La riflessione di Francesco Borgognoni
“(…) Quando ci sarà l’Europa unita i francesi ci entreranno da francesi, gli inglesi ci entreranno da inglesi, e gli italiani ci entreranno da europei”.
Indro Montanelli
In questo passaggio complicato della esistenza delle moltitudini che abitano il mondo, che si consegnano ai modelli di vita dettati dalle nuove tecnologie, e che inermi si prostrano, nel chiuso delle loro case, davanti ai tabernacoli della comunicazione online, ritengo possa avere importanza il tentativo di sviluppare una riflessione originale sui nostri modelli di comportamento, così pesantemente stravolti dal perdurare di una pandemia, che pare far emergere dal buio delle nostre rimozioni, gli antichi terrori del morbo e del flagello divino. Se questo tipo di riflessione può avere una qualche importanza, ed io ritengo che la abbia, una osservazione attenta, non può che iniziare da una ricognizione, per quanto sommaria, delle cose di casa nostra. Per esempio, dalla rappresentazione che gli italiani si danno della nazione che hanno costruito piuttosto che dalle modalità del loro stare insieme o dalla grande attitudine ad attraversare le difficoltà della vita quotidiana che essi da sempre dimostrano e che gli ha resi famosi nel mondo.
Il carattere degli italiani, evitando le banalità e gli stereotipi delle narrazioni ricorrenti del Bel Paese, si propone, dunque, come argomento di riflessione assai più serio di quanto non appaia ad una prima considerazione e ci induce a sviluppare una riflessione sulla contemporaneità nella quale siano immersi e che ci risulta così difficile comprendere. Naturalmente parlare di carattere e di italiani rappresenta già una scelta. Significa attribuire un qualche senso particolare, in questo passaggio drammatico dell’epopea dell’Evo Cristiano, alla nostra esperienza del Paese e, soprattutto, ritenere che attraversando le problematiche di questa Nazione, così recente, gloriosa e scalcinata, si possa favorire una individuazione delle categorie di analisi della presente transizione ad un futuro che è esploso davanti ai nostri occhi con modalità, riconosciamolo, assolutamente inaspettate.
Come nasce l’Italia?
Qualche decennio or sono, Indro Montanelli ebbe a scrivere che gli italiani sono “contemporanei”, alludendo, credo, alla loro capacità di vivere il presente senza sentirsi parte di una tradizione che potesse indirizzarli nelle scelte del presente. Persino banale ricordare quanto questo possa derivare dalla storia dei processi politico-sociali della penisola. I Comuni e le Signorie. Il Papato e le occupazioni straniere e quant’altro si possa riassumere nella narrazione del Rinascimento come fattore di sviluppo straordinario di arti e scienze, di ricchezze materiali e culturali e, ad un tempo, di inibizione di quei percorsi che nel resto dell’Europa portarono, ad esempio, Francia e Inghilterra a trovare una unità statuale all’obbedienza della corona di un unico re. Il fattore veramente speciale di questa narrazione però, non consiste nell’individuazione del quanto o del quando. Ma nella identificazione di un come. Un mercante di Milano nel 1600 oppure un notaro di Bologna, o un avvocato di Venezia e qualunque altro essere umano, nello stesso periodo, che sapesse leggere e scrivere, a Brescia come a Bergamo, a Palermo come a Napoli, utilizzavano per comunicare nella loro vita di relazione il dialetto. Un dialetto quasi sempre ricco ed espressivo che consentiva lo scambio di informazioni complesse e la giusta comunicazione nelle realtà domestico-familiari e socio-amicali. E, tuttavia, accanto a ciò, mentre il latino si manteneva lingua delle relazioni internazionali e statuali, nonché ambito naturale della religione praticata (il cristianesimo si intende) straripava, importante e decisiva nella formazione delle coscienze, la diffusione della lingua italiana. Il linguaggio poetico di Dante Alighieri che si faceva “modo” di arte e poesia, e diventava espressione di una comunità nella quale si declinava la vicenda del teatro in musica melodramma e prosa. L’Italia nasce lì. Non attraverso un popolo che si riconosce in una comune tradizione, né in un territorio da perimetrare e da difendere da forze ostili, ma, si potrebbe quasi dire, in una dimensione situata a metà strada tra la produzione artistica ed il sogno esoterico, e, per questo, accessibile solo ad individui dotati di caratteristiche particolari ed in possesso di requisiti elevati di istruzione e cultura.
Molti secoli prima del settembre del 1870 non esisteva un Paese abitato da un popolo e governato da un re, ma esisteva un Paese nel quale le classi colte, seppure in modo intermittente, abitavano un luogo dello spirito, che, tra mitologia ed elitarismo, determinava la appartenenza ad una koinè che si attribuiva padronanze culturali e profondità sapienziali. Questo appariva chiaro sin dal Seicento, quando si cristallizzarono le conseguenze di una sciagurata politica che aveva visto i principi e i duchi italiani, gretti e rissosi, mettersi al servizio del potente di turno, in totale subalternità, sperando di difendere il particolare all’interno delle mura municipali. Una condizione amaramente rappresentata, già nella seconda metà del cinquecento dal famoso aforisma di Francesco Guicciardini, “Franza o Spagna, purché se magna”, che bene descriveva l’atteggiamento della classe dirigente italica nei confronti del rappresentarsi dello scontro per il controllo del mondo allora conosciuto.
Siamo rimasti fermi lì. Con la grande eccezione del Risorgimento e della sua gloriosa costruzione che tracolla con il Fascismo che aveva illuso gli italiani. Siamo rimasti con le nostre volubilità e inaffidabilità. Con la nostra incapacità di concepirci in un bene comune, che ci mostra miserabili ed indifesi. Manteniamo tuttavia, e – dico io – proprio anche per questo, una grandissima capacità di collocarci nel nuovo e nel diverso, che ci deve consegnare qualche speranza per il futuro, nonostante l’orizzonte fosco che si presenta ai nostri occhi.
Essere contemporanei, quindi, senza subire i condizionamenti delle antiche abitudini, forse perché vigliacchi e un poco traditori, ma, forse, anche perché capaci di decrittare una via di salvezza prima di altri. Essere contemporanei senza soffermarsi a rimpiangere quello che la nostra idiozia ha dissipato, e prendere rapidamente possesso di quel poco che ci verrà consegnato. E provare tutti insieme a ripensare la politica e la democrazia. Con un po’ di fortuna i nostri figli o i nostri nipoti, ce la potrebbero anche fare.
Foto in copertina © Fotocronache Germogli
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