Nel giorno del ventunesimo anniversario dalla scomparsa di Bettino Craxi, uno spunto di riflessione sulle prospettive del riformismo nell’era digitale.
La risposta è sì: c’è ancora bisogno del riformismo. Anche nell’era della cibernetica, del digitale, della biosicurezza sanitaria. Ma da questa risposta nasce almeno un’altra domanda. Quale riformismo? O soprattutto, chi ha bisogno del riformismo oggi?
Nell’ultima settimana Il Tazebao ha dedicato uno spazio rilevante a uno dei politici che di più hanno inciso nella politica del Novecento e troppo a lungo misconosciuto. Opera meritoria in un Paese che fa della sua storia una lunga trafila di rimossi, non detti e omissis.
Fino ad oggi però non ci si è chiesti se c’è ancora uno spazio politico per i valori che fecero germogliare Craxi e la sua classe dirigente nella complessità del tempo presente. L’eredita di Craxi può limitarsi alla sola memoria? A onor del vero, nei contributi precedenti non sono mancati sguardi critici sulle “magnifiche sorti e progressive” della stagione di Mani Pulite o sul tempo presente, ma il solo commemorare Craxi, comunque propedeutico ad ogni altra riflessione successiva, rischierebbe di rimanere un esercizio per nostalgici.
“Ma cosa avete contro la nostalgia? È l’unico svago che resta a chi è diffidente verso il futuro”.
Verrebbe da dire così citando un gigantesco Carlo Verdone proiettato nel disilluso Romano in quel capolavoro de “La Grande Bellezza” (2013). Ma, uscendo dalla poesia e dalla finzione, l’incombenza dei cambiamenti, il mundus furiosus impongono anche altro, almeno per chi ancora crede nella capacità della politica di incidere e modificare la realtà. Fatto quest’ultimo tutt’altro che scontato dopo vent’anni di perifericità e spoliazione dei corpi intermedi o di strumenti essenziali per la democrazia come i partiti politici, soprattutto per la fragile democrazia italiana che ne nacque.
Craxi, perseguendo una via altra rispetto al PCI seppur stabilmente a Sinistra, anticipò le evoluzioni profonde in seno alla società italiana e seppe accompagnarle nella concretezza dell’azione di governo. Dal rivolgersi ad un ceto auto-imprenditoriale che già allora prendeva spazio nella società (historia non facit saltus) e lo reclamava nella politica, all’intuire il ruolo preponderante del leader nel sistema politico – preminenza esemplificata dalle creazioni geniali di Filippo Panseca – per arrivare all’intuizioni sulla televisione privata, che aprì la strada alla discesa in campo Berlusconi ma soprattutto alla definitiva americanizzazione della società italiana (fatto irrinunciabile).
È stato un modernizzatore. Lo sottolinea giustamente il Senior Fellow del Nodo di Gordio Andrea Marcigliano quando scrive che Craxi fu capace di “conciliare con la complessa macchina della modernità che tutto tende a tritare e omologare, la tradizione sociale e culturale italiana”. È questo il punto sostanziale.
Cos’è il riformismo?
Il riformismo si può interpretare come un modo di porsi rispetto alla realtà. È l’atteggiamento di chi non vuole ribaltare un sistema che comunque genera benefici (un capitalismo allora pienamente compiuto), o almeno è non peggiore degli altri, ma vuole che i benefici di esso siano accessibili a un numero sempre maggiore di cittadini. Avendo chiaro che sì è un sistema positivo ma non scevro di errori, si ripromette di ammorbidire gli alti costi sociali di uno sviluppo che rischia di falcidiare molti o molti lasciare fuori. Ma quello riformista è anche un atteggiamento di rispetto e attenzione verso particolarità.
Oggi come allora: similitudini e differenze
Al pari della rivoluzione industriale che produsse quelle fratture da cui poi sbocceranno i partiti, in opposizione o meno ad essa – i partiti comunisti e quindi quelli socialisti – così è anche oggi. A partire dalle nuove fratture devono essere riviste le offerte politiche, aggiornati i pensieri, riconsiderate le azioni. I progenitori del riformismo socialista ebbero a che fare con problemi analoghi. Lo sviluppo industriale aveva sovvertito una società cristallizzata per secoli. Cambiavano i luoghi e acceleravano i tempi, sparivano abitudini, differenze, professioni; mentre qualcuno se la prendeva con le macchine, emergevano coloro che sapevano gestirle. E ugualmente nascevano nuove piaghe: analfabetismo, povertà, alcolismo.
Il digitale segna una delle più profonde modificazioni in seno all’umanità. Fino ad oggi l’uomo ha efficientato il lavoro, il vapore ha azionato le macchine, le distanze si sono accorciate ma le produzioni sono sempre rimaste materiali e le immagini riprendevano qualcosa di già reale. Oggi non è più così. L’umanità è dentro una nuova realtà, quella virtuale che ha superato perfino la fantascienza, come ha spiegato anche Gianni Bonini. Difficile tornare indietro. Le poderose forze della Storia liberano nuovi timori e angosce ma questa è la realtà, buona, non buona, meno buona, pessima, il riformista non deve domandarselo. Deve far sì che migliori. Che l’umanità viva meglio sfruttandone anche gli aspetti positivi.
E questo è un altro punto saliente. La contemporaneità non produce solo effetti negativi. Non tutti sono emarginati. Il digitale apre opportunità preziose. Per le aziende e per i professionisti. Perché di fronte alla cancellazione di posti di lavoro, che si deve comunque tamponare, c’è un’intera fetta di popolo che lavora e molto e bene, mettendo a frutto anche la cultura appresa nei vari percorsi scolastici e formativi grazie al digitale. Che siano anche loro una possibile nuova base politica? È una transizione iniziata adesso, troppo presto per fare un bilancio. Certo è che non sempre si può vedere solo il nero.
La necessità di intervenire
Sicuramente però è una realtà che dev’essere normata e in un certo senso normalizzata. Lo smart working è stato una scelta obbligata, seppur venduta come opportunità prima di tutto per il lavoratore, ma questa modalità di lavoro dev’essere normata. E la normativa italiana è indietro: dall’assenza di un diritto alla disconnessione in poi. Un problema che ricade interamente sui lavoratori.
Questo ventunesimo anniversario, che rischierebbe di finire in sordina rispetto ai bollettini sanitari quotidiani (il ventesimo, un mese prima che iniziasse il mondo nuovo, fu magnifico), sia da stimolo per tutti coloro che vogliono ancora provare a migliorare il mondo. Perché il riformismo è la casa di chi non si ostina ad accettare né vuole distruggere, per i concreti. E i processi attivati negli ultimi 30 anni, di cui la digitalizzazione è uno degli esiti necessitano di concretezza.
Certo, già nella tanto vituperata Prima Repubblica, c’era chi aveva intuito che il digitale sarebbe stato un punto di approdo. Un esempio? I giacimenti culturali del compianto De Michelis. E se ci fossero stati loro forse il Paese non si sarebbe ritrovato così, forse avrebbe potuto avere una voce in capitolo in questo irrinunciabile processo della Storia anziché inseguire le decisioni altrui.