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Da Vestfalia a Gaza

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La storia, come si sa, non insegna niente alla politica, ma senza la conoscenza della storia, l’azione politica è cieca.

I lunghi conflitti mediorientali non possono altro che costringersi a riflessioni amare. L’elenco è lunghissimo. Il conflitto arabo-israeliano e poi palestinese-israeliano con propaggini libanesi da quel lontano 1948, le due guerre in Iraq – prima e seconda guerra del Golfo (1990-1 e 2003-11) – poi la lotta all’Isis (2014-17), la guerra civile siriana e guerra all’Isis (2011 ancora in corso), la guerra in Afghanistan contro gli invasori sovietici (1979-1989), in seguito tra Stati Uniti e forze Nato contro Al Qaida e Talebani e, una volta cacciata Al Qaida, tra talebani e governo afghano (dal 2001 e ancora non è finita) sostenuto dalle forze occidentali.

Vestfalia, 1649

Allora qualche osservatore rimanda lo sguardo alla storia europea, storia millenaria di sangue e distruzione fino alla fine del Secondo conflitto, che non si dimentichi provocò qualcosa come 50 milioni di morti. Sposta lo sguardo al quel Seicento, al “secolo di ferro” come è stato chiamato, culminato con una pace, quella di Vestfalia (1649) sancita da accordi diventati la base della convivenza civile e del diritto internazionale. Infatti, la pace sanciva l’indipendenza degli stati da ogni ingerenza esterna sia papale sia da parte dell’Impero e stabiliva la libertà di scelta di culto da parte dei sovrani, ripetendo d’altronde quanto scritto nelle pace di Augusta del 1555. “Cuius regio, eius religio”, con la possibilità da parte dei sudditi di fede diversa di poter emigrare mantenendo il possesso dei propri beni. Ma il trattato entrava nello specifico di molti più ambiti contenendo anche clausole sulla gestione dello stesso, i casi ed i modi in cui dovevano essere affrontate le crisi tra stati e molto altro. Ma il fatto veramente importante fu appunto la fine della guerra di religione, lo scontro tra cattolici e riformati, che aveva attraversato l’Europa.

La guerra dei Trent’anni fu spaventosa: eserciti di mercenari, truppe allo sbando, feroci odi religiosi, distrussero l’Europa centrale. Alle stragi di civili inermi, si aggiunsero le morti per malattia, le epidemie, la carestia. La superficie coltivabile si ridusseo del 50%. Il Württemberg perse i tre quarti della sua popolazione, il Brandeburgo la metà degli abitanti, la Boemia un terzo.

Quella guerra era stata qualcosa di estremamente complesso in un intreccio di cause inestricabile. Scontro per l’egemonia in Europa tra Francia, Austria e Spagna. Guerra religiosa tra cattolici e protestanti. Guerra di indipendenza dei Paesi Bassi dalla Spagna e presa d’atto della realtà elvetica. Ricerca di nuove posizioni sullo scacchiere geopolitico europeo e quindi di nuovi equilibri, si veda l’affacciarsi della Svezia di Gustavo Adolfo sulla scena. Lotta per la sovranità da parte dei principi tedeschi dall’impero. Guerra che aveva coinvolto le Fiandre, l’Europa centrale, le zone del Baltico, anche l’Italia con la guerra piemontese che gli Aosta alleati della Francia contro la Spagna.

Quella guerra però dei Trenta anni non fu per fortuna completamente inutile. Da quel disastro uscì un nuovo ordine europeo, cioè mondiale.

La similitudine con il caos mediorientale odierno è affascinante. Scontro di popoli, di religioni, di potenze regionali e di super potenze. Guerra tra stati, guerre civili, guerre di religione e tra popoli.

Allora il confronto regge?

No assolutamente. I paragoni in storia sono utili, ma con essi non facciamo altro che confrontare un modello, una fotografia statica con processi complessi che sono durati secoli.

