica generale e Pedagogia sociale all’Università di Siena e autrice del libro “Diversity and Disability Management” (Mondadori, 2021).

La percentuale di italiani con disabilità oscilla tra la stima percentuale ISTAT del 5.2 e quella Censis del 7.9. Ma chi oggi sta lavorando è soltanto una persona su quattro (o addirittura su sei). Al di là delle evidenti implicazioni economiche, senza inclusione lavorativa, può esserci inclusione sociale?

“I dati su riportati costituiscono un quadro forse fin troppo generoso rispetto agli scenari del mondo del lavoro: spesso le aziende preferiscono pagare ammende piuttosto che assumere persone con disabilità congenita o acquisita. Questo poiché alcuni datori di lavoro sono ancora convinti che una persona con disabilità possa essere più o meno capace nello svolgimento di una professione. L’ipotesi di partenza da cui muove il volume “Diversity & Disability Management” è che l’inclusione lavorativa costituisca la leva strategica per l’inclusione sociale. Volevamo indagare come progettare ambienti di lavoro accessibili, dove l’accessibilità non fosse solo una questione di “accomodamenti ragionevoli” ma anche una condizione per l’innovazione dell’azienda. Abbiamo condotto ricerche applicate alle organizzazioni e alle imprese per tre anni. Gli esiti di questi studi ci hanno aiutato a formalizzare i modelli operativi e le pratiche di gestione attraverso cui i gruppi di lavoro, le aziende, le imprese possono essere supportati nello sviluppo di sistemi di valorizzazione del personale che in queste lavorano. Questo non ha a che fare solo con le “categorie considerate protette”, ma riguarda il ripensamento e la trasformazione dei modelli dell’impresa 2030. Le organizzazioni, in un mondo complesso, multietnico, super-globalizzato, in rapido cambiamento, si configureranno sempre di più come imprese ad alto tasso di eterogeneità e diversità”.

L’emergenza Covid 19 ha esasperato questi preoccupanti numeri?

“L’emergenza da Covid 19 ha sicuramente cambiato il modo stesso di intendere l’organizzazione del lavoro, aprendo la strada ad organizzazioni più flessibili, modulari e ubique del lavoro, citando Butera, molto meno assoggettate alla logica del presenzialismo. Questa flessibilizzazione di orari, modalità e procedure di lavoro ha, tuttavia, esasperato alcune fasce di professionisti già a rischio di precarizzazione o di esclusione dai circuiti lavorativi. Non mi sto riferendo solo alle persone con disabilità congenita o acquisita, che nel dibattito pubblico mediatico quasi mai sono citati, ma anche ai lavoratori e alle lavoratrici saltuarie, stagionali, che hanno incontrato un periodo di crisi e di incertezze senza precedenti. Si stima che circa il 30% dei lavoratori con disabilità abbia sospeso l’attività lavorativa durante il primo lockdown, uno su tre è stato collocato in lavoro agile ma spesso senza avere attrezzature e dispositivi necessari per lo smart working (Fonte: FISH-IREF 2020, con una ricerca condotta con 532 persone)”.

Vincenzo Falabella, presidente di Fish, Fondazione Italiana per il superamento dell’handicap, ha sottolineato alcune problematiche a livello giuridico “La legge 68 del 1999 non ha funzionato come avrebbe dovuto, imporre a un imprenditore un’assunzione non è mai visto di buon occhio. Teoricamente le multe sarebbero un deterrente, ma non lo sono. Spesso si preferisce pagarle o sono evase. La soluzione sta nella defiscalizzazione, diminuendo il costo del lavoro della persona con disabilità da parte dell’azienda”. Dal suo punto di vista, il legislatore dovrebbe prendersi carico di attuare una riforma in questo ambito? Oppure siamo davanti a un problema culturale che ripudia i lavoratori con disabilità come un carico improduttivo?

“Gli studi empirici cui faccio riferimento nel volume “Diversity & Disability Management” sottolineano che il primo ambito di intervento per la promozione dell’inclusione lavorativa sia la cultura organizzativa delle aziende e delle imprese. Per costruire ambienti accessibili e inclusivi, siamo chiamati a lavorare su tre livelli: il primo è con gli individui e i professionisti che abitano quei contesti; il secondo è con le culture organizzative, le teorie implicite, le norme tacite, spesso pregiudiziali, stereotipate, precritiche, che anche se non sono dichiarate apertamente, possono esprimersi nei comportamenti e nelle pratiche agite nei contesti professionali; il terzo è con le pratiche di lavoro, le routine e le modalità di gestione delle attività.

La constatazione che esistono già dei riferimenti normativi stingenti in materia di inserimento lavorativo, si veda il D.Lgs. 151/2015, ma che questi siano spesso inevasi, conduce a considerare il valore di approcci dal basso, di tipo bottom-up, che agiscano in modo concreto sulla cultura delle singole realtà aziendali e sulle istituzioni di riferimento sul territorio. Il primo step è validare quali sono le prospettive distorte, i pregiudizi, gli stereotipi e i giudizi di valore che spesso albergano nelle organizzazioni e che impediscono la possibilità di costruire nuovi schemi di azione e di pensiero molto più inclusivi e aperti al cambiamento”.

A questo proposito, molte ricerche hanno confutato tale pregiudizio. McKinsey, riferendosi alle persone con sindrome di Down, ha evidenziato che la loro presenza migliora la condizione aziendale su leadership, soddisfazione clienti, risoluzione dei conflitti, motivazione dei dipendenti, clima interno. Ancora, il rapporto “The Disability Inclusion Advantage”, realizzato da Accenture nel 2018, evidenzia come le aziende che eccellono nella inclusione lavorativa delle persone con disabilità abbiano in media ricavi superiori del 28% rispetto alle altre. Professoressa, l’evidenza empirica dei suoi studi, smentisce questo luogo comune e corrobora queste ricerche?

