Il Tazebao – In Italia e in Europa, la destra ha idee certe. Pervasive e infiltranti anche in una cosiddetta sinistra il cui pensiero e azione politica stanno riducendo in pillole riflessioni complesse. Le destre, cavalcando a loro piacimento e – de gustibus – ogni onda purché esplosiva, queste idee le ha tenute sopite per decenni. Ha misurato i passi degli altri competitori, ha testato il “cervello rettiliano” dell’elettorato, ha gridato poi a più non posso fino al raggiungimento degli obiettivi di successo. Niente di nuovo sul cammino umano e politico, si direbbe. Dopo aver tolto dallo scenario politico e pubblico Gianfranco Fini, uomo che dopo il congresso di Fiuggi avrebbe potuto intraprendere un modello di destra liberale alla Chirac anche in Italia, tanto per intenderci, traghettando i post-fascisti verso un’idea più aperta e più responsabile di mondo e di economia (ma scontrandosi con l’allora leadership di Silvio Berlusconi), oggi si consuma tutto, come è noto, in note di tweet e post composti spesso di inconsistenza pura. L’offerta e la domanda elettorale sono questo: si sono spostate su parole a effetto (rettiliane appunto) proprie dei pensieri tritati, passati al frullatore di cucina, alimentati da una semplificazione sociologica di un sistema politico che non brilla come forza affidabile e di adeguata competenza. I liberali veri in Italia, si pensi a Luigi Einaudi, hanno sempre fatto fatica ad essere presenti: troppa fatica a tramutare principi e modelli sicuramente interessanti (ma dotti), di difficile appeal elettorale in un paese che non primeggia per una diffusa emancipazione culturale.
Ma, attenzione, il problema è simmetrico nella sinistra italiana. È talmente tanto palese ad “effetto-specchio” che il Pd non riesce ancora oggi a pensare in termini di liberal-socialismo o di social-democrazia, tanto da arrivare a dover ogni volta togliere dalle ceneri (con tutto il rispetto scrivendo) l’immagine di Enrico Berlinguer (l’Eurocomunismo e il consenso alla Nato, ricordate?) o quella di Aldo Moro.
Insomma, l’Italia sembra proprio un paese che ancora non ce la fa a superare le barriere, a fare il salto di qualità, a battersi per quella politica e identificazione della comunità civile (e quindi Stato) radicata su “meriti e bisogni”, per citare l’ex ministro socialista Claudio Martelli. Il nostro resta un paesone che, da una parte, risveglia un revanscismo confuso post-fascista e, dall’altra, tiene i piedi dentro la calce del principio del “cattocomunismo”, con un approccio a volte inetto e “buonista” deflagrante alle cose del mondo. Il liberal socialismo, democratico e deciso nella tolleranza delle parti, sembra una chimera. Difficile che un’Italia così possa competere non solo con il mondo o con l’Europa, ma addirittura direi con se stessa. Difficile, perché la “società liquida”, o quasi gassosa, coniata e tante volte citata dal filosofo e sociologo Zygmunt Bauman i suoi effetti li ha; un tempo la politica era regia di una parte importante dell’economia, nella ricostruzione e sviluppo ex post dalla Seconda guerra mondiale, mentre oggi è l’economia senza freni triturante che domina in tutto e per tutto la politica e guida il pensiero dei tanti.
I cittadini si associano in comitati elettorali estemporanei, poi scompaiono, si nebulizzano; la politica diventa un fattore personale e individuale che usa l’elettorato con magnifiche proiezioni del futuro. Magnifiche e inesistenti. Il tutto dura una manciata di minuti, di istanti nel solco del tempo universale. I linguaggi sono ridotti all’osso. L’istruzione e la crescita sono indirizzati solo al futuro fatturato lavorativo dell’individuo. Niente o poche cose oggi si tramutano in articolate visioni di progetto della società. La democrazia, si sa, non è un bene né acquisito del tutto né permanente del tutto. Si somma a tutto questo l’assenza di pensieri radicanti, profondi, costitutivi, direi quasi pensieri di orientamento: la mancanza di intellettuali di riferimento, di visione e proiezione gioca la sua parte. Il consenso elettorale è ormai un saliscendi di “montagne russe”, tra l’altro sempre più ridotto e che si sta tramutando in una bassissima partecipazione alla vita pubblica.
I principi che diano possibilità reale alla costruzione di società aperte, liberali nel senso letterale del termine, economicamente fluide, paiono ridotti ad essere ipotesi ultraterrene.
In questo scenario si innesca la reazione a catena (modalità della fisica nucleare non dissimile dai fattori scatenanti della mente umana); “Riarmare” l’Europa (cosa che, diciamocelo, diventerà quasi fisiologica se gli Usa abbandoneranno presidi e aiuti militari nel Vecchio Continente) diventa però il simbolo del vuoto pneumatico della politica. Almeno per come è stato proposto fino ad ora. Siamo di fronte ad una ineffabile perdita di credibilità.
Mi chiedo allora se per evitare tutto questo non sia necessario un nuovo accordo fra le potenze (vecchie e nuove) come fu fatto a suo tempo a Yalta, poco prima che finisse la tragedia della Seconda guerra mondiale. Un accordo che eviti che questi anni a venire siano prodromo di nuovi conflitti globali e europei. Un accordo blindato che eviti che la politica si torni a farla con le armi e le guerre. “L’uomo prudente non si lamenta delle cose che non può cambiare, ma si sforza di migliorare quelle che può”, ci ha lasciato scritto Machiavelli. Libertà, economia e benessere crescono nella civiltà e nella pace. Anche con accordi blindati. Il resto, è un’altra cosa che appartiene da sempre alla tragedia umana.