No, non si è parlato di terre rare. Il punto è sempre l’assetto del mondo. Si è ricreato un canale prioritario Mosca-Washington e la Russia si avvia ad essere cooptata nella coalizione anti-europea, e anti-cinese. Ma non tutto è perduto, se si hanno chiari attori, mosse, interessi.
«Potrei essere rinchiuso in un guscio di noce e tuttavia ritenermi Re di uno spazio infinito, se non fosse che faccio brutti sogni» (Amleto, Shakespeare)
Il Tazebao – È un passaggio nodale della storia recente, il summit in Alaska tra Putin e Trump. In questo excursus a volo d’uccello ma non privo di incursioni in picchiata ove necessario, nel quale la storia necessariamente si intreccia con la persistenza della geopolitica – disciplina totalmente iniziatica e afferrabile solo da pochi – e con una visione che qualcuno potrebbe definire distopica del potere, si tenterà, come sempre nella prospettiva originale, sincretica e relativista – non ideologica – de Il Tazebao, di fornire una spiegazione delle conseguenze del summit in Alaska. Al centro di questa analisi c’è ciò che a tutti dovrebbe stare a cuore: l’interesse dell’Italia.
Dal cuore dell’impero
«Poiché voi sapete tanto bene quanto noi che, nei ragionamenti umani, si tiene conto della giustizia quando la necessità incombe con pari forze su ambo le parti; in caso diverso, i più forti esercitano il loro potere e i piú deboli vi si adattano» (La Guerra del Peloponneso, Tucidide)
Si parte dal centro direzionale, la capitale dell’impero. Pur avendo adottato una promettente forma di federalismo – l’unico sistema politico che almeno sulla carta tutela la resistenza del cittadino al debordare dello Stato –, sapientemente modellata sugli esempi delle Province Unite e della Confederazione polacco-lituana (Alexander Hamilton sviluppa il concetto di un re eletto che ha delle affinità con il potere quasi-regio del presidente), il sistema nordamericano resta rigidamente oligarchico.
Al potere accede una ristretta oligarchia, come nell’Atene classica – non era democratica ma imperialista, plutocratica, ferocissima –, come nelle repubbliche di Siena, Firenze e Venezia, come a Londra, da quando la City ha preso il sopravvento sul vecchio mondo di Oxford; al netto di qualche operazione-simpatia, l’élite appartiene allo stesso ceppo (il principale vincolo di sangue con la casa madre), studia nelle stesse università – indispensabili nel riprodurre le élites e nel fornire loro le chiavi della comprensione del mondo e gli arcana imperii –, condivide le stesse credenze e, a quanto emerge, le medesime perversioni. Ogni impero affronta una crisi di valori interna, la capitale è sempre marcia e la piaga della droga – interessante notare che il fentanyl sia trasportato dal Canada – e della pedofilia andrà analizzata con coraggio, alla radice (impegno preso per Il Tazebao).
La sottile linea di divisione tra Repubblicani e Democratici va letta in chiave squisitamente geopolitica: gli eredi di Andrew Jackson si concentrano sulla Russia (anche per l’odio gnostico e protestante contro l’ortodossia), il Great Old Party è visceralmente ostile a Cina e Iran (in generale, islamofobo). L’alternanza nasce dalla necessità di alternare il nemico da combattere alla luce della schiacciante superiorità sia numerica sia culturale di coloro che sono visti come avversari, eredi di culture ultramillenarie (la Russia che si considera erede di Costantinopoli; la Cina e il profondo legame con l’Impero cinese e il confucianesimo; la Turchia può tornare a ordinare lo spazio, ergendosi a nuova guida della umma). Motivo per il quale devono sempre impedire una saldatura anche al costo di momentanee convergenze tattiche. In tal senso, ricollegandosi al summit di Anchorage, la Russia, come fatto da Hoover negli anni ’20 e da Roosevelt negli anni ’30, dopo essere stata isolata dal concesso internazionale, viene scongelata; seguiranno investimenti USA in Russia che andranno a rafforzarne l’apparato bellico.

