Si scatena l’offensiva dei dazi di Trump. La guerra economica precede la guerra guerreggiata? Una rilettura sulla nascita degli Stati Uniti, la dottrina Monroe, la Special Relationship tra Washington e Londra.
Il Tazebao – Il 1492 apre alla colonizzazione effettiva, cioè economica e militare, delle Americhe, non è la banale “scoperta”. Erano note perché nel Medioevo, a differenza di quanto sostiene una certa storiografia mainstream – fortunatamente sconfessata -, gli orizzonti si espandono oltre l’ecumene mediterranea e il mondo romano: gli arabi allargano le capacità di calcolo – indispensabili per il fiorire dell’architettura -, grazie ai normanni si spazia dalla Groenlandia a Novgorod e i loro eredi ancora comandano in Sicilia (il vivace e sincretico regno normanno poteva sicuramente invertire la decadenza del Mezzogiorno) e, soprattutto, in Inghilterra, dove la terra è nelle mani degli eredi dei compagni di Guglielmo – lo denunciava un socialista veramente rivoluzionario nel Seicento, Gerrard Winstanley -, mentre le città, come oggi, sono il centro politico e direzionale della società e l’arte si distacca dal canone bizantino e parla alle nuove genti con un linguaggio nuovo (spuntano lacrime, si vedono i denti, dal Cristo sulla croce sgorga sangue vero).
È l’inizio della Modernità e la modernità sarà contraddistinta da un duello serrato tra due visioni del mondo radicalmente opposte: chi vuole il libero dispiegamento del capitalismo passando alla forma politica della repubblica, l’unica che garantisce l’emersione di una borghesia oligarchica, e chi vuole mantenere gli animal spirits sotto il controllo di un vertice (il monarca per diritto divino), mantenendo al tempo stesso legami con la tradizione (la religione rivelata).
Chiuso a doppia mandata il Levante – cioè la porta verso l’Oriente – dall’ingombrante Impero ottomano, accumulata una tale forza economica in sistemi produttivi a tutti gli effetti proto-capitalistiche, consolidatesi le monarchie continentali di Francia (dalla fine del periodo dei Capetingi ai Borbone), Spagna (Trastámara), Austria (Asburgo, dopo la saldatura con la Spagna) e Inghilterra (Tudor e soprattutto Stuart), mentre la Russia conosce un processo sostanzialmente coevo di consolidamento, si parte alla colonizzazione del Nuovo Mondo. Due anni dopo la “scoperta”, nel 1494, a Tordesillas, la perfetta conoscenza geografica porta a una millimetrica divisione del mondo sotto lo spagnolo Papa Alessandro VI, il Papa Borgia; avrà molti epigoni. Le risorse sconfinate che arriveranno dalle Americhe faranno la fortuna della Spagna e delle città ad essa più legate, Genova e soprattutto Milano.
Dopo la loro Rivoluzione nazionale, benedetta dalle solite logge massoniche (al pari di quella francese, tedesca, italiana, turca et sequitur), che ispirano i valori della libertà e dell’autodeterminazione oltre a una certa insofferenza per ogni tipo di potere, gli Stati Uniti, complice anche la penuria di beni e la dipendenza economica, riallacciano subito buone relazioni con la ex madrepatria (della centralità di Londra si è trattato nella fulgida macroanalisi di marzo) come testimonia il John Jay’s Treaty (1794), che infatti tratta di amicizia, di commercio e, soprattutto, di navigazione – cioè di primato marittimo -; va in fumo l’ingenuo – e dispendioso – tentativo francese di spezzare l’egemonia inglese sulle Americhe sostenendo i rivoltosi, scelta che sarà esiziale per le finanze regie, e per il re.
Il copione rivoluzionario è sempre il medesimo: crisi delle finanze regie (Carlo I), convocazione degli Stati generali al termine di un periodo di forte accentramento regio, emersione di un leader carismatico puritano (Cromwell o Khomeini), una piccola minoranza che prende il controllo della capitale (Pietrogrado come Parigi) a fronte di un paese sconfinato sostanzialmente inerte, esecuzione del sovrano come rito catartico (Nicola II), insabbiamento della rivoluzione e primo ciclo di guerre per “esportare” la rivoluzione (perfetta sintonia tra invasione dell’Irlanda sotto Cromwell, le avventure del demone napoleonico, le folli spedizioni di Trotzkij), fase “di destra”.
Tornando agli States, è di poco successiva, 4 dicembre 1823, l’emanazione dell’arcinota dottrina Monroe che nasce con l’esplicito intento di chiudere, da allora ad oggi, lo spazio non solo nordamericano ma anche panamericano agli europei.
Essa nasce quasi sicuramente come risposta alla formazione della Santa Alleanza tra i tre monarchi cristiani per diritto divino e alle straordinarie vittorie ottenute dalla Restaurazione sul continente europeo, come quella di Trocadéro ad opera dei “centomila figli di San Luigi” e del futuro Carlo X. Rinasce un pericoloso blocco continentale che minaccia di proiettarsi nuovamente sugli oceani, potenzialmente anche in direzione della Persia e dell’India.
