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Edoardo Tabasso: “La globalizzazione ha fatto riemergere conflitti e identità. La democrazia liberale…”

Cina, foto di Kirill Sharkovski on Unsplash
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A colloquio con il sociologo Edoardo Tabasso i cui interessi di ricerca da qualche tempo convergono sui temi della geopolitica della comunicazione.

“Assistiamo alla rivincita della Storia e alla vendetta della geografia”

Sul Tazebao c’è una sezione chiamata Mundus Furiosus. Un mondo che dopo il 1989 ha visto (solo apparentemente) dilatarsi le frontiere certo quelli finanziari ma… La globalizzazione non annichilisce le differenze, non è omologazione. La globalizzazione fa esplodere le differenze. Non cancella il locale, lo fa riemergere. Mentre il cyberspazio di Facebook e i mercati finanziari non conoscono confini, aumenta la percezione della distanza da parte di chi si sente incerto, insicuro e in balia del vento della globalizzazione, rispetto a chi invece sembra essere partecipe dei processi globali. Anche così si spiegano le proteste che stanno montando e che covano da almeno più di un decennio”.

La globalizzazione avrebbe dovuto cancellare gli Stati restituendo un mondo apparentemente migliore. Dopo il 1989 gli Stati nazione sembravano divenire residuali, in attesa della loro scomparsa nella post-storia che avrebbe dovuto aprire l’età della post-democrazia, del post-nazionale, quella della pace universale. Nella democrazia cosmopolita e distopica del futuro non si sarebbero più avuti né nazionali né stranieri, né cittadini né immigrati. E tutti gli umani sarebbero divenuti mobili. È (stato) l’abbaglio ideologico del postmodernismo politico smontato con vis polemica, tra gli altri, da Pierre-André Taguieff ne “L’immigrationnisme, dernière utopie des bien-pensants”. Qualche decade dopo il 1989, il nostro mondo distratto dalla e coinvolto nella pandemia globale profilatasi nel 2019 con il virus di Wuhan, siamo giunti al capolinea del globalismo, ovvero di quella visione iperideologica senza se e senza ma della fase di globalizzazione, iniziata con il crollo del Muro di Berlino. Da allora l’homo democraticus ha cominciato ad esigere come un adolescente mutevole a ogni capriccio che gli era stato promesso dalle sue élite: niente guerre, niente conflitti, niente differenze di classe uguaglianza di diritti economici meno tasse, più servizi, un lavoro, una casa. Espansione monetaria, sviluppo del mercato globale, assistenzialismo statale hanno generato aspettative nell’elettorato e promesse che la politica ed il sistema economico non sono stati in grado di rispettare“.

Il 1989 ha dischiuso nuove contraddizioni e sfide

Uno scenario ben diverso dalle previsioni di un’ipotetica fine della storia. “Altro che fine della Storia! Assistiamo alla rivincita della Storia e alla vendetta della Geografia! E non ce l’ho con Fukuyama, casomai con i “fukuyanisti” ovverosia coloro che lo citano a sproposito senza averlo nemmeno letto. La globalizzazione infatti non ha cancellato un bel nulla, anzi lo ha fatto riesplodere. Una sonora sberla agli ultraglobalisti perché etichette come progressisti antirazzisti ambientalisti, pacifisti progressisti, liberisti possono eccitare le élite, ma rimangono speculazioni astratte e opportunistiche valide per un tweet o un post ma per i popoli il legame con valori identitari comunitari e nazionali è decisamente più coinvolgente”.

Quali chiavi di lettura aiutano di più nella comprensione della contemporaneità? “Molto meglio Samuel Huntington e non tanto e non solo quello dello scontro di civiltà, altro libro ultra-citato ma letto da pochi, e frainteso dai conformisti del politicamente corretti, suggerirei piuttosto l’Huntington di “Cosa siamo noi?”. Mi riferisco al libro Who are we? The Challenges to America’s National Identity” del 2004, dove l’autore si interroga sulla questione riassumibile nella formula “dal molti, uno soltanto”, l’unione di individui, forze, sentimenti, quel motto “e pluribus unum” inciso nello stemma degli Stati Uniti, e su quanto gli americani si siano frantumati e radicalizzati in identità in conflitto tra loro. Una nota di colore: il libro è stato appena riproposto al pubblico italiano, con un titolo poco azzeccato “L’incontro delle civiltà”. Huntington se lo sapesse si rivolterebbe nella tomba.