In più, l’affermazione – sono parole di Putin a margine del vertice in Alaska – che «se Trump fosse stato presidente nel 2022 non ci sarebbe stata la guerra in Ucraina» è falsa o parziale. Poiché il Rimland o crush zone è frastagliato sì ma profondamente interconnesso, proprio l’avvio delle ostilità in Ucraina (la scelta russa di allungare il suo limes ha come precedente l’invasione della Finlandia per proteggere Murmansk e Arcangelo) è funzionale all’avvio di una fase di rettifica dei confini manu militari – Ucraina e Medio Oriente –, rettifica tutt’altro che disincentivata dal duo Londra-Washington, e proprio l’avvicendamento alla Casa Bianca permette all’oligarchia angloamericana di sganciarsi da un impegno diretto – già ridottosi durante la fase terminale di Biden – in Est Europa, che verrà subappaltato alla NATO europea, e di cooptare la Russia, combattuta ma non sconfitta, dissanguata sì ma anche avviata a una produzione autarchica che verrà sostenuta – come appunto negli anni ’20 e ’30 dagli USA, nonostante il tardivo riconoscimento diplomatico –, nel nascente dispositivo anti-cinese, anche se Pechino si è già portata avanti creando un mercato privilegiato con Giappone e Sud Corea (non Corea del Nord), possibilmente esteso a tutto il Sud-Est asiatico e, bisogna vedere gli sviluppi, anche all’India, che resta la testa di ponte anglosassone in Asia come al tempo del Grande Gioco.
«I spent a week in Sverdlovsk. Some engineers took me around the Ural Heavy Machine Building Works. It was one of the best-looking plants I have ever seen. (…) A building a quarter of a mile long was filled with the best American, British, and German machines. It was better equipped than any single shop in the General Electric Works in Schenectady.» (Behind the Urals: An American Worker in Russia’s City of Steel, John Scott)
Sempre nei Trenta, e non casualmente, la cooperazione economica tra USA e URSS, favorita dai citati Hoover (egli parlava apertamente di istallazione della tecnologia americana nelle fabbriche russe) e Roosevelt, raggiunge un nuovo picco al rialzo con invio di macchinari agricoli, macchine industriali, risorse, capitali e know how, che permettono di recuperare il terreno perso, attivare e far funzionare a pieno regime i poderosi kombinat, complessi di imprese integrate e complementari per la lavorazione delle materie prime, posti nel cuore della Russia asiatica (Magnitogorsk e Kuznetsk per la siderurgia, Karaganda e Kuzbass per sfruttare il carbone, unitamente alle fabbriche di trattori a Stalingrado e Celjabinsk e di auto a Mosca e Gorkji).
La straordinaria diga di Dneprostroi sul Dnipro è progettata dall’ingegnere e colonnello americano Hugh Lincoln Cooper, la fabbrica di locomotive di Lugansk – una delle più grandi nell’Europa di allora – si ispira alla Baldwin Locomotive Works, si copiano i processi di standardizzazione delle aziende dell’Illinois, e Wall Street presta denaro.

Mosca va verso la piena produzione su impulso americano; il tutto in preparazione della seconda guerra punica contro la Germania.
Nota un osservatore profondo come Federico Dezzani: «Gli USA sono più simili alla Russia che all’Europa ed il vertice in Alaska è l’ennesima prova. L’Occidente era un’invenzione utile a mantenere il controllo dell’Europa durante la Guerra Fredda. Ora si ritorna alla sintonia di fondo tra russi e americani: i grandi spazi, l’abbondanza di materie prime, l’architettura anonima e scadente, la massificazione aculturale e “religiosa”, l’economia verticalizzata e controllata da poche super-aziende, lo stesso modo di combattere basato non sulla qualità ma sulla quantità».
