Da movimento a partito di governo, il M5S ha registrato una metamorfosi completa.
Nel circolo accademico è ormai noto che il populismo – nella sua neutra accezione politologica scevra da faziosi pregiudizi – fatichi a superare illeso la prova di governo. Dalla letteratura si evince infatti che, almeno in Europa, conquistati i vertici del potere, i movimenti di tale estrazione siano soggetti ad un un vertiginoso calo di consensi elettorali nei mesi a venire. Le cause principali? L’emergere di ambivalenze intestine nonché l’affermarsi di un gap tra le promesse sventolate e le policy effettivamente concretizzate. Insomma, l’assioma di Belzebù cambia segno per i populisti: il potere logora chi ce l’ha.
Anche gli illustrissimi statisti dello Stivale, divenuto a detta di taluni il paese di cuccagna dei populisti, confermano l’equazione: basti vedere i pentastellati e come questi siano rimasti goffamente intrappolati nell’humus di palazzo tanto da surrogare la dialettica dell’antipolitica al politicantismo. Una metamorfosi kafkiana che è anche un harakiri politico che le urne hanno inequivocabilmente palesato sia in occasione delle consultazioni europee sia in quelle regionali, alle quali gli ormai pantofolai grillini sono tornati a percentuali da prefisso telefonico.
L’imborghesimento è la cifra della debacle, come si deduce dall’autopsia della carcassa, ovvero ciò che non è stato rosicchiato dagli avversari, s’intende. Da smanicati dissidenti rispetto l’establishment, all’indomani del 4 Marzo 2018 l’equipe di Di Maio è divenuta complice del ceto politico che ambiva abbattere: se la liaison con il Carroccio aveva sconcertato gli elettori, il matrimonio con gli acerrimi nemici li ha definitivamente spinti all’adulterio o all’astensionismo (“Il PD è peggio di Forza Italia”, tuonava un esagitato Dibba pochi anni prima. Insomma, prostrandosi alla logica degli inciuci di Palazzo, il M5S ha vanificato la sua natura di agente patogeno nelle stanze del potere e, di conseguenza, la sua ragion d’essere.
Tuttavia, per quanto il connubio giallorosso sia evidentemente l’apice della contraddizione dei Cinque Stelle, i capi di imputazione non finiscono qui. Ed ecco che, dopo il tragicomico annuncio del “mandato 0”, il partito di Beppe Grillo non ha smesso di stupire. “Sono onesta. Io vado avanti. La città ha bisogno di una guida sicura”, così ha risposto Virginia Raggi a chi le chiedeva se, in caso di condanna (condanna poi non avvenuta), si sarebbe autosospesa come la collega di Torino Chiara Appendino. Un bel salto semantico da parte di chi tifava le dimissioni di Alfano perché indagato.
Quali prospettive per il Movimento?
A questa altezza cronologica è dunque legittimo chiedersi quale sarà il futuro per il Partito di Beppe Grillo. Un’ipotesi suggestiva, seppur carica di interrogativi, è quella lanciata da Piergiorgio Corbetta che avrebbe pronosticato (e forse suggerito) un destino parallelo a quello del Partito Radicale dell’epoca di Pannella. Così riassume l’idea il politologo Marco Tarchi nel suo editoriale su Domani: “(…) Quello di accontentarsi di essere una forza politica minore e non inserita in alleanze di governo ma capace di fungere da ago della bilancia tra le opposte coalizioni, influenzando in modo decisivo, e talora determinando, le scelte del parlamento e dell’esecutivo su temi cruciali di suo interesse”.
Concludendo, se il domani del Movimento appare incerto, l’oggi ci rende un’immagine che, per quanto carica di ambiguità, non assolve la nomenklatura di partito rea di aver tradito – più volte – i suoi sostenitori. Ecco perché, l’epilogo (?) degli stellati non è troppo diverso dall’epitome de “La Fattoria degli Animali” di George Orwell: “Le creature volgevano lo sguardo dal maiale all’uomo, e dall’uomo al maiale, e ancora dal maiale all’uomo: ma era già impossibile distinguere l’uno dall’altro”.