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Il puzzle libico e la sistematica rimozione degli interessi nazionali. Parla Michelangelo Severgnini

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Proseguendo gli approfondimenti sulla Libia, ospitiamo Michelangelo Severgnini, per una prospettiva dal campo, quasi sempre assente nei media nostrani, e certamente controcorrente.

Michelangelo Severgnini, nato a Crema nel 1974, è uno dei massimi esperti della questione libica, fondatore del progetto Exodus – Fuga dalla Libia e regista del film L’Urlo (2021), che affronta la tematica dell’emigrazione dei profughi dalla Libia attraverso materiali audio-video da essi stessi prodotti. È stato redattore di Radio Onda d’Urto dal 2000 al 2001; nel 2000 è autore del libro Good morning, Pristina! – diario di un giornalista radiofonico tra Kosovo e Serbia, per i tipi Prospettiva edizioni. Nel luglio 2004 gira in Iraq …e il Tigri placido scorre – istantanee dalla Baghdad occupata. Il terzo lavoro indipendente esce nel settembre 2008, Isti’mariyah – controvento tra Napoli e Baghdad, già vincitore nel 2006 del Premio Internazionale Documentario Reportage Mediterraneo nella sezione creatività e nel 2008 del primo premio assoluto per la miglior opera in concorso al Sole e Luna doc festival. Nell’estate 2008 lasciò l’Italia per trasferirsi a Istanbul, dove ha girato il film Katırlar doğurunca (Quando le mule partoriranno). Nel 2012 partecipa al festival di Roma con il film L’uomo con il megafono, girato a Napoli. Attualmente collabora con L’Antidiplomatico, per cui scrive articoli in merito alla Libia e alla sua travagliata attualità politica.

Michelangelo, grazie per la Sua disponibilità. L’attenzione verso la Libia dovrebbe essere scontata, non foss’altro perché il “bel suol d’amore” rappresentò un completamento del sogno nazionale dopo lo Schiaffo di Tunisi e il trittico di disfatte Amba Alagi, Macallè e Adua. Eppure, abbiamo sparute, frammentarie, contingentate informazioni su un paese al quale siamo legati a doppio filo. A mantenere un’attenzione più continuativa come fa Lei si rischia di essere una “vox clamantis in deserto” e non mi riferisco al presunto “Scatolone di sabbia” …

Grazie a Lei per l’occasione che mi dà di parlare di Libia. Dunque, le disfatte storiche da Lei evocate non mi rappresentano molto per l’idea di relazioni che ho in mente tra l’Italia e la Libia. C’è una vocazione reciproca, c’è tutta una serie di fattori anche storici che suggerirebbero una convergenza tra i nostri due paesi, come di fatto è stato per il lungo periodo di Gheddafi, ma non aspiro a vedere la Libia come una colonia.

Anzi, lo sbandieramento di pretesi interessi nazionali ha equivocato l’approccio alla Libia di molti nostri connazionali negli ultimi 10 anni. Abbiamo pensato che trafugare petrolio dalla Libia attraverso le milizie fosse una gran furbata (vedi dottrina Minniti), ma come stiamo vedendo non è così. Sostenere la politica del caos, tipica degli americani lontani da casa, alla fine ci ritorna contro.

Credo invece nel naturale dialogo che le relazioni tra Italia e Libia generano. Noi abbiamo da guadagnarci dalla loro amicizia. Loro dalla nostra. L’unione tra Italia e Libia è naturale, un po’ come tra l’Europa e la Russia.

«Ho l’impressione che qualcuno si diverta a recidere questi canali vitali geografici con l’obiettivo di impoverire i propri avversari. Al punto che sostengo che la consegna del silenzio in cui è caduta la Libia in questi ultimi 11 anni in Italia, appartiene a una precisa strategia di rimozione degli interessi nazionali ed è, a tutti gli effetti, propaganda di guerra».

Più la Libia è vitale per l’Italia, meno se ne parla. Più i nostri interessi sono calpestati, meno se ne parla. Più c’è bisogno di capire, meno se ne parla. Qualcuno aveva interesse a che ci dimenticassimo che la Libia esiste.

Libia e Algeria – penso al sostegno al Fronte di Liberazione Nazionale – rappresentavano la proiezione italiana in Africa. Compare il loro gas – per fortuna quello algerino ancora arriva – come fonte di produzione di corrente elettrica rappresentava un sostegno alla stabilizzazione delle classi dirigenti del socialismo arabo, liquidate da quella stagione delle primavere arabe che abbiamo salutato con eccessivo entusiasmo. Quali prospettive intravedi per quella che fu la Jamahiriya Araba Socialista Popolare?