“Gli studi che ho condotto all’interno di percorsi di consulenze alle organizzazioni di tutto il territorio nazionale negli ultimi tre anni restituiscono un quadro piuttosto affine alle ricerche su menzionate: l’inclusione lavorativa premia, premia prima di tutto in termini di brand dell’azienda. Pensiamo ad Apple, che fa dell’accessibilità dei suoi dispositivi il suo punto di forza per conquistare un pubblico molto più ampio oltre i confini nazionali. Premia in termini di produttività e innovazione, laddove consente di valorizzare il contributo potenziale di ciascun professionista all’interno dell’organizzazione, di massimizzare i processi produttivi e di arginare il rischio di avere professionisti che sono sottoimpiegati rispetto al loro valore di contribuzione. Creatività e innovazione si collocano solo all’interno di gruppi eterogenei, composti da persone con differenti abilità, background, nazione, etnia, genere, etc.., dove ci sia confronto e scambio continuo”.

Con la pandemia lo smart working si è imposto nella nostra quotidianità: sotto l’egida del Governo, il lavoro a domicilio è parsa la soluzione migliore per tutelare la salute dei lavoratori. Ma questa nuova realtà lavorativa, magari in contesti non straordinari, può rivelarsi un’occasione di inclusione lavorativa per persone diversamente abili? O, al contrario, la vera inclusione sta nella autentica aggregazione in uno stesso luogo di lavoro?

“Non ci sono posizioni di massima che dovremmo assumere sullo smart working per le persone con disabilità, polarizzati necessariamente a favore o contro. Sarebbe auspicabile partire da un’analisi accurata delle condizioni materiali e contestuali dell’inserimento professionale. Per questo la metodologia della Consulenza Collaborativa Organizzativa che propongo nel volume costituisce un primo possibile orientamento metodologico per l’analisi delle condizioni ambientali dell’inserimento professionale delle persone con disabilità, e per la costruzione di un percorso di sviluppo di carriera che sia condiviso, scientificamente fondato, funzionale alle esigenze di tutti gli attori in gioco (lavoratori, dirigenti, datori di lavoro). Solo attraverso percorsi strutturati è possibile, difatti, individuare la soluzione in quel momento più sostenibile e percorribile per i lavoratori e per i datori di lavoro”.

In quest’ultima evenienza: sarebbe possibile correggere l’alienazione/emarginazione dello smart working creando spazi di coworking?

“Lo smart working non costituisce di per sé un’esperienza di rinnegamento della socialità professionale, laddove opportunamente organizzato e strutturato. Ciò che può creare alienazione sono condizioni ambientali ostacolanti. Assenza di dispositivi per la connessione digitale, barriere fisiche, cortocircuiti conversazionali, digital divide, sono condizioni non facilitanti che possono connotare con un’accezione negativa l’esperienza dello smart working da parte di alcuni lavoratori. Di convesso, il coworking si presta allo sviluppo di collaborazioni interprofessionali all’interno di un ambiente di confronto e dialogo. In questo caso, le diverse competenze, i saperi esperti di ciascuno possono contribuire alla creazione di prodotti e servizi di successo. In un contesto “a porte aperte” come quello del coworking, i lavoratori con disabilità possono trovare network relazionali che ne sostengono i processi di partecipazione e di crescita professionale. Questo non è scontato, soprattutto in assenza di un sistema integrato di gestione della diversità e della disabilità in azienda”.

Oltre al lavoro, è necessario che le persone con disabilità possano essere parte integrante delle nostre società fin dalla scuola. A Firenze la scuola media Dino Compagni, essendo sprovvista di una rampa, costringe i ragazzi disabili a entrare da dietro, non da davanti con tutti gli altri. Ecco, professoressa, lei cosa pensa del rapporto scuola-lavoro nel contesto dell’inclusività?

“Mi occupo di formazione degli insegnanti e degli insegnanti di sostegno già da diversi anni all’interno dell’Università di Siena. La scuola è la prima istituzione chiamata a praticare l’inclusività, in termini di politiche scolastiche, culture organizzative, e pratiche didattiche. Ho volutamente citato qui le tre dimensioni che in letteratura sono riportate anche dall’Index for Inclusion, un sistema di autovalutazione dei livelli di inclusività scolastica ampiamente in uso all’interno delle realtà scolastiche del nostro territorio. L’obiettivo era sottolineare che l’inclusività si esplica nella costruzione di un ambiente scuola che sia attento alle caratteristiche e alle esigenze di ciascuno e in grado di fornire sostegni alla piena partecipazione di tutti gli studenti e le studentesse. Già da tempo stiamo proponendo cordate con le aziende per la progettazione e realizzazione di percorsi di alto apprendistato che siano in linea di continuità con il percorso scolastico e universitario degli studenti e delle studentesse con disabilità. Quando si parla di scola, si corre il rischio di non tematizzare il “Dopo-scuola” e la realizzazione di una piena partecipazione alla comunità sociale nella vita adulta. Le esperienze di allineamento tra percorsi scolastici e inserimento professionale sono in questo quadro promettenti per costruire un’unica traiettoria di vita che parta dalla scuola e si sostanzi nel successo professionale nell’età adulta. Farci carico di promuovere queste esperienze e di formare professionisti che siano in grado di realizzarle è la sfida che come università ci attende e che scegliamo di affrontare”.

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