Il nuovo contributo di Giorgio Agamben su Quodlibet in cui riflette su tecnica e controllo politico.
Quodlibet – Alcune delle menti più acute del Novecento si sono trovate d’accordo nell’identificare la sfida politica del nostro tempo con la capacità di governare lo sviluppo tecnologico.
«La questione decisiva», è stato scritto, «è oggi in che modo un sistema politico, quale che sia, possa essere adeguato all’età della tecnica. Non conosco la risposta a questo problema. Non sono convinto che sia la democrazia».
Altri ha paragonato il controllo della tecnologia all’impresa di un nuovo Ercole: «coloro che riusciranno a sottomettere la tecnica sfuggita a ogni controllo e a inserirla in un ordine concreto avranno risposto ai problemi del presente assai più di coloro che con i mezzi della tecnica cercano di sbarcare sulla Luna o su Marte».
Il fatto è che le potenze che sembrano guidare e usare ai loro fini lo sviluppo tecnologico ne sono in realtà più o meno inconsapevolmente guidate.
Tanto i regimi più totalitari, come il fascismo e il bolscevismo, che quelli cosiddetti democratici condividono a tal punto questa incapacità di governare la tecnica che essi finiscono col trasformarsi quasi inavvertitamente nel senso richiesto dalle stesse tecnologie che credevano di usare ai propri fini.
Uno scienziato che ha dato una nuova formulazione alla teoria dell’evoluzione, Lodewijk Bolk, ha visto così nell’ipertrofia dello sviluppo tecnologico un pericolo mortale per la sopravvivenza della specie umana.
Lo sviluppo crescente delle tecnologie tanto scientifiche che sociali produce, infatti, una vera e propria inibizione della vitalità, per cui «più l’umanità avanza sul cammino della tecnica, più essa s’avvicina a quel punto fatale in cui progresso significherà distruzione. E non è certo nella natura dell’uomo arrestarsi di fronte a ciò».
Un esempio istruttivo è fornito dalla tecnologia degli armamenti, che ha prodotto dei congegni il cui uso implica la distruzione della vita sulla terra – quindi anche di coloro che ne dispongono e che, come oggi vediamo, continuano nondimeno a minacciare di farne uso.
È possibile, allora, che l’incapacità di governare la tecnica sia iscritta nel concetto stesso di «governo», cioè nell’idea che la politica sia nella sua stessa natura cibernetica, cioè arte di «governare» (kybernes è in greco il pilota della nave) la vita degli esseri umani e i loro beni. La tecnica non può esser governata perché essa è la forma stessa della governamentalità.
Quella che è stata tradizionalmente interpretata – dalla scolastica fino a Spengler – come la natura essenzialmente strumentale della tecnica tradisce l’inerenza di una strumentalità alla nostra concezione della politica. Decisiva è qui l’idea che lo strumento tecnologico sia qualcosa che, operando secondo il proprio fine, può essere usato ai fini di un agente esterno. Come mostra l’esempio della scure, che taglia in virtù della propria acuminatezza, ma viene usata dal falegname per fare un tavolo, così lo strumento tecnico può servire a un fine altrui solo nella misura in cui realizza il proprio. Ciò significa, in ultima istanza – come è evidente nei dispositivi tecnologici più avanzati – che la tecnica realizza il proprio fine servendosi apparentemente di un fine altrui.
Nello stesso senso, la politica, intesa come oikonomia e governo, è quell’operazione che realizza un fine che sembra trascenderla, ma che le è in realtà immanente. Politica e tecnica si identificano, cioè, senza residui e un controllo politico della tecnica non sarà possibile finché non avremo abbandonato la nostra concezione strumentale, cioè governamentale, della politica.
Fonte: La tecnica e il governo, di Giorgio Agamben per la rubrica “Una voce” su Quodlibet