Penso che quelle esperienze, ahimè, ormai siano perdute nella storia. Nel 2011 c’è stato un terremoto che ha azzerato le esperienze politiche ma anche le coscienze di molte persone nei paesi arabi. E in fondo da noi non è stato molto diverso.

Le cosiddette “rivoluzioni arabe” hanno avuto la forza d’urto culturale ed economica per cambiare profondamente la vita di molti paesi, in particolare Tunisia e Libia. Passati 11 anni, però, le società di questi paesi si sono rese conto di ciò che è successo, nel frattempo, e di cosa hanno perso.

Una classe dirigente venduta legata alla Fratellanza Musulmana si è prestata a essere strumento di espropriazione della sovranità nazionale a favore dei banchieri europei.

«La conseguenza è stata il saccheggio delle risorse locali e il crollo degli standard di vita in questi paesi. In Libia questo fenomeno ha raggiunto livelli insostenibili, se non fosse per la macchina militare repressiva in forza in Tripolitania e composta dalle milizie».

Pertanto qualsiasi iniziativa politica che possa nascere ora, potrà sì rifarsi al passato, soprattutto nel momento di fare un impietoso paragone con esso, ma non potrà prescindere da una sorta di riscossa, di processo di “liberazione nazionale” nei confronti di questa classe politica “post-rivoluzionaria” venduta e ormai invisa alla gente, che darà a questi paesi inevitabilmente una nuova identità, ormai più al passo con i tempi.

Al ripiegamento dell’Italia e alla scarsa credibilità della Francia (il fallimento in Mali per citarne uno), per il suo passato coloniale e non solo, è seguita una rinnovata intraprendenza di Ankara e anche una presenza russa oramai certa. Questo, però, senza che ci siano pretese di una qualche unità nazionale. Come giudica le azioni della Turchia che si muove nel Mediterraneo e in parallelo nell’Asia centrale?

La Turchia da anni ha una delle attività diplomatiche più vivaci e capillari di tutta l’area. Vi è costretta dalla disperata necessità di trovare sempre nuovi acquirenti per il sistema produttivo turco basato sull’export, ma temo che Erdogan sia quasi costretto ad una politica estera audace dal sempre presente spettro del default.

È come se ci fosse una bolla finanziaria che insegue la Turchia da anni e Erdogan deve riuscire a tenere il paese sempre un metro avanti. L’ha fatto trafugando il petrolio siriano via Isis, lo ha fatto riducendo milioni di profughi siriani in Turchia ad uno stato di semi-schiavitù. Operazioni simili le ha condotte in Libia, sfidando il diritto internazionale e diventando campione di un’economia di guerra nel mediterraneo.

In Libia non solo la Turchia è stata spregiudicata, accettando di intervenire militarmente a Tripoli a partire dal gennaio 2020, quando l’Esercito Nazionale Libico di Haftar era alla periferia della città, rispondendo alle richieste dell’Europa che aveva bisogno di un esercito di pronto intervento per scongiurare la “caduta” di Tripoli, ma da allora ha preso possesso della base militare di al-Waityah, la più grande di tutta la Libia, e gestisce militarmente diversi porti della Tripolitania, oltre ad aver trasferito in Libia migliaia di mercenari siriani.

Non solo. Anche politicamente in Libia i Turchi hanno le carte migliori in mano. Sostengono simultaneamente il governo di Dabaiba a Tripoli (con quel governo hanno firmato gli accordi per sfruttare le acque di confine tra Libia e Turchia) e il governo di Bashagha a Sirte (Bashagha, originario di Misurata, è storicamente un uomo della Turchia in Libia, ma il suo governo nasce da un accordo con Haftar vicino alla Russia).

«In sostanza anche in Libia la Turchia si sta costruendo la sua terza posizione, a equidistanza variabile tra Nato e Russia».

Le lancio una provocazione: la Libia è tornata a quella condizione di non-Stato antecedente alla colonizzazione italiana – che fu tutt’altro che semplice – con Cirenaica e Tripolitania divise e più o meno controllate attraverso le coste, e il (fondamentale) retroterra è tribalizzato?

No, niente di più sbagliato. La spaccatura in questo momento in Libia non è geografica. E non è nemmeno tribale. È una spaccatura tra patrioti e traditori. Che le milizie siano concentrare a Tripoli è solo perché quella è la capitale, lì risiede la Banca centrale, la diligenza libica, e lì finisce il grosso degli oleodotti che raccolgono il petrolio dal cuore sahariano del paese.

