L’Occhio del Falco: Yuzhmash, la diaspora delle armi e quell’accordo Tel Aviv-Kiev

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Ci sono armi che, attraversando frontiere e conflitti, completano un ciclo perverso, tornando a sparare in terre slave.

Il Tazebao – Nei cieli tra Europa e Medio Oriente si muove una scacchiera invisibile. Le prime avvisaglie di uno strano dialogo sotterraneo si sono manifestate. Da fine gennaio, diversi analisti di OSINT militare hanno notato un insolito via vai di C-17 americani che tracciano rotte tra la base israeliana di Nevatim e l’aeroporto polacco di Rzeszow, nota porta d’ingresso per i rifornimenti all’Ucraina. Dietro questi voli si nasconde una trama più complessa: un patto tra due nazioni chiave nelle rispettive regioni.

Nelle stive di questi aerei viaggiano missili israeliani per i sistemi Patriot dispiegati in ucraina, ma non solo: trasportano anche arsenali di origine sovietica sottratti ad Hamas ed Hezbollah durante operazioni in Libano e Siria. Un paradosso bellico: armi che, attraversando frontiere e conflitti, completano un ciclo perverso tornando a sparare in terre slave. Ma cosa ottiene Tel Aviv in questo baratto? La moneta di cambio ucraina ha un nome preciso: PA Pivdenmash, meglio conosciuta come Yuzhmash. Questo colosso aerospaziale rappresenta il sancta sanctorum della tecnologia missilistica sovietica, cuore pulsante dello sviluppo dei lanciatori intercontinentali russi fino alla frattura del 2014. Il calcolo israeliano è cristallino: Mosca ha condiviso parte di questo know-how con Teheran, permettendo all’Iran di sviluppare l’arsenale oggi puntato verso lo Stato sionista. Accedere ai segreti di Yuzhmash significa dunque acquisire la chiave per decifrare e contrastare la minaccia iraniana.

L’accordo, già in gestazione dallo scorso ottobre, non si limita a questo. Kiev offre anche le sue più recenti innovazioni nella guerra elettronica e nelle tecnologie anti-drone, strumenti per rafforzare le difese israeliane contro gli Hezbollah e gli Houthi. Il tutto mentre il Presidente Trump, con la sua caratteristica retorica del limite, ha tracciato una linea rossa nella sabbia iraniana. La questione nucleare iraniana, da sempre pendolo tra diplomazia e conflitto, torna a oscillare pericolosamente. Trump non ha usato mezzi termini: o la via del negoziato o “metodi alternativi”, un trasparente eufemismo che allude all’ombra dei bombardieri all’orizzonte desertico mediorientale. Donald Trump sostiene di aver teso un ponte epistolare verso la Guida Suprema Khamenei, una lettera diretta alla guida spirituale che scavalca i canali diplomatici tradizionali. Una mossa che Teheran ha prontamente smentito, definendola un’invenzione: nessuna lettera si sarebbe mai materializzata nelle mani dell’Ayatollah. Un nuovo paradigma nell’era della post-verità: due autorevoli capi di stato con due vulgate inconciliabili, persino l’esistenza materiale di una lettera diviene causa di tensione.

La Repubblica Islamica dal canto suo mantiene la postura del rifiuto categorico. Nel lessico politico iraniano, gli Stati Uniti rimangono “il Grande Satana”, l’entità che da decenni tenta di soffocare l’ascesa regionale di Teheran. Anche in questa scacchiera, la partita tra l’Aquila e il Leone continua, con entrambi i giocatori convinti di poter chiamare il bluff dell’avversario. Ma in questo gioco, le pedine sono missili e le poste in gioco sono città.

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