Quando le tensioni internazionali raggiungono l’acme, l’ordine post-89 si decompone e il Rimland brucia, Il Tazebao sceglie, oltre a condurre un approfondimento quotidiano sine ira et studio, di sganciarsi dalla cronaca e andare alla radice dei problemi. Questa storia dev’essere conosciuta. L’essenza dell’oggi è nei fatti di ieri.
Premessa
Il Tazebao – Più approfondisco la figura di “Parvus”, più vado a fondo nel pozzo dei problemi che sono il retroterra delle contraddizioni riesplose oggi con tanta virulenza. Non si capisce la guerra in Ucraina senza aver prima capito la Rivoluzione russa; non si capisce questa guerra di nuovo in Europa – contro l’Europa – se non si afferra il plurisecolare tentativo di smembrare la Russia, staccandone, come previsto nel memorandum di Parvus, Finlandia – c’è già oggi una similitudine con il 1939 – e Ucraina; allo stesso modo, sono destinati a rimanere incomprensibili il puzzle mediorientale e quello balcanico, teatri di conflitti aperti o di nuove tensioni, se non si coglie l’essenza intima e profonda della Prima guerra mondiale e l’azione di uomini notevoli che, come Parvus, hanno lavorato lungo i confini del Rimland, la terra di mezzo, la porta d’accesso per il controllo del mondo. È proprio la faglia critica del Rimland a essere di nuovo in fiamme, oggi come allora: lo scontro per l’egemonia mondiale in atto, e prossimo all’acme, delineerà i futuri assetti mondiali. Tuttavia, non si comprende il quadro che si sta così rapidamente decomponendo e le traiettorie della sua scomposizione senza capire “Parvus”. È naturale, quindi, che più tento di entrare nella sua gigantesca testa – da Behemoth – di geniale teorico e manager capace di coniugare, forse meglio e prima di molti altri, commercio e politica, affari e rivoluzione, più mi convinco che bisogna tributargli ben altro riconoscimento e ben altro ruolo rispetto a quelli riservatigli fino a oggi. Insomma, più vado a fondo in questa storia semi-nota e semi-censurata di un secolo fa, più la contemporaneità convulsa si fa più nitida.
Questo lavoro nasce dopo la consultazione di una pluralità di fonti disponibili e di varia provenienza, cercando di ripercorrere tutte le tappe di una vita straordinaria: fonti coeve e ricostruzioni più recenti; analisi di rango accademico e perfino serie TV per il grande pubblico; fonti dal tedesco, dal turco, dal russo e dal danese, le molte patrie di questo grande uomo. Tra queste corre l’obbligo di citare: l’opera omnia di Pietro Zveteremich – è lui colui che traduce il Dottor Živago, contribuendo non poco a mettere in pessima luce il regime di Mosca – ovverosia Il grande Parvus (1988); Scacco allo zar (2012) dell’attuale Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano; un libro maledetto, che è stato «proibito in Italia da Mussolini» e bruciato «sulla pubblica piazza di Lipsia, per mano del boia, secondo il rito nazista», quale Tecnica del colpo di Stato di Curt Erich Suckert, anche lui con l’alias di Curzio Malaparte, rivelatosi particolarmente utile in quanto lo scrittore pratese poté interrogare fonti dirette e dare una ricostruzione dei fatti di conseguenza più vivida; non si può dimenticare nemmeno la serie turca Payitaht: Abdulhamid (2017-2021), incentrata sul trentaquattresimo Sultano e apparsa in una temperie neo-ottomana, oppure quella tedesca Ein Mann namens Parvus (1984) che, come il libro di Zveteremich, ha una funzione chiaramente preparatoria in vista del fatale ’89. È molto significativo capire Parvus, capire perché non se n’è parlato, perché se n’è parlato in un certo modo o è stata data di lui un’immagine parziale e distorta e, non ultimo, quando si è deciso finalmente di farlo. Può un uomo così grandioso essere marginale? No.
