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Lavoro nuovo, vecchie e nuove contraddizioni

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La pandemia e la conseguente digitalizzazione cambiano i connotati del lavoro.

Si dischiudono grandi opportunità ma si attivano anche nuove dinamiche perverse. Dalla cancellazione del tempo per il non lavoro alla flessibilità esasperata.

Il digitale avanza e rivoluziona nel profondo la vita dell’uomo. Specchio dei cambiamenti è un’attività imprescindibile da sempre: il lavoro, che con le sue articolazioni, strutture, i suoi meccanismi compensativi e regolatori orienta e sviluppa l’essenza stessa della vita umana.

Dio è “Factorem cæli et terræ, visibilium omnium et invisibilium” nel Credo di Nicea, plasma materialmente il Creato, mentre la fatica nel lavoro ricongiunge l’uomo a Dio e alla sua opera (Lettera ai Colossesi 3:17). Successivamente sempre il lavoro è il terreno primario di scontro tra borghesia e proletariato, vittima dei meccanismi perversi di estrazione di plusvalore.

Annus horribilis/annus mirabilis

Esistono nella storia le cosiddette date periodizzanti. Per non riavvolgere troppo il nastro basta citare il 1989 che dischiude le porte al mondo globale o il 2001 che rivela la minaccia di un terrore globale.

A sua volta la pandemia del 2020 verrà ricordata come un poderoso acceleratore della storia che ha cristallizzato definitivamente quelle tendenze già in atto negli ultimi decenni. Risvolti analoghi si ebbero per altre grandi pandemie nella storia, dalla peste Antonina a quella di Giustiniano che segnarono il trapasso dall’evo antico per arrivare alla Morte Nera del 1348.

Dopo la pandemia la flessibilizzazione dei tempi di lavoro e la smaterializzazione di attività, compiti e mansioni è completa. Una trasformazione irreversibile che cancella il mercato del lavoro del tempo, modello tipicamente novecentesco, con l’obiettivo – più vagheggiato che reale – di pervenire ad un mercato del lavoro delle professionalità. È in verità un nuovo lavoro che ha in sé coni d’ombra nemmeno troppo celati.

Lavoro senza fine

Ridurre l’orario di lavoro fu una conquista dei movimenti operai che ne ha migliorato la qualità della vita. L’implementazione apparentemente frettolosa e addirittura casuale, in verità scientifica e razionale, del cosiddetto lavoro agile ha prodotto problemi evidenti per colpa di ataviche carenze infrastrutturali, a cominciare dalla rete, ma soprattutto ha ribaltato i tempi di lavoro.

Non esiste più la socialità connessa al lavoro e quindi l’aggregazione di interessi intorno al lavoro. Non esiste più un tempo di lavoro e uno di non lavoro.

Parla chiaro un’indagine di Randstand Workmonitor dove si legge: “(…) Oggi il 71% dei lavoratori italiani risponde a telefonate, e-mail e messaggi di lavoro anche fuori dell’orario di lavoro, al terzo posto in Europa, +6% rispetto alla media globale. E il 53% confessa di restare “connesso” per gestire attività di lavoro anche durante il periodo di ferie. Una pressione che viene dal datore di lavoro che, secondo il 59% dei dipendenti, si aspetta gestiscano questioni di lavoro anche fuori dall’orario d’ufficio e, secondo il 52%, rispondano durante le ferie e il tempo libero. Se la dilatazione dei tempi di lavoro a danno della vita privata è già una realtà, però, solo il 54% degli italiani gestisce abitualmente questioni personali durante l’orario lavorativo, ben 13 punti sotto la media mondiale e all’ultimo posto a livello globale”.

L’ordinamento italiano sconta il tal senso la mancanza di una codificazione di quello che si definisce diritto alla disconnessione, presente invece già nella Loi Travail del 2016.

Il cinema e il lavoro nuovo

Il lavoro vecchio che muore e nuovo che avanza ha un posto anche nella cultura di massa. Mentre Checco Zalone – osservatore della realtà italiana molto più attento e fin troppo misconosciuto e criticato dal codazzo di boriosi trombettatori che compongono il bolso coté radical chic italiano – inseguirà il miraggio del posto fisso, possibilmente presso enti statali o affini, residuo della Prima Repubblica che lui declama in “Quo vado?” (2016), ne “Gli stagisti” (2013) Nick e Billy (Owen Wilson e Vince Vaughn), senza lavoro e senza competenze, si ritrovano in mezzo di strada e solo Google è la risposta. Ken Loach, poco prima del Coronavirus, indaga nel suo “Sorry We Missed You” i meccanismi del ceo-capitalism e le sue ricadute sull’uomo, come già egregiamente fatto per gli effetti delle privatizzazioni degli anni ’90 con “Paul, Mick e gli altri” nel 2001.

Anche questi sprazzi di cultura di massa dimostrano da quanto covi sotto la cenere quella che non è azzardato definire una rivoluzione che traghetta verso il mondo nuovo attraverso una delle attività da sempre centrali nella vita dell’uomo e delle sue società.

Ha collaborato Jean-Claude Martini

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