L’eclissi del libero mercato, la crisi dei regimi liberal-democratici, la fine della globalizzazione. Il progetto panamericano di Trump che sdogana la fase dell’economia a blocchi. Il rapporto Londra-Washington come costante di ogni guerra egemonica.
Il Tazebao – In questi primi, pirotecnici giorni del 2025 si sta consumando un duello tra le due sponde dell’Atlantico, la casa-madre, la vecchia Inghilterra, e gli yankee delle ex colonie, alimentato dalle stoccate di Musk contro il governo Starmer. Un capitalismo declinante già un secolo fa, quello albionico, che viene scalzato da un capitalismo ruggente. Un grande paese, popoloso, multietnico, allora lanciato all’efficienza industriale con il fordismo (perfezionamento dei processi produttivi unito ad un’economia di scala) e oggi proiettato nella new frontier tecnologica, e un’isola che non produce più nulla. Niente è come appare. Anche perché, già agli albori degli anni ’80, la “vecchia” Inghilterra anticipa i vistosi cambiamenti nel capitalismo, sganciandosi dalle produzioni materiali – il Made in England non esiste quasi più – per buttarsi sulla finanza, salvo qualche feroce puntata estera old style come nel caso delle Falkland. C’è pur sempre la translatio imperii, il passaggio di potere, il volo dell’aquila imperiale, e Londra, intuendolo, lascia il campo alla “nuova” Roma, ma la educa al comando, come la “vecchia” Atene.
Insomma, al netto di qualche divergenza più di facciata che sostanziale, al netto delle esuberanze di Musk (ogni amministrazione ha una sua mente grigia ben piantata nel sistema capitalistico), la Special Relationship tra Stati Uniti e Regno Unito è destinata a rimanere in piedi. Cementificata fin dagli albori del Novecento negli indirizzi strategici attraverso gli organismi anglofoni quali la Chatman House e il Council on Foreign Relations, rodata in svariati conflitti – dalla “prima guerra punica” contro la Germania alla controversa invasione dell’Iraq -, essa costituisce la conditio sine qua non per mantenere l’egemonia mondiale anglosassone.
Tesi e antitesi. E la sintesi?
In ogni analisi sul mondo anglo-americano, inoltre, bisogna tener conto che l’alternanza dei partiti, tratto caratteristico di quei sistemi, nasce dalla necessità di alternare le agende politiche per garantirne l’integrazione, il completamento. Come giustamente messo in luce in un raro e brillante, brillante poiché fondato storicamente, articolo di Luca Rossi, l’obiettivo di fondo rimane combattere l’Eurasia, attaccando un pezzo alla volta, prima la Russia e poi la Cina e, soprattutto, impedendo la saldatura geo-economica con paesi intorno la massa asiatica, come la Germania (il sabotaggio del Nord Stream 2 è un recente caso di scuola). Ecco, allora, che la “tesi” Biden, sotto la cui amministrazione sono passati dei provvedimenti chiave quale l’Inflation Reduction Act e il Chips Act, predisponendo il terreno a ulteriori misure di sostegno all’industria nazionale, lascia il terreno all'”antitesi” di Trump, disponibile a un accomodamento con la Russia, ma ferocemente anti-iraniano (cinque anni fa l’uccisione di Soleimani) e anti-cinese.
Ma l’alternanza non è un’invenzione americana, anzi è tipicamente britannica. Un avvicendamento alla guida, tra Laburisti e Conservatori ma anche all’interno di queste compagini (un esponente più “accomodante” con la Germania poteva essere silurato e sostituito con uno ferocemente “germanofobo”), può servire a sabotare alleanze o a battezzarne altre, può portare sostegno a una rivoluzione o a un leader estero dell’opposizione, può servire ad esercitare pressioni diplomatiche. Sicuramente, questa insidiosa tattica inglese ha la forza di trarre in inganno gli avversari. Come successe all’ex animoso socialista romagnolo, figlio di un fabbro e di una maestra elementare, che pensava di fregare l’erede del trionfatore di Blenheim.
Blocco delle merci, blocco delle persone, blocco panamericano in fieri
Sicuramente, il Trump bis porterà alla fine del mondo globalizzato, anticipata da Londra con la tempestiva uscita dall’Unione Europea nel 2019 sotto Johnson, determinando la fine del sistema del libero-scambio mondiale, già pesantemente colpito negli ultimi cinque anni, e il ritorno al nazionalismo economico, portando al contempo all’emersione di leadership nazionaliste nei paesi più danneggiati dalla contrazione economica (è il caso di Francia e Germania). Non solo, in parallelo con quanto avvenuto un secolo fa, seguiranno provvedimenti contro l’immigrazione (allora portarono a un inasprimento dei rapporti con il Giappone), come già tentato nel primo mandato alla Casa Bianca, e aumenteranno i dazi, come fece l’isolazionista Herbert Hoover il 30 settembre 1930 con lo Smoot-Hawley Tariff Act, che portò i dazi mediamente al 50% sulle merci importate. Come fece Londra, il Cancelliere dello Scacchiere era Neville Chamberlain, con l’Import Duties Act del 1932 (dazi del 10% per le derrate extra impero e circa il 20% per le merci), salutato con favore da Leo Amery e, nientemeno, che Halford Mackinder, già direttore della London School of Economics e padre della “moderna” geopolitica. Quando si tratta di preparazione alla guerra egemonica mondiale, al di là delle scaramucce che avvenivano anche nel cruciale decennio 1919-1929, Londra e Washington sono perfettamente sincronizzate.