Questo, insomma, è il tentativo di fornire un quadro il più possibile attinente al vero e, soprattutto, sistematico – sine ira et studio – su colui che ha posto le basi, ideologiche e materiali, per il successo della Rivoluzione comunista, portando a compimento un preciso disegno di revisione dello spazio. Non è un testo orientato, né in un senso né nell’altro, non è una lettura macchiettistica del grande personaggio o una semplificazione. A cento anni dalla morte “Parvus” o forse ancor meglio “Unus”, il primo nome di copertura, merita un posto unico nella Storia. L’essenza dell’oggi è nei fatti di ieri.
Introduzione
99 Jahre Krieg Ließen keinen Platz für Sieger
Nena (1983)
Il suo sguardo magnetico, catturato nelle poche foto pervenute, è indimenticabile come è indelebile la sua impronta nella storia. Izrail’ Lazarevič Gel’fand, Helphand alla tedesca, in arte “Parvus”, nato in territorio allora russo, di famiglia ebrea sopravvissuta a un pogrom, ha convintamente speso tutta la sua vita per rovesciare l’autocrazia dei Romanov, accelerando al contempo il collasso degli altri imperi e il grande rimescolamento di popoli e cartine e confini ed etnie, radice della maggior parte delle contraddizioni dell’oggi.
Russo, ebreo, tataro. Molte linee di sangue diverse confluivano in “Unus” che avrebbe dovuto cambiare molti luoghi proprio perché – con lui e dopo di lui – non ci sarebbero state più le patrie e i confini di prima. Un uomo pronto a cambiare la sua identità, quindi ad annullarsi, perché sarebbe sorta un’umanità nuova che non si sarebbe più riconosciuta negli stretti legami di un tempo.
Tuttavia, nonostante sia stato un uomo unico, già poco dopo la sua scomparsa a Berlino nel dicembre del 1924 è stato rimosso dal palcoscenico della grande Storia, quasi scientificamente, come a voler celare il contributo di un uomo essenziale ma scomodo sia per il suo genio – non solo per l’idea della “rivoluzione permanente” – sia per la sua risoluta praticità. Si può perfino arrivare a riconoscere che, proprio perché il suo contributo a un certo sviluppo della Storia è chiaro, si è cercato di espungerlo, salvo citarlo incidentalmente, lasciando tutta la gloria e tutto il merito al vero volto della Rivoluzione, “Lenin”, anch’egli deceduto nel 1924.
Proprio perché ha praticato l’obiettivo, in un modo sporco che poco si confà a dei rivoluzionari idealisti, si finge che “Parvus” non sia esistito, oppure, ancor peggio, lo si riesuma solo quando occorre, come a voler dire in modo frammentario e accidentale qualcosa che apertamente è meglio non dire. Si cita, per esempio, il celebre episodio del treno che estrae un “Lenin” ancora indeciso dalla calma Svizzera e lo trasporta verso una Russia già esplosa e questo personaggio «behemotico» dotato di «zampe-colonne» – le espressioni sono di un Solženicyn che ha chiaramente digerito l’essenza dello scontro Terra/Mare e lo ha traslato in questa storia – riappare, dando alla Rivoluzione la guida che l’avrebbe fatta trionfare; tutto il retroterra, dalla lucidità dell’Iskra al soviet del 1905, scompare, si cela, non si vuol dire. Certo, lo stesso Helphand, come in un giuoco di ombre, al cospetto del grande piano, ha cercato di farsi piccolo, coprendosi dietro all’uomo-simbolo. Mai come nel caso di “Parvus” è chiaro che la storia, per come viene raccontata, sia funzionale a una narrazione ovvero a una costruzione di una verità per un dato fine. Proprio per questo afferrarlo è precondizione per cogliere l’oggi e l’accelerazione della dinamica della Storia.
