Geostoria irredenta

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L’intervento di Lorenzo Somigli, fondatore de Il Tazebao, all’evento dedicato alla memoria e all’approfondimento sul dramma delle foibe all’Istituto Enriques di Castelfiorentino.

Vi ringrazio. A Castelfiorentino torno sempre con estremo piacere anche perché ho avuto l’opportunità di lavorare con il Comune e con l’Associazione Cetra nel comunicare e diffondere la quarta edizione della Mostra Diffusa “Community”, alla quale anche questo Istituto ha contribuito, dedicata alla vita nuova degli “ex-scarti” e degli “scartati”.

Per affrontare questo tema parto da una lettura geo-storica, anche per darvi una prospettiva diversa rispetto a quello più consuete. Oltre al ricordare il dramma delle foibe, finalmente riconosciuto da tutti, è doveroso capire che quella tragedia, quella pulizia etnica, ha portato alla distruzione di una plurisecolare forma di convivenza tra italiani e slavi, tra cristiani ortodossi e cattolici, lungo quelle coste dell’Adriatico. Il dolore del ricordo del Novecento di sangue pulsa forte in ognuno di noi e in un certo senso tutto il nostro presente è ancora condizionato da quel passato; capire ciò che è successo ci offre una chiave di lettura per la contemporaneità.

Per molto tempo è esistita un’Europa delle minoranze. Più di un secolo fa l’Europa aveva una conformazione profondamente diversa da quella odierna: esistevano dei grandi imperi multietnici come quello Austro-Ungarico, quello Ottomano, che non era propriamente “europeo” ma insisteva su territori europei, o quello degli zar.

C’erano regioni a spiccato pluralismo che oggi, purtroppo, non ci sono più come la Galizia, annessa all’Austria dopo la spartizione della Polonia e comprendente quei territori di sangue dove ancora oggi si combatte. Se guardate il film A Serious Man dei fratelli Coen vedete una scena di vita in uno di quei villaggi, uno shtetl yiddish; vedete dei frammenti di quella vita umile e grama anche nei quadri di Chagall.

Il filosofo Giorgio Agamben su Quodlibet scrive: «Per le strade di Lemberg, Tarnopol, Przemysl, Brody (patria di Joseph Roth), Rzeszow, Kolomea camminava un insieme variegato di ruteni (così allora si chiamavano gli Ucraini), polacchi, ebrei (in alcune città quasi metà della popolazione), rumeni, zingari, huzuli (…). Ognuna di queste città aveva un nome diverso secondo la lingua degli abitanti che vi convivevano, in ognuna di esse le chiese cattoliche girato l’angolo si trasformavano in sinagoghe e queste in chiese ortodosse e uniate».

Voglio dire che la fine di quel delicato equilibrio multietnico, già scosso dall’interno e nelle fondamenta dalla Primavera dei popoli del 1848 che porta al risveglio delle coscienze nazionali, è l’origine di molti lutti, non solo per gli italiani, per gli ebrei, per gli armeni, per i greci. In sostanza, quel processo che comincia mezzo secolo prima porta alla nascita di unità statali “etnicamente” omogenee, ciò si traduce necessariamente cancellare una parte della storia.

Su questo faccio una piccola digressione. Vi sarà capitato di girare a Firenze e vedere luoghi o chiese che non sono solo cattoliche. C’è un motivo. Firenze da sempre è stata una città della tolleranza. Ecco perché ci sono comunità religiose ortodosse, anglicane, luterane e luoghi di ritrovo. Ecco perché alla fine è stato abbattuto il ghetto. Ci tenevo a dire questo perché abbiamo nelle nostre corde la tolleranza.

È una verità storica che in quei territori le persone sentivano di appartenere alla cultura italiana. Innanzitutto, è stata significativa e stabile la penetrazione del potere imperiale romano: ve ne sono pregevoli testimonianze architettoniche, a Pola che si chiamava Pietas Iulia. La Tabula Peutingeriana fotografa una ghirlanda di porti che costituivano questa vivace costellazione adriatica nata dall’interconnessione tra le due sponde.