La dottrina Monroe prelude, infatti, al serrato attacco ai residui possedimenti spagnoli (Caraibi e Filippine) che si dispiegherà lungo tutto l’Ottocento, secolo particolarmente complesso per Madrid scossa dal conflitto tra Carlisti e Isabellisti (1833-1876), un attacco certamente facilitato anche dalle rivoluzioni nazionali sudamericane – possibili grazie a patrioti illuminati Simón Bolívar, José de San Martín, Antonio José de Sucre e Bernardo O’ Higgins – e da coevi sommovimenti come le Province Unite del Centro America (Guatemala, El Salvador, Honduras, Nicaragua, Costa Rica e Los Altos, non più esistente), nate sull’esempio degli States e sull’esempio precedente delle Sette Province Unite. Allo stesso modo, nel secolo successivo e anche dopo, ripulite le Americhe e preso il controllo del Pacifico, gli Stati Uniti forniranno un indispensabile flusso di mezzi, prestiti e uomini alle guerre egemoniche di Londra.
Gli States restano un modello di comando sui generis e, quindi, da approfondire. Vivono nel conflitto costante e, in questo, sono effettivamente democratici. Talmente sono complessi che hanno disegnato un sistema articolato di reale doppia rappresentanza degli interessi, nel quale la Camera registra gli interessi populisti-popolari del corpo elettorale, per loro natura mutevoli, e il Senato tutela gli interessi consolidati degli Stati; il tutto con tempi e sistemi di elezione completamente sfasati. Il federalismo, liberamente ispirato a tutte quelle forme antitetiche allo Stato centralizzato cioè le Province Unite, la Lega Anseatica e la Confederazione polacco-lituana, è un tentativo originale di comporre il conflitto inter-etnico e infra-statale, cercando di riconoscere quanta più autonomia possibile, almeno formalmente. Al vertice di questo mare magnum c’è il Presidente, che gode di un potere pressoché totale, inamovibile, salvo rarissimi casi, per 4 anni.
Come si vede gli Usa sono strutturalmente avversi all’Europa. Allo stesso tempo, sono portatori di un modello culturale profondamente ostile a quello europeo. Se l’Europa è, comunque, profondamente sincretica, gli Stati Uniti sono livellatori.
Governando una moltitudine davvero disomogenea, devono necessariamente semplificare. Nasce il trash, esportato a piccole dosi già dal Secondo Dopoguerra e più compiutamente dagli anni ’80, come estrema semplificazione e financo parodia. In Italia, naturalmente Berlusconi ne fu un veicoli prezioso.
Giunti a questo punto, si devono iniziare a mettere in luce le opzioni possibili per l’Italia. Prima di tutto, diffidare completamente di chi crede che questa offensiva economica non abbia conseguenze o che si possa contrattare con Trump. Trump è tutto fuorché un presidente normale o un “conservatore” o un “isolazionista”. Categorie sciocche, partorite da menti digiune di geopolitica.
Trump è “rivoluzionario” in quanto porta avanti un’agenda che intende riscrivere gli equilibri globali a vantaggio esclusivo degli States, cioè, in ultima analisi, della sua aristocrazia WASP (cioè bianca, anglosassone, puritana, basata sulla costa “europea”).
Di contro, l’Unione Europea conoscerà un momento di profonda incertezza. Perfino la moneta, il marco-euro, ne risentirà e non è da escludere un terremoto profondo. Del resto, l’obiettivo americano è azzerare la cooperazione europea. L’offensiva dei sovranismi, come testimonia la mozione di sfiducia a Von der Leyen, riprenderà vigore; non a caso un partito “sovranista” come la Lega si scaglia contro una presunta Unione “a trazione tedesca” (la Germania è e resterà il baricentro geografico e produttivo dell’Europa). Rimandando a una precedente e corposa macroanalisi, è nota la passione degli States per i radicalismi di destra (Hitler ricevette cospicui finanziamenti e aperture di credito). Al netto dei destini dell’Unione e della sua insopportabile classe dirigente attuale, ciò che conta è preservare, seppur in forme diverse, una cooperazione economica – indispensabile in un’economia a blocchi poter disporre di un’area senza barriere doganali – e, con sempre maggior urgenza, militare, cioè sganciata da produzioni, brevetti e soprattutto controllo Usa (in funzione antieuropea possono disattivare tutte le infrastrutture strategiche).
Di certo, c’è solo che l’Italia deve praticare una politica economica radicalmente diversa. Si deve puntare al ripristino di una produzione nazionale, riconvertendo le filiere decotte (vino, turismo e simili) e rinazionalizzando tutto ciò che è possibile incamerare. Come dimostrano le mosse di Poste, anche nello stato profondo ci sono dei segnali. Incoraggianti.