Per quanto detto, non stupisce che solo allo scoccare degli anni ’80 il “grande Parvus” abbia potuto – e dovuto – essere riesumato; la produzione precedente, come nel caso del pur notevole The Merchant of Revolution (1965) di Zeman e Scharlau, era stata per lo più ricondotta nell’ambito storico e accademico, senza nemmeno avvicinarsi al grande pubblico. Tempo di glasnost’, tempo preparatorio al mondo di poi, i suoi fragili sogni e le illusioni. Tempo di ammettere la verità o, almeno, di rimuovere un po’ di non detti su ciò che è stato veramente. Ecco, allora, che l’ignoto enorme “Parvus” compare sul medium per eccellenza, la televisione, e non in un paese a caso ma nella sua patria d’adozione, la Germania ancora tagliata per il lungo effetto delle due guerre puniche perse. È il 1984, un anno prima è uscita 99 Luftballons, la canzone no-war che avrà un successo planetario; un anziano signore ancora non ritroverebbe la bella Potsdamer Platz della sua infanzia, come ne Il cielo sopra Berlino, e nella Germania Ovest provvidenzialmente esce in bianco e nero il film per la TV Ein Mann namens Parvus ed è niente meno che un lanciatissimo Günter Lamprecht, già Franz Biberkopf nella celebre serie Berlin Alexanderplatz diretta Rainer Fassbinder, a interpretare l’ignoto “Parvus”; una serie che indugia volutamente sullo stile di vita lussuoso di Parvus e sul suo amore per i piaceri del mondo. Pochi anni dopo esce la più nota per il pubblico italiano Lenin…the Train, il regista è Damiano Damiani, lo stesso di Quién sabe? e de Il giorno della civetta, con Krishna Pandit Bahnji alias Sir Ben Kingsley nei panni di “Lenin” e – altro nome di peso – Timothy West che impersona “Parvus”.
In una temperie politica che ha visto la riscoperta del sultano Abdul Hamid, che fece leva sul panislamismo per tenere insieme un impero prossimo alla dissoluzione sotto i colpi delle potenze straniere e dei loro agenti, appare nel 2017 in Turchia, niente meno che sul canale pubblico TRT, la serie Payitaht: Abdulhamid. A interpretare Parvus Efendi è Kevork Malikyan, attore di notevole esperienza: nato da una famiglia armena che ha conosciuto i lutti del 1915, un dettaglio non di poco conto per entrare nella mastodontica mente di un “Parvus” sopravvissuto a un pogrom, fatto che senza dubbio ha alimentato carsicamente l’avversione all’autocrazia dei Romanov, da Istanbul riesce a raggiungere palcoscenici internazionali. La serie ha il pregio di mettere in luce il lavorio delle potenze straniere con l’obiettivo di dissolvere quel grande impero multietnico, non privo di contraddizioni e non privo di forme originali di convivenza, riducendo la Turchia alla sola Anatolia e soppiantando il primato della religione con i valori laici e repubblicani impersonati dai Giovani Turchi, primo movimento di stampo etno-nazionalista, autore nel 1909 della prima marcia del Novecento. Sono destinati a fare scuola: in molti passeranno da Costantinopoli, “Parvus” non è lì per caso ma perché è un laboratorio, un incubatore perfetto attraversato dalla faglia critica del Rimland.
È un passaggio sanguinoso e travagliato: mentre un impero è multietnico per natura e trova nell’imperatore o nel sultano – gli ottomani non hanno dimenticato Bisanzio – una figura unificante per tutte le sue componenti, che esercita un mandato terreno per volere divino, una nazione dev’essere organica e pura nel sangue e nell’identità, ristretta nei confini, nessun afflato oltremondano ma un “patto” tra cittadini e uno Stato chiamato ad assolvere con efficienza ad alcuni compiti; ecco, dunque, una lunga scia di sangue, tra massacri ed espulsioni (soprattutto dopo il fallimento dell’offensiva di Eleutherios Venizelos, la vittoria di Sakarya e la fine dell’appoggio inglese alla “Megali Idea”) che vanno a distruggere per sempre la convivenza plurisecolare sulle coste dell’Ak Deniz, il mare mediterraneo per gli ottomani. La Turchia entrerà in un lungo letargo dal quale inizierà a uscire solo a partire dagli anni ‘80 con le intuizioni di Necmettin Erbakan – indispensabile il suo contributo al pensiero di Erdoğan –, che lavorerà per recuperare il legame politico con il magnete tedesco, rinsaldando i rapporti tra i due sistemi produttivi, e rilancerà la proiezione panislamica, connettendo il massiccio turco con gli altri paesi della umma utilizzando le infrastrutture e forme di cooperazione come Development-8.
(Riproduzione riservata)