L’attivismo di Trump sulla Groenlandia, alimentando le croniche rivendicazioni di Nuuk contro la “vecchia” Copenaghen, e su Panama, in una sorta di riedizione della dottrina Monroe (propedeutica alla liquidazione del residuo impero spagnolo e all’espansione ai danni del Messico), riporta in auge il disegno geo-economico di Panamerica: una grande area economica, con Washington capofila, al riparo da guerre commerciali e dazi, che verranno viceversa potenziati sia contro la Cina sia contro l’Europa, così da terminare la liquidazione dell’industria europea, italiana e tedesca (l’attacco all’industria tedesca nasce con il Dieselgate sotto Obama).
Proprio Trump, nel suo primo mandato, si fece promotore di un accordo che si può definire antesignano con Canada (l’interscambio commerciale raggiunge circa i 700 miliardi) e Messico, denominato USMC Agreement, in vigore dal 1° luglio del 2020. Secondo alcune stime, inoltre, il commercio degli Stati Uniti con i vicini crescerà di 466 miliardi di dollari nel prossimo decennio. In un momento storico in cui, per la prima volta dopo 20 anni, il commercio globale cresce meno del PIL mondiale, gli Stati Uniti, da esportatori di “libero mercato” diventano fautori del protezionismo e capofila del grande blocco panamericano.
Insomma, al netto delle scosse di assestamento, Londra a guida Labour (è perfettamente normale che Londra scelga di distinguersi dai nuovi nazionalismi europei affidandosi ai Laburisti dopo il cruciale decennio dei conservatori) e Washington a guida trumpiana si riavvicinano quando c’è un nemico esterno da combattere. Troppo forti i legami politici, culturali, di sangue, di religione. Troppo solida l’integrazione tra le élites, tutte di ceppo anglosassone, di religione protestante, al di là di qualche cattolico per lo più irlandese, bianche, al netto di qualche “operazione simpatia” con le minoranze.
Chi sostiene pesantemente le colonie nella lotta per l’indipendenza? La Francia; ne uscirà dissanguata e decapitata. Con chi fanno un accordo le ex colonie poco dopo? Con Londra, nel 1783.
Allo stesso modo, con buona pace dei facili entusiasmi sull’area BRICS, è forte la relazione, e il debito di riconoscenza, dell’India verso Londra. L’Inghilterra riesce a infondere al subcontinente indiano una coscienza nazionale, facendo meglio, addirittura, dell’Impero Moghul.
Tirando le somme
È decisivo che ogni analisi, soprattutto in questa delicata fase di passaggio a un’economia diversa (frammentata in blocchi, con dazi) e, di conseguenza, a un diverso sistema internazionale, in cui i confini possono essere corretti manu militari, sia supportata e sorretta da dati economici e profondità storica, oltreché da indispensabili riscontri empirici. È bene che si parta, sempre e comunque, dalle precedenti guerre egemoniche, alle quali Londra e Washington si sono presentate unite. Londra, sebbene non abbia più il potere militare di un tempo, vanta un apparato finanziario di prim’ordine, che alla bisogna integra – o sostituisce – le cannoniere, pari solo alla forza del suo servizio informazioni e del suo apparato comunicativo, che serpeggia sul Commonwealth, mantiene un soft power che spazia dai raffinati think tank che elaborano le strategie ai modelli culturali di massa, dalla moda alla musica, fino alla Premier League.
Insomma, a meno che non si voglia scadere nel tifo, altresì detto “sacchettismo” (schiacciato sul feticcio di Donald Trump), da un lato, o, dall’altro, in quell’amore non corrisposto verso la Cina di Xi Jinping altresì detto “sinigaglismo” (quante volte ha visitato il Catai?), o, peggio ancora, nella fuga dal mondo, meglio nota come “brandinismo”, bisogna partire da una solida analisi del reale come viatico per una politica nazionale.
L’Italia è attesa da un anno cruciale. Nel 2024, l’Italia ha ottenuto una performance positiva, e inattesa, per quanto riguarda le esportazioni, collocandosi al quarto posto nel mondo, nonostante la profonda crisi del suo sistema produttivo manifatturiero (nei primi 9 mesi del 2024 la produzione industriale italiana è scesa del -3,3% rispetto allo stesso periodo del 2023 come si apprende dal Centro Studi di Confindustria). Il tutto mentre gli Stati Uniti, e non solo con il recente affaire Starlink, continuano a fare spesa nel Belpaese, prendendosi Tim e soprattutto Comau.
La paura è che l’Italia continui a credere nel sistema che fu, quello dell’era globalizzata e del libero-scambio, mentre il mondo converge velocemente, e pericolosamente, verso i blocchi “autarchici”. È più che mai necessario riorganizzare l’economia, riaprire dei canali commerciali “preferenziali” con il Medio Oriente, l’Africa e Bacino del Danubio, per lo meno per garantirsi alcune materie prime e derrate alimentari, introdurre un forte sistema di protezione sociale. Tutto sta nel leggere la storia ed essere sincronizzati con il cambiamento.