In seguito al contributo di ieri sulla repressione quale volto materiale di un capitalismo della sorveglianza oltremodo sfuggente ma presente, abbiamo ricevuto un resoconto sulle proteste al porto di Genova, successive a quelle di Trieste, un contributo che pubblichiamo integralmente per rendere i sentimenti e le impressioni vivide della protagonista. Da Grosseto a Genova grazie a Tiziana Frangini.
Il resoconto di Tiziana Frangini
«Sabato 16 ottobre ha iniziato a salire in me il desiderio di vedere con i miei occhi se veramente la protesta era iniziata. Voci contrastanti sull’effettiva partecipazione, sulla resistenza si stavano spargendo nella rete ed io dovevo toccare con mano. Altrimenti anche io avrei dovuto desistere.
Siamo partiti domenica, con calma, solo con due contatti su Telegram che mi garantivano la loro presenza. Strada facendo una ha mollato per partire lunedì e dare la staffetta, un’altra invece era già presente dal giorno prima. Siamo arrivati alla zona porto. La coda dei tir fermi era reale: tanti, enormi, tutti in fila, tutti a motore spento. Erano così tanti e imponenti che la prima volta non ci siamo accorti del presidio. Trovato parcheggio, Andrea ha riconosciuto una bandiera. Ci siamo arrivati addosso: erano seduti per terra, con teli, coperte, quasi ci sono inciampata sopra.
Mi sono fermata, non riuscivo ad entrare, mi sono messa a piangere, non riuscivo a trattenermi, non avevo mai visto un presidio vero. Non avevo mai partecipato ad uno sciopero ad oltranza. Il bidone spento, quello che nella notte illumina e riscalda era lì, era reale, non era un film. La gente presente era di carne ed ossa, aveva un cuore che pulsava come il mio. Se ci penso mi viene da piangere anche adesso. Loro sono lì anche per me; forse non ne siamo degni; io non ne sono degna. Non ho capito nulla nella vita.
Siamo entrati e ci hanno sorriso senza invadenza, senza chiederci nulla. C’erano alcuni della sicurezza del porto, c’erano i portuali, ma soprattutto c’erano le loro famiglie. Tavole imbandite a festa e ogni persona che arrivava portava del cibo, portava un presente per dimostrargli solidarietà.
La notte l’avevano passata all’aperto con le brandine, senza servizi igienici, alla meglio, erano stanchi ma allegri. La delegazione di Milano ha portato le spille rotonde in campo rosse con scritta bianca “No green pass”. Una festa. Subito si fa conoscenza, senza filtri, senza imbarazzi.
Sono i proletari veri questi, autentici, che vivono lì vicino nei palazzi enormi, altissimi, come fossero le mura di difesa. Lì dentro si è consumato il vero lockdown: prigionieri del cemento, del lavoro mai interrotto. Non come me, divenuta borghese per ozio, comoda nella mia ridente cittadina piana, non inquinata, verde, dove tutti abbiamo un po’ di terra dove respirare iodio e godere del sole. Ma che ne so io della lotta per i diritti e la difesa della costituzione?
Abbiamo parlato di politica, delle proprie origini e del nemico comune: il neocapitalismo. Non c’era un leader che dirigeva la giornata, almeno quando c’ero io, non l’ho identificato. Spero tanto invece che ci sia. Spero che non sia solo estemporanea, ma continua come un fuoco che non si spegne alimentato dal vento della consapevolezza, che brucia dentro il corpo di ognuno e che solo l’acqua cristallina e purificatrice doma».
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