A ribadire che queste terre erano già irraggiate dalla cultura italiana, Dante (Divina Commedia, Inferno, Canto IX, vv. 142-144) scrive:

Sì come ad Arli, ove il Rodano stagna,
Sì come a Pola presso del Quarnaro
Che Italia chiude e i suoi termini bagna

Sto insistendo molto su questo dettaglio del mare per un motivo: secondo il grande storico francese Fernand Braudel l’Adriatico era una sorta di “pianura liquida”, un mare conchiuso che condensa Nord e Sud e tutto ciò che c’è nel Mediterraneo, un “Mediterraneo nel Mediterraneo”, ma anche uno spazio liquido di “patrie autonome” proprio per questa sua conformazione frastagliata, acquorea e sfuggente. Sono suggestioni che ben rendono questa storia.

Ne Il Mediterraneo e l’Europa (Garzanti, 1995), lo scrittore Predrag Matvejevic ricorda: «Sulle coste dell’Adriatico si incrociavano le vie del sale e del grano, dell’olio e del vino. Le spezie e la seta venivano da Levante e dal Sud, l’ambra e lo stagno da Ponente e dal Nord. Un simile mare doveva suscitare invidia».

Non è un caso che vi siano sorte straordinarie città come Aquileia, che era un passaggio obbligato dalla Penisola ai Balcani, Ravenna, per me una delle città più belle d’Italia, Venezia, che ha fatto dell’Adriatico una grande laguna, e poi Fiume e Trieste di cui parleremo.

Sotto Venezia, che comunque le popolazioni slave – è sempre giusto vedere tutte le prospettive – ricordano come colonizzatrice, esisteva il bilinguismo; l’Impero Austro-Ungarico, che entra in possesso dei territori a fine del Settecento con il Trattato di Campoformio (1797), cerca di non alterare gli equilibri, anzi investe – quasi disperatamente – su questi territori che rappresentano l’accesso, per una potenza di terra, al mare e, infatti, vi impianta sua efficiente burocrazia.

Sotto Vienna, Trieste emerge come la porta d’accesso della Mitteleuropa al Mediterraneo, tanto da raggiungere i circa 230 mila abitanti nel 1910 (oggi sono circa 198 mila), mentre Fiume è l’ultima propaggine del bacino danubiano anche grazie alla straordinaria crescita della rete ferroviaria. Questo spiega anche perché gli italiani volevano a tutti i costi questi territori perché ci sono le predette ragioni culturali, ribadisco corrette e fondate, ma anche economiche. Fino all’inizio del Novecento il sincretismo e la coesistenza tendono a prevalere. E dopo la lunga guerra civile europea in due tempi quel mare che per secoli ha unito è diventato una lunga cortina d’acqua che solo dopo la fine della Jugoslavia si è definitivamente sciolta.

Nell’avviarmi a concludere voglio raccontarvi una piccola storia. Diversi anni fa, ero praticante, mi dedicai a ricostruire le tracce degli esuli a Firenze ed ebbi modo di parlare con la signora Edda Baucer che da Pola, dopo un lungo travaglio, è arrivata a Firenze. Sappiamo che la vita degli esuli non è stata facile ovunque. Su di loro si sono abbattute le colpe del regime oltre alla volontà collettiva di dimenticare presto. Eppure, questi hanno anche trovato chi li ha accolti e hanno trovato non solo muri e ostilità ma anche una nuova casa, come in certe vie dell’Isolotto.

Ne La Firenze della Ricostruzione (Ibiskos, 2008) Enrico Nistri nota: «A differenza degli altri rioni popolari della città, con tradizioni secolari – come Santa Croce o San Frediano – o comunque costituitisi, nel corso dei decenni – come Rifredi – intorno a comuni realtà lavorative, l’Isolotto aggregò sin dalla nascita gruppi sociali eterogenei, in cui accanto ai fiorentini sfrattati dai quartieri centrali, erano numerosi gli immigrati meridionali, i profughi istriani e dalmati, gli alluvionati del Polesine».

Così, alla fine, gli italiani hanno ritrovata casa nell’amata madrepatria e noi non dimentichiamo.

Castelfiorentino (Firenze), 12 febbraio 2024

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