Ma nelle milizie ci sono libici del sul e dell’est, come nell’Esercito Nazionale Libico combattono molti tripolitani. I cittadini di Tripoli invocano la liberazione della città da parte dell’Esercito Nazionale Libico, perché sanno che il problema della Libia sono le milizie che trafugano il petrolio di Stato e lo investono in armi e in economia reale. Una sorta di mafia legalizzata. Lo sanno perché hanno sperimentato dal vivo il crollo dei servizi: il sistema idrico, quello elettrico, gli ospedali, le scuole. D’altra parte, se togli il 40% di petrolio ogni anno, unica fonte dello stato, ecco che la conseguenza non può che essere quella.

La decisione di chiudere i pozzi di petrolio ad esempio è stata presa dal consiglio delle tribù lo scorso marzo e implementata dall’Esercito Nazionale Libico (i pozzi si trovano nei 2/3 di Libia sotto il suo controllo). Un sondaggio di Libyastats ha mostrato che 2 libici su 3 erano d’accordo.

«Insomma, questa situazione di tentato dominio coloniale della Nato tramite ascari e giunte militari ha messo d’accordo la maggioranza dei Libici su cosa bisogna fare ora. Le elezioni dello scorso dicembre 2021, annullate misteriosamente una settimana prima del voto, in verità sono state annullate per impedire a Saif Gheddafi di diventare presidente della Libia. I sondaggi infatti lo davano a più del 50%».

È stata la NATO a bloccare le elezioni. Poi qui noi raccontiamo che i libici non sanno mettersi d’accordo e dobbiamo intervenire noi per dare stabilità. A me sembra che, al contrario, abbiano le idee chiare e concordino sul da farsi. È la NATO che si oppone alla stabilità e alla loro volontà popolare.

Gli USA hanno ristretto la propria presenza nel mare nostrum, la NATO si proietta sempre più verso Est, l’Italia ha dimenticato la massima chiave della geopolitica secondo cui le coste si controllano dal mare ma la Russia e soprattutto la Cina sono ben presenti nel Mediterraneo allargato (Siria, Algeria, Libia). Ritiene possibile una proiezione del conflitto fino alle nostre coste?

Che il territorio nazionale italiano sia toccato direttamente dal conflitto questo dipende dal livello di scontro militare su scala mondiale e dalla stupidità dei nostri politici. È pertanto una concomitanza di eventi avversi che in questo momento non riesco a calcolare.

Che la Libia possa diventare un altro fronte sì. Anzi, la Libia è già il fronte sud di questo conflitto e non ha mai smesso di esserlo in questi ultimi 11 anni.

Alcune settimane fa l’On. Vito Petrocelli ha presentato un’interrogazione parlamentare al ministro Di Maio sulla base di un documento del governo di Tripoli denunciato da Breka Beltamar, a capo della commissione per la società civile in Libia, che io ho intervistato. Questo documento dimostra che i soldi ricevuti da Tripoli come aiuti umanitari negli ultimi anni sono stati spesi per “altre esigenze del governo”.

Altro che migrazione! Quella è stata distrazione di massa, lo specchietto per le allodole. Noi abbiamo finanziato un dispositivo militare basato sulle milizie finalizzato al saccheggio del petrolio libico. Con buona pace di chi ogni anno si stracciava le vesti per gli “Accordi con la Libia”, ma non aveva capito affatto che il tema non era la migrazione. O forse lo sapeva e si è prestato al gioco.

La procura di Catania che nel 2018 indagava su come questo petrolio entra in Italia illegalmente si è dovuta fermare.

Ci sono segreti troppo grandi sulle relazioni dell’Italia con la Libia degli ultimi 11 anni che nessuno vuole toccare. Qualcuno dovrà spiegare perché il governo Monti liberalizza il mercato degli idrocarburi in Italia nel 2012, pochi mesi dopo la morte di Gheddafi. Forse sapevano che avrebbero messo le mani su una quantità enorme di petrolio illegale da disperdere nei mille rivoli di un mercato liberalizzato?

«Se lasciassimo emergere ciò che ormai anche i muri hanno capito, scopriremmo non solo che abbiamo trattato la Libia come un paese africano dell’800, ma che alla fine così facendo ci siamo precluse le residue possibilità di avere la Libia come partner strategico per il paese».

Purtroppo Mattei è stato ammazzato molti anni fa e da allora non siamo più un paese libero. Se fosse vivo oggi, non avrebbe nessun problema a riconoscere dove risiede oggi la sovranità del popolo libico e chi sostenere oggi in Libia.

Sul tema
  1. La Libia in fiamme – Il Tazebao
  2. Libia, una partita tutt’altro che chiusa – Il Tazebao

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