Il Tazebao – Dobbiamo ripensare il legame tra editoria, politica e cultura. Di recente, è stato lanciato un certo manifesto con una promessa irresistibile: donare all’Italia la catarsi di cui ha bisogno per tornare ad essere un nazione vitale, produttiva e ottimista. Quando i giovani sentono il fuoco della politica, i secoli iniziano a dipanarsi davvero e prendono il volo, staccandosi dalla zavorra del passato e costruendo un’identità propria, identità che però necessita di fondamenti, di fondamenti culturali.
L’industria culturale – che nell’era della dismissione si nutre voracemente di cinema e libri – vive in un ossimoro perenne: è contemporaneamente il più potente catalizzatore della rivoluzione e il più raffinato strumento di autoconservazione del potere. Il paradosso si manifesta clamorosamente nei film e nei romanzi che si spacciano per manifesti di ribellione. Apparentemente critici, eppure adorati al botteghino, lodati dalla critica e ospiti immancabili di ogni conversazione, un radicamento capillare che anziché diffonderne la presunta carica sovversiva, la smorza definitivamente. Ogni biglietto venduto o copia acquistata è un altro colpo che ne smussa la lama: la carica sovversiva si dissolve, e il messaggio, anziché deflagrare si adagia mellifluamente nel discorso dominante, diventandone parte.
Non c’è merce più tentatrice e traditrice, che sia in libreria o al cinema, della rivoluzione. Le menti che – a parole – dovrebbero essere le migliori a nostra disposizione, si piegano al giogo della società dello spettacolo. I loro pensieri, confezionati e imbelliti in libercoli che si vendono come manifesti fiammeggianti, collettivi giovanili acquistano la guida alla rivoluzione da Mondadori comodamente con carta fedeltà. Così, ornamenti da vetrina si spacciano per armi di dissenso, prodotti offerti in sacrificio sull’altare di editori e produttori pronti a renderli innocui, a trasformarli in feticci per completare un’identità che più che politica, risulta estetica.
Perché il mezzo – benché si finga non sia così – non è mai neutro. Non consegna il messaggio senza prima avvelenarlo con i miasmi del compromesso. Il messaggio è destinato a essere intrappolato dal mezzo che lo trasporta e dalle circostanze che ne decretano la fortuna. Ecco perché il potere non teme più i suoi critici: li promuove, li incoraggia, li premia con medaglie scintillanti e spazi in prima pagina.
In altri tempi, la scrittura è stata una spada sguainata dalla borghesia contro l’ancien régime. Oggi, quella stessa arma è uno strumento di controllo, credere di poterla rivolgere contro i propri ideatori è totalmente ingenuo. Ogni testo che si prefigge di essere rivoluzionario, oggi, si muove su un sottile solco che va dal successo di nicchia a quello di massa. In ogni caso il risultato è lo stesso, tutto ciò che resta è una posa modaiola, un fronzolo culturale. Lo scrittore diventa una figura integrata nell’ecosistema per eccellenza, ierofante della mondanità spacciato per pensatore scomodo, che scomodamente pensa in uno studio televisivo in prima serata.
Gridare alla censura o credere che questa sia in qualche modo una reazione muscolare di un sistema impaurito significa essere pienamente addomesticati culturalmente. La censura altro non è che un detrito feudale, una reliquia medievale che persiste ancora oggi. Ma nella fase più matura del dominio contemporaneo, chi si cura più di cosa scriva il singolo? Le ossessioni sul potere oscuro e traviante dei cattivi testi sono un retaggio dell’età di mezzo, coltivate oggi solo da dinosauri affetti da atavismo. La parola d’ordine con cui questo sistema si è cementificato è la tolleranza, ma attenzione: questa tolleranza altro non è che un’alzata di spalle che non vede pericolo in nulla. Chiunque può scrivere ciò che vuole, urlare dai tetti o mormorare nei salotti: nessuno ascolta davvero.
E allora, cosa opporre allo sterile mercato manifesticolo, a questa macchina che sforna collettivi dalle idee prefabbricate, già ingranate abilmente sul binario più sorvegliato? La risposta non sta nel lamento, ma nell’azione: un’editoria d’assalto, feroce, che non teme di sporcarsi le mani, che sia marcatamente politica ed esista fuori dai paradigmi della grande distribuzione. Una grande T lo ha già detto da queste parti: bisogna fare.
Le menti fervide devono alzarsi, accendersi. Setacciamo gli archivi, riportiamo alla luce i saggi politici dimenticati, quelli di cui non si parla più – l’Italia ne è piena – e diamogli nuova vitalità. Non si stampano più? Bene, stampiamoli noi. E poi basta, davvero basta con i soliti nomi, i soliti volti, le solite storie. L’Italia è piena di giovani che vogliono dire qualcosa sul loro Paese, qualcosa di inedito e brillante. Ascoltiamoli. Pubblichiamoli. Diamogli una voce che non si perda nell’eco di questi salotti stanchi. Creiamo il nostro universo simbolico, una costellazione che non dipenda da timbri occidentali o orientali. La vera rivoluzione non è un’esportazione, è un atto di creazione, prende forma tra le mani, con le mani. Costruiamola!