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Non praevalebunt. In morte di Benedetto XVI – Antonio Bellizzi di San Lorenzo

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Con il contributo di Antonio Bellizzi di San Lorenzo prosegue il ciclo de Il Tazebao su Papa Benedetto XVI

Dalla clamorosa abdicazione al Soglio Pontificio di Benedetto XVI (11 febbraio 2013), si è protratta una polemica divisiva, per cui il Santo Padre avrebbe rinunciato al ministerium ma non al munus petrinum, ossia al concreto esercizio del ministero di Vescovo di Roma ma non al crisma pontificale in sé.

Tale polemica, in verità, è parsa pure trarre alimento da taluni gesti del Papa eletto dal successivo Conclave, quali l’essersi detto alla sua prima comparizione benedicente, solo Vescovo di Roma e il non aver indossato la mozzetta purpurea, tradizionale attributo formale dei Romani Pontefici, etc.

Ma è buon uso ermeneutico valutare qualsiasi atto giuridico, qual è un atto rinunciativo, alla luce pure dei comportamenti successivi del dichiarante, cioè di Colui che poi è stato definito ‘Papa emerito’.

Ebbene, la sobria esistenza contemplativa di Joseph Ratzinger nelle mura vaticane scandita da preghiera, scrittura e rare, quanto discretissime, pubbliche comparizioni, mai è parsa indulgere a contrapposizioni di sorta rispetto al nuovo Papa o anche solo a dargli ombra. Ciò, anche quando le decisioni liturgico-pastorali del Papa regnante hanno eliso effetti di scelte del Suo Predecessore: si pensi al motu proprio ‘Traditionis Custodes’ di S.S. Francesco (2021), che ha ristretto potestativamente la possibilità della Messa in Latino, già disciplinata dal motu proprioSummorum Pontificum’ di S.S. Benedetto XVI (2007). Ma siccome la realtà non è solo quella che è, ma pure quella che appare − è il caso di dire, canonisticamente, objective − è innegabile nell’immaginario collettivo, tanto dell’ecumene cristiana, quanto dei cosiddetti atei più o meno devoti e degli osservatori in genere, come la copresenza oggettiva in Vaticano di un altro Uomo, vestito comunque di talare bianca, sul piano simbolico-percettivo, sia parsa comunque incarnare, un Doppelgänger, un vero e proprio ‘doppio papale’, suscettibile in sé di strumentalizzazioni oscillanti dalle varie ricostruzioni dietrologiche dell’abdicazione ai tentativi di delegittimazione di Papa Francesco.

Certo, la traumaticità di una rinuncia ne postula l’aspetto eccezionale e non la sua trasformazione in lacerazione per desacralizzare l’Istituzione e ridurla ad una mera funzione.

Agli occhi del mondo, il Papato rappresenta la firmitas e la stabilitas della Fides Ecclesiae nel fluire burrascoso della Storia e comunque, sin dalla Crocefissione a testa in giù del primo Papa, ha superato tanti eventi traumatici: dalla Chiesa catacombale allo Scisma d’Oriente, dagli Antipapi alla Cattività avignonese, dalla Riforma alle Rivoluzioni politiche, dalla capricciosa prigionia napoleonica alla fine del potere temporale, per arrivare, attraverso i Totalitarismi novecenteschi, all’attentato a Giovanni Paolo II.

Ora − a meno che la storiografia successiva documenti diverse dinamiche − a sommesso avviso dello scrivente peccatore, il fenomeno deve essere ricondotto ad un fatto molto semplice, ben sintetizzato dalla espressione latina usata da Joseph Ratzinger nell’atto abdicativo: «ingravescente aetate», che coglie, con straordinaria attualità, il dramma contemporaneo dell’allungarsi del tempo della vita umana contestualmente al venir meno delle forze, per l’uomo comune, di gestirsi autonomamente nella vita quotidiana. L’atto abdicativo di Papa Ratzinger è atto ricognitivo di questa humana fragilitas, proprio nella imprescindibilità della sua fisicità, anche per un Papa. Forse una possibile lettura del significato di questa rinuncia del ‘Papa teologo’, è proprio l’arrendersi di ogni approccio teologico e quindi teorico-razionale a Dio, alla humana fragilitas della incarnazione in un preciso dramma esistenziale personale.

E qui si deve fermare l’osservatore per rispetto alla Dignità della Persona e alla cifra di mistero che racchiude l’esercizio del libero arbitrio nella lettura di senso della propria esistenza.

E proprio perché questa Persona è stato un Romano Pontefice, ecco che la distinzione potestativa tra munus petrinum e ministerium, si ricompone nel Mysterium Ecclesiae, come Corpo mistico di Cristo secondo la lezione paolina. Il senso di un Pontificato, lungi da ogni ‘papolatria’ individualistica, deve leggersi allora nella luce escatologica della Unitas Ecclesiae.

Ognuno può sentire più vicino a sé questo o quel Papa: limitandosi agli ultimi, taluno può sentire la sua fede più rappresentata dalla siderea regalità di Pio XII, piuttosto che dalla paciosa bonarietà di Giovanni XXIII, dalla ieraticità intellettuale di Paolo VI, piuttosto che dalla sorridente semplicità di Giovanni Paolo I − ultimo Papa italiano e ultimo in sedia gestatoria − dal carismatico misticismo di Giovanni Paolo II, piuttosto che dal tratto teologico e gentile di Benedetto XVI o dal pauperismo periferico e migratorio di Francesco.

Ma, lungi sia da sterili arcaicismi, che da superficiali presentismi e senza cedere al sensazionalismo mediatico consumatore di icone, occorre essere consapevoli dell’impari sforzo del munus petrinum nell’essere Vicari di Cristo, di cui tutti i Papi, raggi diversi dello stesso Sole, possono cogliere solo aspetti parziali : «quomodo Solis multi radii sed Lumen unum et rami arboris multi sed robur unum, tenaci radice fundatum» (T. Caecilius Cyprianus, De unitate Ecclesiae, Cap.5).

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