Un Re a cavallo tra vecchi e nuovi Italiani

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Il Tazebao – In quest’era di presentismo – meglio dovremmo dire di ‘momentismo’ – quale assorbimento della notizia nell’attimo di scrolling sui social, per non citare gli obsoleti e vetero-istituzionali TG, dovremmo ringraziare la turba di post-Italiani in piazza Duomo di Milano arroccati e vociferanti sotto il monumento equestre di Vittorio Emanuele II, per aver implicitamente riconosciuto la immarcescibile forza simbolica attuale e trans-culturale del Re a cavallo vindice della ritrovata Identità unitaria di un Popolo, oggi se non perduta ma in crisi, tanto che il 9 gennaio – ricorrenza della morte, del cinquattottenne Padre della Patria (1878) – nessuno si ricorda di andar a deporre un simulacro di corona sotto la tomba romana del primo Capo dello Stato italiano nel Pantheon o sotto quello stesso monumento a Milano o altrove. E ciò né da parte dei soloni conservatori scandalizzati dall’ardire anti-italiano dei festeggianti il nuovo anno, né da parte degli arcobalenici corifei no-borders!

Vi è da chiedersi allora: invano corse la Storia? Nell’ineludibile specifico: fu vana la riunificazione delle Gentes italicae nella compiutezza cronologica statuale del 1861, dopo ben 1385 anni dalla fatidica deposizione di Romolo augustolo nel 476 d.C.?

Certo, ci ricorda Leopardi, “l’infinita vanità del Tutto” costituisce il terrore esistenziale, che grava, inesorabile, sull’Essere umano e nessuna intelligenza artificiale è in grado di elidere tale stato di assoluta precarietà consapevole, pena la sua dissoluzione in un risibile inganno artificiale. Ma proprio ad attenuare questo terrore umano servono le Istituzioni simboliche, il fasto cromatico e musicale dei riti, la irriducibilità a storia materiale della Storia mitica: “tutto passa”, ci ammaestra Eraclito e perciò dobbiamo aggrapparci a “quello che resta”, nell’incessante e sempre più furioso procedere del mondo de-spiritualizzato e parcellizzato. E perché “qualcosa resti” bisogna pure darsi da fare per farlo restare, per non usare la parola ideologicamente usurata di “conservare”, com’è comprensibile in pieno consumismo e di sospetto salutistico per i conservanti che c’imbottiscono. Se si mostra sempre socialmente sempre più fiacca la tanto propagandata integrazione nei valori laici, come quello costituzionale apicale del Lavoro, che i mentori della intelligenza artificiale e della robotica vorrebbero far passare per obsoleto e la Chiesa post-conciliare è stata reticente a reperire per i nuovi Arrivati formule propositive di quel Vangelo, che pur fuse greco-romani e “barbari” radicando l’Europa, ecco che i nuovi Arrivati, in seconda e terza generazione sono in bilico tra gli estremi della radicalizzazione identitaria delle loro origini e il senso di sradicamento comunitario nel Paese ospitante, che sempre più li accomuna al postmoderno spaesamento civico dell’homo consumens occidentale. Non ci si rende conto che la realtà familiare pluriordinamentale ormai successiva alla lacaniana «morte del Padre» e la Scuola non sono più le principali agenzie formative del juvenis chattans nativo digitale e reclive su un cellulare a prescindere dalla sua origine ?

Ed allora, in assenza di una Paideia pubblica ferace di Valori positivi agiti (Exempla) e, di converso, in presenza di quotidiana martellante informazione di crimini e sciagure, dobbiamo assistere passivamente allo sfilacciamento totale del senso di appartenenza ad una Collettività, che vanamente si pretende di ricomporre con divieti di codice della strada ed improvvisi revival della ineluttabilità della guerra, peraltro non più contenuta nei pur tragici campi di battaglia e trincee ma irresponsabilmente e orridamente totale? In una percezione sociale recessiva della Legalità a selva di vuote regole procedurali oppressive, se non si educa con l’esempio istituzionale al rispetto dei Simboli comunitari identitari, ci si meraviglia poi che un giovinetto di origine straniera oggi, italiana ieri, domani chissà, non avverta tragicamente l’esigenza di fermarsi di fronte all’Alt intimatogli con una paletta con sigillo statale da degli Uomini in Divisa démodé, chiamati Carabinieri Reali da una Regia Patente del 1814?

Il Re a cavallo non è la retorica bronzea del Potere che si fa monumento ma è la fotografia di un giovane di 28 anni realmente ferito e sanguinante nella battaglia di Goito, cui partecipa fisicamente col padre Carlo Alberto Re di Sardegna durante la Prima Guerra d’indipendenza (1848) e che poi ventinovenne, dopo l’abdicazione paterna seguita alla battaglia di Novara, s’intesta la causa Nazionale unitaria italiana di fronte al consesso internazionale ed ai Liberali della Penisola, proprio perché, giovanissimo Re, nel burrascoso confronto della cascina di Vignale con l’ultra- ottantenne feldmaresciallo Radetzky (24 marzo 1849), rifiuta fermamente di archiviare la bandiera Tricolore e – unico fra i sovrani preunitari italiani – di ritirare la Costituzione parlamentare, che nel 1861 diventerà la prima Costituzione dello Stato italiano unitario coronato da quel Risorgimento non surrogabile con altri miti fondativi successivi e fattore insostituibile di coesione sociale della Res publica italiana nel contesto mondiale.

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