Torniamo a Trump. In una fase di sconvolgimento interno dovuto alla crisi economica, alla dissoluzione del mos maiorum, all’ingresso di nuove masse di immigrati che reclamano pari diritti e un pari accesso alla ricchezza (ci si può vedere un parallelismo con certe vicende della tarda età Repubblicana della Roma antica), al vertice dell’Impero è tornato il tycoon Trump, che mischia il machismo white trash a un tipo di comando dispotico quasi asiatico. Ha fatto fortuna sbattendo via i poveri e creando palazzoni negli ex bassifondi – non è una boutade il “piano” per Gaza –, frequenta la Russia fin dalla stagione della perestrojka ed è l’uomo che apre a Gorbacëv le porte della New York bene (non è dunque un alieno ai circoli che contano): è nato per intendersi con Putin, figlio anch’egli di quella stagione. Lungi dall’essere un liberal-conservatore classico, egli è populista al 100%, intenzionato a rivoluzionare l’architettura mondiale per garantire la prosecuzione del comando angloamericano. La pace è, appunto, pax americana una volta pacificato il mondo.
La guerra economica precede sempre quella politica. Come negli Anni ’30 del secolo scorso, l’attacco è preceduto da un’ondata di dazi (lo Smoot-Hawley Tariff Act di Herbert Hoover del 1930) e di politiche restrittive sull’immigrazione, allora principalmente anti-giapponesi e anti-europee. Ad aprire la strada all’ondata di dazi di Trump sono state le politiche green in campo economico, che hanno favorito la crisi dell’industria europea, e il sistema di valori gender, introdotti per accelerare il disfacimento della società.
Il primato inglese
«The most valuable commodity I know of is information.» (Wall Street, Oliver Stone)
Gordon Gekko squaderna in faccia una verità incontestabile al giovane Bud Fox. Una freccia nella faretra del serpente marino – al pari del controllo dei flussi finanziari – è, da sempre, il controllo dell’informazione, attraverso gli apparati, i servizi, i circuiti mediatici (anche alcuni di quella che si definisce controinformazione). Vero, verosimile, “vero” ripetuto fino a diventare vero: tattiche da sempre utilizzate per seminare panico o dubbi nel campo avversario. Soft power che si fa duro. Sembra sempre sul punto di rottura la Special Relationship tra Stati Uniti e Inghilterra, resta la conditio sine qua non per la vittoria finale degli anglosassoni. Sarà alla base dei prossimi anni: l’Inghilterra Labour (le misure di protezione sociale servono a tamponare le falle) va a braccetto con gli USA populisti perché la geopolitica vince sull’ideologia, ideologia che in questo caso nemmeno esiste; al centro c’è sempre e solo il mantenimento del comando. Londra in Europa, Washington verso il Pacifico.
«We have no lasting friends, no lasting enemies, only lasting interests.» (Winston Churchill)
E l’interesse permanente è, ovviamente, mantenere l’egemonia. L’Inghilterra, trasmesso il timone – e gli oneri – delle operazioni con la classica translatio imperii al gigante statunitense – per vastità e numero di abitanti vi si possono scorgere delle caratteristiche del Behemot –, assurge al ruolo di “Malta in grande”. Come gli USA, per la posizione geografica, incombono sul Pacifico, così le isole inglesi fronteggiano il Vecchio Continente, rappresentando una costante minaccia; in quest’ottica si comprende perché l’antica Roma abbia investito tanto nel pacificare l’allora Britannia (Cesare sa che ai Galli arrivano rinforzi anche da oltre Manica). Come alla vigilia della precedente guerra mondiale – vinta, seppur al prezzo dell’impero – la società inglese è frammentata e il dispositivo militare vetusto, ma il suo ruolo, come dimostra la capacità di allestire coalizioni europee in poco tempo – con buona pace della Brexit –, alle quali scaricare i costi della guerra (tattica che va avanti dal Settecento), resta intatto.
Vive le Roi !