Non vale più il claim “it’s the economy stupid”, coniato da James Carville, per la campagna elettorale di Bill Clinton nel 1992 contro George Bush sr., ma piuttosto quello che recita “it’s identity politics stupid”. Nella rivincita della Storia e nella vendetta della geografia da incentrare sul realismo politico e non sull’emotività riscopriamo che le persone non sono interessate solo a soluzioni economiche. Cercano rappresentanza, forza interiore, empatia, senso della comunità. In una parola, cercano identità politica in grado di sussumere identità religiosa, sociale, di ceto, etnica. Ed è illusorio pensare che siano sufficienti soluzione tecnocratiche di fronti a scontri culturali e sfide politiche, ovvero a problemi di come si condividono valori e risorse. Sentimenti che attraversano tutte le democrazie occidentali, in cui le classi dirigenti non sono più in grado di percepire semplicemente il reale e analizzarlo se non per anatemi, squalifiche e stereotipi. Un elitismo interessato a grandi suggestioni astratte piuttosto che al destino della democrazia, indebolita dall’afflato nazionale, non ancora sostituito da nessun’altra comunità transnazionale sodale”.

La globalizzazione ha mandato in crisi le democrazie liberali. La crisi dell’egemonia liberale in questa fase della globalizzazione è segnata da varie concause geopolitiche. Una è la fine o la rinegoziazione di Chimerica il neologismo coniato da Niall Ferguson e Moritz Schularick nel 2006 nella fusione del nome dei due Stati in lingua inglese, (con un chiaro riferimento alla Chimera, l’animale ibrido dotato di testa e corpo di leone, una testa di capra sul dorso e una coda di serpente). Chimerica è la simbiosi fra Cina e America, che in un notevole libro Geminello Alvi riassunse nell’espressione: capitalismo, verso l’ideale cinese. Un processo che avvenne negli anni successivi all’adesione della Cina all’Organizzazione mondiale del commercio nel 2001, integrò la sua massiccia forza lavoro e le giacenze di risparmio nell’economia mondiale.

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Gli Usa sono diventati il mercato di sbocco preferito per l’invasione delle merci cinesi a basso costo. I cinesi, in cambio, utilizzano parte del surplus commerciale per acquistare bond americani, sostenere la finanza pubblica, garantire riserve al Tesoro. Una relazione che ha retto le sorti dell’economia globalizzata nel primo decennio del XXI secolo ma che è andato chiaramente in crisi per una lenta ma inesorabile relazione finanziaria tossica, fino al grande crollo del 2008 analizzato da Adam Tooze ne “Lo schianto: 2008-2018. Come un decennio di crisi economica ha cambiato il mondo”.  Perfino quando l’economia globale ha barcollato sull’orlo del collasso nel 2009, è stata Pechino a pompare miliardi in un pacchetto di stimoli Usa che ha contribuito, ma solo apparentemente, a salvare il salvabile. Perché sull’onda della crisi finanziaria mondiale, gli Stati Uniti si ritrovarono costretti a ricercare una cooperazione economica stringente con la Cina che divenne il maggior creditore di obbligazioni americane”.

La Cina si è imposta come attore globale

Abbiamo citato gli USA, reduci da una tornata elettorale complessa. “Le elezioni americane del 2020 segnalano un disequilibrio comunicativo profondo, le cui origini vanno rintracciate nel ruolo inedito che la Rete e l’economia digitale e finanziaria stanno giocando da almeno due decenni.  Siamo all’inizio di un processo di cui non sappiamo definire né i contorni né gli esiti: un conflitto interno tra potere rappresentativo e poteri trasversali che utilizzano i media e le false notizie come falange armata e che si accentuerà anche dopo l’ascesa di Joe Biden. In mezzo vi è stata una stampa indipendente che non ha una posizione di terzietà, assediata dai giganti mediatici come Google e Facebook, che sono entrati in campo, schierandosi alimentando disequilibri comunicativi tra privacy, sicurezza, sviluppo tecnologico, politica e informazione. Tutto questo era già cominciato nel 2016 con il Russiagate quando un politico, Trump, che era in corsa per la presidenza degli Stati Uniti fu delegittimato prima ancora di essere eletto e poi dopo essere stato eletto”.

Massimo Rocca ha parlato di “Berlusconizzazione” della politica USA. Quali sono i pericoli di questa tendenza? “Questo circuito mediatico-giudiziario cmi ricorda qualcosa che noi italiani viviamo almeno dall’epoca dell’inchiesta di Mani Pulite e che stiamo ancora pagando in termini di solidità economico-finanziaria, posizione in Europa e crisi istituzionale nei rapporti tra politica e giustizia, potere rappresentativo e poteri d’apparato. Siamo immersi  in un giacobinismo globalista 4.0 intriso di giustizialismo mediatico dove “l’Antipolitico” sta avendo la meglio sui difetti, la divisione e l’inadeguatezza del “Politico” perché senza realismo sarà incapace di riallinearsi nell’equilibrio dinamico tra parole e fatti. In questo contesto emerge la perdita di credito morale e avanza il peggiore dei sospetti: la democrazia non è più affidabile e una democrazia senza valori – ha scritto San Giovanni Paolo II – si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia”.

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