Alberto Rosselli: “Il pensiero unico avanza insieme al declino della cultura occidentale. Conflitto Nagorno Karabakh? In Armenia solo Grecia e Francia si sono viste”

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A confronto con Alberto Rosselli, storico e direttore della rivista Storia e Verità.

“L’Unione Europea sta abolendo le identità locali”

Indubbiamente controcorrente, financo “revisionista” per il modo attento, approfondito e anche coraggioso con cui passa al setaccio i fatti storici – maggiori, minori e misconosciuti – e i loro protagonisti. Alberto Rosselli, giornalista, saggista storico e direttore di Storia e Verità, è intervenuto a Il Tazebao.

Nel nostro manifesto programmatico scriviamo che il totalitarismo mediatico vuole cancellare la biodiversità italiana. “Il totalitarismo mediatico non è una causa, ma una conseguenza del declino della cultura occidentale, ormai avvelenata dal relativismo filosofico degenerato in nichilismo e dall’abbandono dei principi identitari e statuali di matrice cristiana. Non si tratta soltanto di un problema italiano, ma europeo. La Commissione e il Consiglio d’Europa hanno, infatti, deciso di abolire le particolarità culturali di ogni nazione membro in nome di un’integrazione economica sfrenata e di una sorta di monocultura aperta ad ogni influsso estraneo alla nostra Tradizione. La cultura di ogni singola nazione deve sopravvivere anche in un contesto aggregativo più ampio, ma comunque rispettoso delle singole identità. Non a caso, la cultura di una nazione facente parte di un soggetto più ampio (la UE, ad esempio) può essere definita come la trasmissione, da una generazione all’altra, di valori diversi ed unici. Massificare l’Europa in un unico soggetto abolendone le singolarità nazionali che la compongono significa, infatti, eliminare gli stessi pilastri di questo soggetto senza anima e fede, eliminando il concetto stesso (preziosissimo) di identità: quest’ultima è, infatti, qualcosa di più di una semplice peculiarità nazionale, ma è il significato ultimo della stessa cultura, o meglio, il senso culturale di una civiltà composita. In ultima analisi, il totalitarismo mediatico è dunque il risultato di una massificazione geopolitica ed economica improntata sull’annullamento delle singolarità nazionali”.

Edoardo Tabasso: “La globalizzazione ha fatto riemergere conflitti e identità. La democrazia liberale…”

Il nostro blog richiama la Rivoluzione Culturale di Mao. In un suo recente libro ricostruisce il trapasso dalla Cina imperiale alla Repubblica Popolare. Perché è importante guardare al Paese del Dragone? A cosa si deve il successo della Cina? “In quanto storico (il mio testo è infatti incentrato sulla lunga Guerra Civile Cinese), non mi occupo di economia o finanza, ragion per cui posso soltanto esprimere un’opinione basata su alcuni fatti già noti ed indagati dagli esperti in materia. L’enorme e rapidissima crescita economica della Cina è da attribuirsi a diversi fattori, primo fra tutti la creazione di un sistema politico anomalo che racchiude in sé – in maniera molto spregiudicata – i principi di uno stato totalitario comunista aperto tuttavia ad una forma di capitalismo produttivo senza limiti, direi immorale o privo di un’etica di fondo. La Cina (pur essendo membro del WTO) produce ed esporta enormi quantitativi di prodotti senza badare ai precetti sociali comuni a tutte le altre nazioni. In Cina i lavoratori non godono di alcuna tutela di tipo sindacale e debbono accontentarsi di salari estremamente bassi e comunque inferiori a quelli occidentali, soprattutto nelle vastissime sue regioni interne. In ultima analisi, trattasi di una potenza che può permettersi di produrre e soprattutto esportare grazie alla sua stessa natura politica, quella di uno stato totalitario che, spesso – grazie al suo sistema politico accentratore e militarizzato – può concedersi di applicare o imporre  regole di interscambio internazionali a qualsiasi altro paese, anche in virtù della sua sconfinata disponibilità finanziaria: una disponibilità che le ha consentito perfino di comprare a mani basse parte del debito pubblico statunitense (e non solo)”.

Dalla peste Antonina fino alla Morte Nera. Le grandi epidemie sembrano avere la capacità di accelerare il corso della storia. Siamo di fronte a questo scenario? “Credo di sì. Nel corso della storia le grandi pandemie hanno avuto un forte impatto sulle comunità colpite, sia in epoca antica che moderna. A questo proposito, è interessante notare che le grandi pestilenze siano scoppiate e si siano diffuse in relazione ai picchi di incremento demografico registrati, ad esempio in Europa, nel XIV e XVII secolo, e al conseguente fenomeno dell’inurbamento. Oltre a ciò, le pandemie sono andate di pari passo con lo sviluppo dei commerci internazionali, soprattutto marittimi. La peste del XIV secolo giunse in Europa occidentale grazie all’intenso interscambio commerciale tra la Repubblica di Genova e l’emporio di Caffa, situato in Crimea. Diciamo che la crescita demografica, lo sviluppo delle città e l’aumento della velocità dei trasporti hanno di fatto favorito la trasmissione dei vari morbi, cosa che, del resto, si è verificata ai giorni nostri con il Covid-19, la cui rapidissima diffusione è stata favorita dalla globalizzazione e, in parte, anche dall’immigrazione incontrollata e di massa dal Terzo Mondo all’Europa. Detto ciò, le grandi pandemie avvenute nel corso della storia hanno sì modificato in maniera significativa la vita di intere comunità, ma hanno favorito nel contempo lo sviluppo di scienze come la medicina”.