« Pour moi, l’histoire de France commence avec Clovis, choisi comme roi de France par la tribu des Francs, qui donnèrent leur nom à la France. Avant Clovis, nous avons la préhistoire gallo-romaine et gauloise. L’élément décisif pour moi, c’est que Clovis fut le premier roi à être baptisé chrétien. Mon pays est un pays chrétien et je commence à compter l’histoire de France à partir de l’accession d’un roi chrétien qui porte le nom des Francs ». (Charles De Gaulle)
Parlare di Francia è parlare del passato. Di un passato bellissimo e glorioso. Di un paese che è stato uno dei centri propulsivi della Modernità. Il tanto criticato assolutismo regio – si pensi allo sviluppo guidato dall’alto del Re Sole – rappresentava un’altra strada per entrare nella Modernità, mantenendo sempre e comunque un legame con la tradizione e contenendo i nascenti animal spirits. Poi venne la Rivoluzione. La Francia, dalla battaglia di Bouvines, era il corpo del Re. Anche per questo l’Inghilterra ha combattuto due guerre dei cento anni (agli albori della potenza francese nel Tre-Quattrocento e quando la sapiente politica mercantilista di Luigi XIV minaccia il primato marittimo inglese) contro la Francia. La Francia di oggi non esprime un fattore di potenza, resta la testa di ponte privilegiata degli angloamericani sul continente – si pensi a quanto possa essere utile dal punto di vista militare l’Eurotunnel tra il Kent e la zona di Calais –, ma è strutturalmente debole. La scelta di puntare tutto su vino e moda, al pari dell’Italia, ha portato alla desertificazione industriale. Sarebbe un buon partner qualora prevalessero i sentimenti ostili alla NATO, ma ci vorrebbe un filo-sovietico De Gaulle, che non era particolarmente filo-italiano né filo-tedesco, e non se ne vedono in giro. Rivedere la collocazione della Francia equivarrebbe a smantellare tutto l’apparato della sua Repubblica, intrinsecamente massonica, gnostica, atea, materialista.
La guerra all’Europa è sempre… guerra alla Germania
La Germania, di contro, ha tutte le carte in regola non solo per tornare a essere, grazie alla vittoria elettorale di quella che si può considerare la “destra DC” di Merz – nativo della Renania –, motore economico europeo ma anche per essere il paese-guida in ottica militare della NATO europea. Con la benedizione di Londra, alla cui benevolenza si deve l’ingrandimento dell’allora Prussia – a partire dal renversement des alliances – e la riunificazione tedesca (come quella italiana). I pesanti stanziamenti per tenere in piedi il vallo ucraino vanno in questa direzione. La kultur tedesca è destinata a riemergere. La Germania resta il cuore geografico dell’Europa. Alleato indispensabile dell’Italia.
A margine del magnete tedesco, non si possono ignorare le vicende della Svizzera. Costretta sotto Obama a interrompere la pratica del segreto bancario, poi costretta a rompere il suo neutralismo imponendo sanzioni a Mosca, infine martellata di dazi; nel mezzo, una serie di fallimenti bancari accelerati dagli attacchi speculativi. Il capitalismo tende ad accentrare e semplificare. Dunque, la gestione dei flussi finanziari e della speculazione viene accentrata lungo l’asse Londra-Washington.
Il primato turco nel Mediterraneo di Levante
Fin dalla sua guerra per l’indipendenza, si ricordi che Lord Byron muore a Missolungi, la Grecia è un bastione anglofilo, oggi ancor più prezioso in funzione anti-turca. In Grecia si riversano da anni tonnellate di investimenti e il suo arco frastagliato di isole offre profondità strategica. Non è casuale il rinnovato attivismo a Creta. Tuttavia, l’ingombrante vicino turco ha più volte dimostrato di saper contenere gli appetiti ellenici. Prima la straordinaria vittoria contro l’armata di Venizelos, poi l’invasione di Cipro. Il magnete turco, da sempre legato a doppio filo alla Germania, è l’unico attore in grado di esercitare un fattore di potenza nella regione alternativo a Israele, non è casuale l’azione di blindatura di Erdoğan a detrimento degli elementi più filo-occidentali. Alleato di prim’ordine per l’Italia, come la cooperazione Meloni-Erdoğan sembra preannunciare.
