Il Lanificio di Stia, dalle origini, alla gloria fino alla chiusura (XVI-XX secolo)

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Il Tazebao – In questa torrida estate di 2024 ho avuto il piacere di visitare il Museo dell’ex Lanificio di Stia, nel quieto e rigenerante Casentino, tra le indaffarate Arezzo e Firenze. I grandi carro armati di fabbrica che hanno permesso all’Italia di produrre panni che tutto il mondo ci invidia riposano dietro corde divisorie, così come i cimeli dell’associazionismo fiorentino dietro teche di vetro.

Proiezioni di uomini e donne che hanno sudato per portare il pane a casa accompagnano il visitatore, così come è accolto alla fine nello shop ricolmo di indumenti composti dell’iconica lana casentinese, forse un po’ troppo fuori prezzo per la maggior parte degli acquirenti e destinato a rimanere lì come cimelio museale. Questa è la storia della fabbrica tessile di Stia, dalle umili origini all’apice, fino alla sua dismissione e riconversione in luogo di memoria materiale e commercio culturale.

Nel Basso Medioevo cominciarono a diffondersi dispositivi applicabili ai telai, che permettevano di alzare i fili d’ordito per la formazione del motivo tessile. Il maestro tessitore passava la spola attraverso la bocca d’ordito e comandava il tiralacci, che manovrava questo dispositivo. A Firenze gli apprendisti erano reclutati tra gli orfani dell’Ospedale degli Innocenti, costruito da Filippo Brunelleschi su commissione della gilda dell’Arte della Seta. La manifattura della lana era legata a un modo di produrre disseminato, in parte negli opifici e in parte a domicilio, lungo il fiume Staggia. Il telaio veniva mosso a mano e raramente utilizzava l’energia idraulica dei mulini.

La lana grezza veniva immersa in una soluzione di carbonato di potassio, soda e urina umana e animale. Seguiva il lavaggio che eliminava le scorie. Le vasche erano dotate di magli speciali che giravano la lana in modo da ottenere un prodotto uniforme. Dopo la sgrassatura la lana si presentava ruvida e stopposa: per renderla soffice era necessario oliarla con oleina oppure, per i tessuti più fini, con olio di oliva. L’oliatura a mano venne sostituita con la meccanizzazione da vaporizzatori che diffondevano uniformemente l’oleina sul vello. I fiocchi di lana venivano “aperti” dalla lupa, una macchina che eliminava i nodi e sfioccava la lana, rendendola pronta per la cardatura.

Nonostante il clima generale di arretratezza economica e di estrema miseria derivato dalla stagnazione dell’ultimo periodo mediceo, a partire dal 1738 a Stia la manifattura della lana conobbe un improvviso sviluppo. Grazie al motu proprio di Francesco Stefano di Asburgo-Lorena venne liberalizzata sia la produzione che il commercio dei panni lana su tutto il territorio toscano. Vennero così cancellati gli storici privilegi di cui aveva goduto l’Arte della lana fiorentina e venne introdotto il libero mercato. Nel giro di qualche decennio, sul finire del secolo, l’esercizio dell’arte della lana a Stia cominciò a innovarsi, trasformandosi da semplice pratica artigianale a moderna attività imprenditoriale.

In Europa le cardatrici meccaniche sostituirono quelle manuali a partire dagli anni Quaranta e Cinquanta del XVIII secolo. Ogni cardatrice aveva dei rulli la cui superficie era ricoperta di uncini, di grandezza variabile a seconda del grado di rifinitura che si voleva dare alla lavorazione. La lana veniva lavorata da tre dispositivi: la carda di rottura, la ripassatrice o traversa e quella a dividere, che progressivamente trasformavano i fiocchi di lana in un velo sottile.

La carda di rottura era composta da un sistema di rulli ruotanti a velocità diverse. Gli uncini disposti sui rulli ingabbiavano i fiocchi di lana e li aprivano stirandoli. La lana formava un materasso che veniva tagliato e disposto di traverso sulla carda ripassatrice. Si ripetevano le operazioni della prima carda, raffinando la qualità del tessuto. Infine, la carda a dividere suddivideva il velo di lana in tanti nastri che formavano gli stoppini, detti anche lucignoli, pronti per la filatura.