Innanzitutto, quello scontro avveniva al centro dell’Europa, cioè al centro del mondo, di un un mondo che condivideva gli ideali religiosi e culturali della cristianità, il “concerto d’Europa” cantato dagli Illuministi, da Voltaire a Diderot, dove si parlava una sola lingua. Ideali di pace che si scontravano da sempre con la realtà della guerra, ma che nella tensione avevano prodotto un pensiero prima teologico con la scolastica, poi filosofico politico con il giusnaturalismo, e infine giuridico con l’invenzione del diritto internazionale, grazie all’aiuto del diritto romano. Pensiero il cui fine centrale era la regolazione del conflitto, la strada se non per la pace perpetua, per una convivenza il più possibile pacifica. Insomma tutta la riflessione delle discipline che avevano a che fare con la guerra e la pace si erano dedicati, si direbbe ora, alla gestione dei conflitti.

L’Europa che non aveva mai smesso di produrre altissimo sapere nonostante le guerre, con alle spalle il Rinascimento, l’Umanesimo. Che stava attraversando due grandi passaggi, la rivoluzione scientifica e la secolarizzazione. Per giunta alla vigilia della Rivoluziome industriale, in un’Europa ormai non più chiusa nel Mediterraneo, ma che guardava verso l’America e le Indie. La guerra si rivelò oltre che nei suoi aspetti drammatici, come un potente fattore costitutivo anche di nuove istituzioni. Come ricordava Otto Hintze, la storia dello stato è storia d’Europa, lo stato come lo conosciamo è affare europeo, e la storia dello Stato è la storia della guerra. Costruire eserciti richiede soldi, vuol dire per il Sovrano procacciarsi risorse continue in modo stabile, vuol dire approntare un meccanismo di esazione razionale, le tasse sono sinonimo di organizzazone burocratica efficiente. Combattere per decenni richiede eserciti addestrati, un corpo di ufficiali fedele, truppe disciplinate. La grande rivoluzone militare del XVII secolo è opera dei protestanti ugonotti, olandesi e svedesi. Agli Orange e agli intellettuali della loro cerchia si deve la riscoperta dei classici del pensiero romano, la loro traduzione sistematica, la riscoperta del pensiero stoico. Rivoluzione militare che è anche rivoluzione sociale, formazione della classe dirigente sia da un punto di vista strategico che culturale nel senso più profondo, come condivisione di valori, costruzione di atteggiamento, modo di pensare e vedere il mondo, disciplina morale.

Sistema degli stati, equilibrio di potenza, guerra limitata, diritto internazionale a cui corrispondeva lo Stato come macchina che deteneva il monopolio della violenza interna ed esterna, il monpolio del diritto e delle finanza, l’organizzazione delle forze armate. Con la guerra dei Trent’anni, erano finite le guerre sante. Questi sono alcuni delle istituzioni-concetti-dottrina su cui si è costruita e su cui ancora si regge la nostra storia.

Vi è forse qualcosa in comune con il mondo di oggi e con il Medio Oriente in particolare?

E poi ci sono ancora tre enormi differenze. La prima, le forze del conflitto arrivarono ad una volontà comune di pace, perché completamehte esauste, le forze dei contendenti erano finite.

La seconda, la guerra era terminata con dei vincitori e dei vinti senza ombra di dubbi. Avevano vinto la Francia, la Svezia, i Paesi Bassi, i protestanti. Di contro, sconfitti l’Impero, la Spagna e il Papa, si veda a questo proposito la scomunica per i firmatori cattolici del trattato di Vestfalia a causa del riconoscimento degli stati aderenti alla Riforma.

Il terzo motivo. La pace apportò dei cambiamenti territoriali enormi, in nome di un equilibrio tutto politico, senza guardare in faccia nessuno. Avvenne a spese dell’unità della Germania, dell’indipendenza della Boemia, della futura sparizione della Polonia.

Niente di simile avviene oggi in Medio Oriente. Non c’è nessuna similitudine con il conflitto tra Israele e palestinesi. Se facciamo un confronto puntuale, le differenze sono abissali. È sufficiente prendere le ultime tre, come una voltà notò con cinismo Luttwack. Le guerre moderne non finiscono perché si fermano troppo presto (cito a memoria) e perché, aggiungo, i flussi di denaro non si interrompono mai.

Comunque il punto centrale è che avvengono tra contendenti che non condividono nessun principio di legittimità internazionale, perché il sistema degli stati non forma certo nessun concerto, perché l’ordine mondiale e regionale come la configurazione politica del Medio Oriente, gli attuali stati, sono un prodotto nel bene e nel male europeo, anche del colonialismo. Ma la storia non si può cambiare.


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