Da Cadice si vedono le Americhe…
Restando al quadrante mediterraneo ma spostandosi verso l’Atlantico, fatto salvo che il Portogallo è sostanzialmente una colonia vinicola inglese, conviene prestare attenzione alla Spagna, l’unica potenza europea che, alla luce del suo glorioso passato imperiale, ancora mantiene una reale dimensione americana come dimostra il rapporto privilegiato con Cuba, con le Filippine e tutto il Sud America. La penisola iberica ha, sebbene sia periferica al Rimland, un peso: è in Spagna – la centralità degli scenari periferici – che Wellington inizia a smontare l’impero terrestre di Napoleone, sottraendogli quelle preziose risorse che, sebbene sia stata un’impresa folle, avrebbe potuto dirottare in Russia; ugualmente, la vittoria di Fort Trocadéro a Cadice segna il trionfo della Restaurazione, che dal Continente si proietta nuovamente sull’Atlantico (in risposta, di lì a poco, l’emanazione della Dottrina Monroe). Non è un caso che la destabilizzazione della Spagna sia stata al centro degli obiettivi, prima con la finanza poi con la guerra civile, terminata con una dittatura in grado di congelare l’esistente. Il recente viaggio della principessa delle Asturie verso l’America Latina rappresenta un segnale significativo. Per l’Italia potrebbe essere un alleato chiave per agevolare l’apertura del mercato centro e sudamericano, ma anche nell’ottica di irrobustire la presenza e, perfino, chiudere il Mediterraneo.
La muraglia di baionette ebraiche e il bastione iraniano
« Vous avez le droit à une existence politique en tant que nation parmi les autres nations » (Proclamation à la nation Juive, Napoleone Bonaparte)
Incuneato nel cuore del Medio Oriente – uno degli obiettivi della Prima guerra è la distruzione dell’Impero ottomano e l’apertura di uno spazio per il «focolare nazionale» ebraico – e armato fino ai denti, Israele, nonostante la lodevole opposizione di molti ebrei, conduce la sua personale ricerca di uno spazio vitale, avvantaggiato dal collasso e dalla cooptazione di larga parte del mondo arabo. Intorno a Israele ruotano Giordania e Arabia Saudita, nate e consolidate su impulso inglese, oltre all’ambiguo Egitto. Ad ogni modo, tirar giù il colosso iraniano, forte della sua geografia e della sua ultramillenaria civiltà, è impossibile con una sola guerra e, come si apprende, l’élite sionista medita una seconda guerra punica. Visto anche il trattamento riservato ai cristiani e, precedentemente, al contingente Unifil interesse israeliano e italiano non coincidono. O, meglio, la scomparsa dell’Italia come fattore di potenza ha permesso la liberazione. Di contro, l’Iran, soprattutto grazie a un leader riformista come Pezeshkian deve tornare a essere un partner economico di livello, fermo restando che, nelle precedenti guerre mondiali, la Persia non è stata ostile alle potenze anglosassoni, anzi ne è stata parte della strategia difensiva/offensiva. Un’altra strada è possibile ma è necessaria sia una modernizzazione guidata dall’alto – possibile grazie alle risorse naturali e all’ingegno che contraddistingue l’Iran – sia l’emersione degli elementi più brillanti dei Guardiani della Rivoluzione.
Il rapporto con la Russia da ricostruire
«Russia replaces Mongol Empire. Her pressure in Finland, on Scandinavia, on Poland, on Turkey, on Persia, on India and on China, repleces the centrifugal raids of the steppemen. In the world at large she occupies the central position held by Germany in Europe.» (The Geographical Pivot of History, Halford Mackinder)
Capitolo finale: la Russia. La cooperazione tra Europa e Russia è sempre conveniente per entrambi: scambio tra know-how e sconfinate risorse russe (Brest-Litovsk, come correttamente individuato dal genio leniniano, fu la leva per rilanciare i rapporti e la cooperazione tra due sconfitti e guardati a vista che durerà fino alle soglie della guerra mondiale) ma anche una fertile contaminazione culturale (i russi imparano dagli europei e primeggiano); tuttavia, ogni volta che la sinergia si rafforza si attivano degli elementi, anche nella società russa, che la disattivano (si pensi alla nobiltà russa fortemente anglofila).
Oggi stanno prevalendo i sentimenti anti-europei, come in Europa quelli visceralmente russofobi, ma un domani si può ricostruire un rapporto. Gli esempi non mancano, anche nei momenti più convulsi della storia: da Brest-Litovsk al Trattato di Rapallo (siglato da Cicerin e Rathenau) fino agli albori della guerra (l’intera impalcatura anglosassone rischia di saltare dopo il Patto Molotov-Von Ribbentropp e il Patto nippo-sovietico di non aggressione del 1941). La geopolitica vince – vincerebbe – sempre sull’ideologia.