Uno sguardo al Medioriente

Da storico ha prodotto interessanti libri sul Medioriente. Le “fallaci primavere arabe” come le definisce il nostro Bonini (che le paragona pure) hanno lasciato campo aperto a ISIS. Da dove nacque e a cosa si deve la fortuna di ISIS? Ricordiamo anche che, per quanto sconfitto, continua ad alimentare atti di terrore… “Le cosiddette primavere arabe, che avrebbero dovuto democratizzare il mondo islamico, hanno sortito sicuramente un effetto controproducente e negativo, in quanto hanno risvegliato il revanscismo della porzione più ortodossa della umma (o comunità musulmana), favorendo la nascita di movimenti armati e terroristici come Al Qaeda e successivamente l’Isis. Organizzazioni non soltanto impregnate di fanatismo religioso, ma portatrici di valori anche politici. Come disse l’iraniano Khomeini: “L’Islam o è politico o non è niente”. Nonostante le sconfitte subite in Siria, l’Isis ha dimostrato la capacità di reagire e di rafforzarsi nuovamente cambiando strategia, pur rimanendo legato al principio fondamentale dell’Islam ortodosso: la sottomissione degli infedeli. Più precisamente, l’obiettivo dichiarato è quello di annullare le singole entità statuali musulmane, dando vita ad un impero islamico salafita globale ed etnicamente indistinto. Stiamo parlando, come è facile capire, di un progetto ambizioso, estremo, a tratti delirante, ma capace tuttavia di galvanizzare le menti di molti giovani disorientati dalla crisi economico-sociale e morale che attanaglia l’intero pianeta. Non a caso, sono decine di migliaia – come abbiamo già avuto modo di dire – i volontari confluiti in questa organizzazione criminale: ribelli siriani, ex-militari iracheni, disoccupati tunisini, europei musulmani, ma anche atei convertiti, che sembrano avere sposato questa causa fino ad immolare le proprie vite e, purtroppo, anche quelle di tanti, troppi innocenti, per un ‘ideale nuovo’ di natura pseudo trascendentale”.

Le conseguenze di lungo periodo di Sykes-Picot

In uno dei suoi ultimi testi ha trattato della rivolta nazionalista in Iraq. Un segno evidente che il Medioriente covava sentimenti di odio antioccidentale frutto anche dei nostri errori. “All’indomani della sconfitta subita nel 1918 dall’Impero Ottomano, e con la conseguente disgregazione dei suoi possedimenti mediorientali conquistati dalle forze dell’Intesa (Gran Bretagna e Francia), il Medio Oriente venne spartito tra Londra e Parigi. L’Iraq, in particolare, divenne un mandato britannico, ovvero un regno arabo autonomo, ma posto sotto stretta tutela dell’Inghilterra. Questo perché le enormi riserve petrolifere e la posizione a metà strada tra l’India ed il Canale di Suez imposero alla diplomazia inglese una presenza diretta sul territorio. Già a partire dai primi anni Venti i rapporti tra britannici ed iracheni non risultarono facili. I problemi, infatti, erano spinosi, in parte a causa della costituzione di un regno composito dal punto di vista etnico-religioso (con il Nord a prevalenza curda sunnita; il Centro, con Baghdad, a maggioranza arabo-sunnita ed il Sud, con Bassora, a maggioranza arabo-sciita), in parte perché una porzione della nuova classe dirigente irachena ambiva in tempi rapidi ad acquisire la totale indipendenza (già prevista dalle clausole mandatarie, ma ritenuta troppo lontana). Di qui, nella primavera del 1941, la Grande Rivolta nazionalista antinglese capitanata dal leader nazionalista Rashid Al Galiani: una rivolta destinata a fallire, ma che rimase ben impressa nella memoria dei futuri leader musulmani, dall’egiziano Nasser all’iracheno Saddam Hussein”.

Il conflitto in Nagorno Karabakh

Non possiamo non citare l’Armenia, vittima ancora una volta di una brutale aggressione… “Gli armeni sono un popolo decisamente sfortunato. Dopo avere subito sanguinose repressioni da parte degli Ottomani (ricordiamo l’immane strage del 1915-1918, in cui persero la vita circa 1.500.000 armeni cristiani: massacro ancora negato dall’attuale governo di Ankara), il piccolo stato armeno – unica entità cristiana dell’area caucasica meridionale – è stato aggredito pochi mesi fa dalla repubblica islamica filo-turca dell’Azerbaijan, interessata ad occupare la regione autonoma del Nagorno Karabakh a forte componente armena. Detto questo, il governo azero di Baku considera la popolazione armena in Nagorno Karabakh come una frattura della propria integrità territoriale, tanto che l’espressione “recupero del Karabakh” è stata pronunciata più volte negli ultimi tempi sia dalla dirigenza azera sia da quella turca. Il recente, breve conflitto tra Armenia e Azerbaijan sembra per il momento concluso con un nulla di fatto (dietro pressioni internazionali è stato firmato un cessate il fuoco), anche se da questo episodio è emersa un’amara verità. Mentre il governo turco del dispotico Recep Erdogan e, in parte, quello iraniano hanno appoggiato militarmente Baku, ad eccezione della Francia (la nostra riflessione sull’intervista di Macron) e della Grecia nessuna altra nazione o potenza occidentale, e quindi teoricamente cristiana, ha sostenuto Erevan. Perché? Per il semplice fatto che gli oleodotti che dai grandi campi petroliferi di Baku portano greggio verso l’Occidente debbono essere salvaguardati: per il bene di tutti, naturalmente…”

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