Il telaio ideato e costruito da Joseph Marie Jacquard nel 1801 utilizzava un sistema a schede perforate – prima in legno, poi di cartone – per la programmazione automatica del movimento dei licci. Un solo tessitore poteva così eseguire disegni molto complessi. Ogni cartone forato ordinava il movimento che i fili d’ordito dovevano compiere a ogni inserimento di trama per la realizzazione del motivo. Ogni singolo filo d’ordito era sollevato o abbassato per mezzo di alcuni dispositivi meccanici, a seconda della presenza o assenza del foro sulla scheda. I cartoni forati erano allacciati a formare una sequenza continua e l’informazione registrata sulle schede equivaleva esattamente al motivo del disegno che si voleva riprodurre sul tessuto. Tale tecnologia sarà poi la base della futura informatica.

Il merito per l’espansione dell’attività laniera va alla famiglia Ricci, che ebbe l’intraprendenza e la capacità di acquisire vari opifici preesistenti, vicini tra loro e a organizzarli in modo tale da concentrare in essi varie fasi della lavorazione della lana. Dalla “fabbrica” uscivano tessuti finiti, dando così il primo sviluppo al futuro lanificio. Questi opifici non si trovavano però nel sito dell’attuale sito ma poco più a nord, nella località detta ‘la Tintoria’. Ai Ricci seguirono i fratelli Beni, che impiantarono un’attività nei locali della vecchia cartiera della famiglia Piccioli, acquistata nel 1825, facente oggi parte del complesso del lanificio Vecchia Fabbrica Beni.

Intorno al 1830 Marco Ricci avviò la meccanizzazione di alcune fasi produttive. La fabbrica Ricci e la fabbrica Beni di Stia (oltre alla Mazzoni di Prato) furono i primi lanifici toscani a introdurre le macchine importate dall’estero anche grazie a un po’ di spionaggio aziendale.

Le prime Società di Mutuo Soccorso nacquero nel 1838 su iniziativa dei filatori e dei tessitori stiani per aiutare i lavoratori in difficoltà. Avevano un carattere corporativo, per cui riunivano tutti i filatori e i tessitori, indipendentemente dagli opifici in cui essi lavoravano.

Il granduca Leopoldo II d’Asburgo-Lorena visitò la fabbrica nel 1838 e la qualità dei prodotti fece meritare loro la medaglia d’oro di seconda classe all’Esposizione d’arti e manifatture toscane di Firenze del 1839, cui fece seguito, per la società Ricci, un’altra medaglia d’oro nel 1844 e infine l’assegnazione della fornitura dei panni militari per l’esercito toscano. Nel 1852, dopo una grave crisi economica che portò alla chiusura del lanificio Beni, Marco Ricci costituì con altri soci la Società di Lanificio di Stia. Le lavorazioni furono trasferite in alcuni edifici di proprietà di Luigi Goretti, un altro imprenditore stiano del settore laniero, situati all’ingresso dell’edificio detto le Conce.

Nei primi anni ‘60 dell’Ottocento, grazie all’apporto di capitale e all’impegno di tutti i soci, il Lanificio di Stia occupava circa 140 operai. Le lavorazioni avvenivano in edifici staccati tra loro. Sette ruote idrauliche dislocate in punti diversi muovevano i macchinari posti nei diversi stabilimenti. All’Esposizione Nazionale Italiana di Firenze del 1861, la prima dell’Italia unita e quando la città era capitale, il Lanificio di Stia ebbe l’importante riconoscimento della medaglia d’oro per i panni militari.

In soli tre anni, dal 1862 al 1864, si ottenne il raddoppio della produzione, pur con soli sessanta addetti. Un risultato prestigioso fu l’invito a partecipare all’Esposizione universale di Parigi nel 1867; forse proprio a seguito di tale partecipazione furono introdotti nel lanificio i primi telai meccanici. Tra il 1862 e il 1888, sotto la direzione di Adamo Ricci, fu completata la meccanizzazione di tutto il processo produttivo e razionalizzato il complesso degli stabilimenti. Adamo acquistò gli edifici delle fabbriche dismesse dei Beni e li unificò così da raddoppiare l’area di lavoro. Adamo riacquistò anche l’opificio della Tintoria nel quale fece impiantare una ruota idraulica che trasmetteva il movimento alle macchine del lanificio, permettendo così di dare ai panni casentinesi i loro iconici colori.