In tutto questo c’è un però. Una volta sistemato il limes ucraino attraverso una rettifica più o meno profonda, non è da escludere che la Russia riprenda la sua marcia verso l’Asia, dove già nell’Ottocento aveva trovato soddisfazione dopo gli scacchi subiti nella guerra di Crimea e con il congresso di Berlino. Insomma, potrebbe tornare a confliggere con gli interessi consolidati angloamericani.
La prospettiva italiana
Tirando le somme, come valutare il nascente equilibrio mondiale? Come porsi di fronte alla guerra? La ricerca della pace è un afflato nobilissimo e tutte le iniziative volte a denunciare il crescente militarismo e i profitti per pochi della guerra sono lodevoli. Tuttavia, bisogna essere preparati alla guerra.
L’Italia è un paese veramente unico. Alla sconfinata bellezza naturale associa la capacità di riprodurre le armonie del Creato nell’arte e, perfino, nei prodotti. Un paese, indubbiamente, che fa paura se capace di esprimere una politica autonoma.
Dopo secoli di marginalità il Dugento è il secolo della grande rinascita – economica e dunque artistica –, segue la rinascita del pensiero politico. Si torna a pensare al destino della Penisola. Raggiunge una tale forza grazie ai suoi commerci e al suo saper fare che francesi da un lato e ottomani dall’altro (soprattutto a detrimento di Venezia, colpita anche da una coalizione allestita dal Papa) devono frenarla. In precedenza erano stati i bizantini prima (i progenitori della Terza Roma) e i Franchi poi a intervenire sulla penisola, chiamati dal Papato, stroncando ogni tentativo di scrivere una storia diversa. Poi venne il Risorgimento, una bella storia, sebbene rientrante in una più ampia manovra del solito Leviatano.
Alla luce di quanto descritto in questo corposo excursus, per proteggere l’Italia che, per geografia, è quasi un’isola, conviene primariamente rinsaldare un complesso di alleanze euro-mediterranee, partendo dai due cardini – Germania e Turchia – e allargando lo sguardo a Tunisi, che ha ritrovato pace dopo il disastro della “Primavera”, ad Algeri, a Madrid, come detto (tutto sommato Sánchez sta tentando dei provvedimenti a favore del popolo e Sánchez non è Zapatero), va bene anche l’Albania con delle avvertenze soprattutto legate al passato non proprio filo-italiano della fazione da cui è nato Edi Rama, fino a Bucarest, sebbene la Romania, indispensabile per l’apporto di materie prime e per l’accesso al Danubio, versi in condizioni preoccupanti, oltre ai paesi della fascia alpina naturalmente ruotanti intorno la Germania cioè Svizzera e Austria, ma anche Slovenia e Slovacchia. In questo modo si dovrebbero poter tamponare o, almeno, rallentare le eventuali minacce – ritenuto che, per come è messa oggi, la Francia non è in grado di rappresentare un pericolo – per lo più provenienti dalla polveriera balcanica (si noti il fiorire di “piccole Intese”) e dalla Libia (anche il “caso Almasri” è alimentato per interrompere una classica direttrice italiana di sviluppo), entrambe sapientemente incendiate in funzione anti-italiana. Allo stesso tempo, bisogna riportare nelle mani dello Stato i vitali circuiti di finanziamento oltre a tutte le aziende strategiche per modernizzare – ovviamente dall’alto – il Paese e far tornare al lavoro gli italiani, far emergere una classe dirigente idonea e ribaltare, in senso positivo, le narrazioni e i “valori” fino ad oggi diffusi, anche dalla stessa RAI. Non ripetere gli errori delle ultime guerre mondiale è decisivo per rompere la tutela esterna sulla Penisola. Ovviamente, fino ad ora si è ragionato in ottica post-europea e post-NATO, ma il colto lettore lo ha sicuramente capito.
(In copertina Unsplash)