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Funerale laico ed Eguaglianza dei Cittadini

"Resurrezione della carne", di Luca Signorelli, Duomo di Orvieto – Il Tazebao (2023)
"Resurrezione della carne", di Luca Signorelli, Duomo di Orvieto – Il Tazebao (2023)
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Si sono appena spenti i riflettori sulle esequie del Presidente emerito Napolitano, che danno occasione per uno spunto di riflessione sul concetto in sé di funerale laico.

Il funerale laico non ha rituale predeterminato per definizione. Personalmente non ho mai visto un funerale laico di un uomo comune, di un operaio, di un pensionato che avesse da anni concluso il suo lavoro per vivere.

Sono stato recentemente a render omaggio alla salma di un non credente amico di mio padre presso la sala mortuaria attigua ad un ospedale di periferia: s’intravedevano accanto altre fredde stanzette con situazioni analoghe e, nell’anonimato totale, ho percepito che qualche altra persona si dirigeva verso lo stesso luogo dal parcheggio vicino. Ho apposto una firma e sono andato via. Questo è tutto.

L’art. 18 comma 2 del D.P.R. 285 del 1990 (Regolamento di polizia mortuaria) con tono concessorio dice: “È consentito rendere al defunto le estreme onoranze osservando le prescrizioni dell’autorità sanitaria salvo che questa lo vieti nella contingenza della manifestazione epidemica della malattia che ne ha causato la morte”. Da ciò si desume un diritto alla estrema onoranza (?) per cui le Amministrazioni pubbliche dovrebbero predisporre luoghi consoni, laicamente neutri, in attuazione del sempre ipocritamente decantato, più che agito, principio di Eguaglianza di cui all’art. 3 della vigente Costituzione.

Ma l’effettività registra assenza di tali luoghi semplicemente perché − in una società che ha rimosso la Morte dalla dimensione psico-sociale − per il quisque de populo non credente il passaggio dall’obitorio alla tumulazione/cremazione è solo percepito come un trasporto con un mezzo di un cadavere da un luogo ad un altro: nella società dei consumi, virtualmente erosiva di ogni residuo di spazio sacro a favore dello spazio profano, un corpo non più idoneo a sprigionare energie produttive, magari già obliato in una R.S.A., è spesso un ingombro da “discarica”(antico significato di Gheènna fuori dalle mura di Gerusalemme), da eliminare prima possibile dallo scenario sociale.

La realtà è dunque che il funerale laico è un funerale di élite che acquista un senso quando “è mancata”, come si dice adesso, una persona famosa del mondo della  Cultura, dello Spettacolo, delle Istituzioni e della Finanza: allora vi sono i discorsi commemorativi dell’importanza contestuale del personaggio e testimonianze inerenti alla sua vita affettiva, vi sono le presenze di tutti quelli che devono essere presenti secondo le contingenze del gran teatro del mondo ma, soprattutto, vi è il luogo dove il saluto funebre possa esplicarsi come fatto dialogico, in cui abbia senso dire qualcosa sulle opere del ‘mancato’. E quando si è detto, soprattutto quello che è politicamente corretto dire, tutto è apposto: the show must go on!

Se poi vi sono i presupposti per il funerale di Stato (art.2, Legge 7 gennaio 1987, n°36), ogni problema del funerale laico è assorbito giustamente dalla pompa di apparato del luogo istituzionale competente e dal relativo cerimoniale con picchetti d’onore, squilli di tromba, etc.

Ecco quindi che de facto si assiste ad una escalation di riacquisto di rilevanza laica della Morte, direttamente proporzionale all’importanza sociale avuta in vita dal Defunto: si passa dal grigiore periferico dei ‘non luoghi’ dell’esistenza, di cui parla Marc Augé, a quelli, altamente densi di significato laico, delle grandi Aule civiche: il funerale laico si manifesta in una dimensione post-potestativa del defunto − che paradossalmente viene lui sacralizzato proprio per la negazione dello spazio sacro − seppellendo quella Eguaglianza dei cittadini, che il rito cristiano garantisce invece a tutti i fedeli nella dignità della sofferenza e della estinzione vitale proiettate nel Mistero ultraterreno.

A questo punto, qualcuno potrebbe obiettare che anche tra i funerali religiosi ve ne sono di più semplici e di più pomposi (con o senza dimensione di Stato) e certamente è innegabile tanto che la vanitas terrena abbia diverse declinazioni, quanto che la bellezza dei riti valga comunque ad esorcizzare il terrore della morte, che atterrisce tutti gli umani credenti e non. Ma è la dimensione del Rito in sé della Messa funebre − nei suoi Elementi liturgici essenziali, che anzi quanto più son sottratti alla dimensione dialogica del bla bla bla più sono significativi − a dare voce alla sofferenza di tutti ed a superarne i limiti di humana fragilitas, a dare un senso eterno proprio nella sospensione del giudizio terreno contingente e circostanziato sulle opere dell’Uomo: quel giudizio che invece viene pompato a dismisura nella inevitabile china discorsiva − con altrettante reazioni polemiche − delle celebrazioni laiche delle nuove élite inevitabilmente proclivi ad inneggiare alla eccezionalità del personaggio e non alla sua riconduzione alla humilitas di peccatore al cospetto di Dio misericordioso.

Forse la consapevolezza ironica di “A’ livella” delle vecchie élite ha ancora qualcosa da dire, come il priore dei Cappuccini che dice per 3 volte “Chi è”, quando il ciambellano bussa alla porta del Kapuzinergruft per la sepoltura di un Asburgo sciorinando tutti i titoli imperiali ed alle cui vanità, il priore per due volte risponde “non lo conosciamo”: la porta viene aperta solo dopo la risposta finale al terzo “Chi è”, con l’ affermazione della dignità della morte unicamente nella nudità assoluta da ogni titolo terreno: “Un povero miserabile peccatore!”

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