Nel 1869 Adamo riorganizzò la Società di Mutuo Soccorso, legandola strettamente al lanificio. Solo gli impiegati del lanificio potevano usufruire delle agevolazioni, pagando una diaria di un paolo al giorno. La Società assicurava agli operai uno stipendio minimo in caso di infortuni e la possibilità di comprare viveri a prezzo ridotto presso il Banco Alimentare. Gli abitanti di Stia avevano identificato il lanificio con le loro vite. Nelle fabbriche erano impiegati uomini, donne e ragazzi per dieci-dodici ore giornaliere e questa convivenza contribuiva alla creazione di solidi rapporti sociali. La sala tessitura era la più ambita per la salubrità dell’aria e la presenza della luce. Al contrario, nel reparto di sgrassamento della lana i vapori chimici minavano la salute degli operai.

La presenza delle macchine veniva guardata con sospetto. Molti operai avevano paura di essere del tutto sostituiti dai “giganti meccanici”. Sebbene la questione sociale si fosse impostata da tempo sullo scenario europeo, a Stia la filantropia di Adamo Ricci, la fitta rete di agevolazioni sociali e l’isolamento del paese neutralizzarono le rivolte operaie fino al 1888. I primi tumulti iniziarono dopo la morte di Adamo, durante una crisi finanziaria. Con i figli il lanificio fallì e cessò la conduzione durata più di un secolo dei Ricci. L’attività venne rilevata nel 1894 dai creditori, il cui pacchetto di maggioranza divenne negli anni successivi quello della famiglia Lombard.

A dirigere il lanificio fu chiamato il veneto Giovanni Sartori, che aveva avuto come maestro il fondatore della Lanerossi di Schio, Alessandro Rossi. Egli riammodernò la fabbrica, portandola ai livelli dei più importanti lanifici italiani. Fece realizzare un condotto, scavato nella collina per portare l’acqua dalla vecchia Tintoria e azionare due turbine idrauliche che generavano energia elettrica per il funzionamento di tutto il lanificio. Il complesso edilizio del lanificio sotto di lui raggiunse la configurazione attuale: nel 1898 fece costruire un nuovo edificio dedicato alla rifinizione dei tessuti poi prolungato per quarantacinque metri; nel 1909 costruì una nuova tintoria.

Giovanni Sartori creò un moderno sistema di previdenza sociale. Si interessò alla creazione di leggi sul lavoro minorile e femminile (con attenzione speciale alle donne in gravidanza). Ottenne dal consiglio d’amministrazione del lanificio il permesso di fare iscrivere gli operai alla Cassa Nazionale delle Pensioni e, per chi era già prossimo all’età pensionabile, creò un fondo ad hoc nella Società di Mutuo Soccorso. Giovanni Sartori morì prematuramente nel 1918.

Il Lanificio era all’apice del suo prestigio, come dimostra il fatto di essere stato fornitore ufficiale di Casa Savoia, al suo più alto livello di occupazione. Alla fine del primo conflitto mondiale gli operai impiegati erano 500, i telai 136 e la produzione era di oltre 700 km di stoffa. Nel periodo fra le due guerre il Lanificio di Stia resse la concorrenza. Dopo l’ultima guerra, entrò in una crisi irreversibile: nel 1962 venne venduto da Luigi Lombard all’industriale pratese Morelli e nel 1978 Morelli ne cedette la gestione alla Società Ci.Mo. Export, che nel 1985 fallì. Il Lanificio non riuscì a ripartire venne definitivamente chiuso nel 2000.

(Tratto e rielaborato dai pannelli didascalici del Museo del Lanificio di Stia)

Considerazioni finali

Questo articolo, da molto tempo pensato, viene pubblicato a poco dalla demolizione delle due ciminiere della Centrale Enel di Piombino avvenuta il 30 ottobre. Insieme alla società di scopo Tor del Sale, l’intero complesso sarà demolito entro l’anno prossimo per fare spazio a un “nuovo polo turistico” e, abitando in una città soffocata dalle orde di turisti come Firenze, questo preoccupa molto. Certo si parla di ampliare l’area adibita alla riproduzione dei balestrucci, ma era davvero impossibile far convivere umano e animale nello stesso luogo? Non leggo da nessuna parte l’idea di farci un museo.

In mia opinione, non ritengo esistano strutture industriali “troppo recenti” per poter essere riconvertite in luogo di memoria storica, così come si è protestato contro certe pratiche troppo estese di selezione archivistica sui documenti più recenti, di cui scriverò in futuro. Il museo ha sempre un legame con il territorio e la popolazione del presente, per questo il British Museum, pieno di meraviglie dell’antichità mondiale, fa un certo senso in un paese che ha conquistato il pianeta relativamente l’altro ieri. Se l’Italia vuole vivere solo di svago, neanche di cultura perché non è valorizzata dai nostri governanti, cosa rappresentano i musei dell’industria, rovine da spazzare via?

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