Chiudono i negozi Disney Store, tra cui quello di via Calzaiuoli a Firenze. Stupisce, nel silenzio della politica, il silenzio imposto ai lavoratori dall’azienda paladina…
Non c’era bisogno di altre riprove. Al lieto fine avevamo smesso di crederci già da un pezzo. Troppe le peripezie senza senso. Come ai buoni e cattivi. Noi che siamo sempre, volenti o nolenti, dalla parte dei cattivi perché lì ci hanno rifilato i nostri autori. E poi, parliamoci chiaro, i cattivi sono anche più complessi e affascinanti. Sul principe azzurro stendiamo un velo pietoso come sulla principessa. Una coppia troppo vetusta, troppo binaria. Non dico un principe ma almeno uno spasimante di colore mettiamocelo! E la principessa deve per forza essere bianca e bionda? Che banalità, che noia! E poi siamo sicuri fosse consenziente? Quindi, anche sull’amore eravamo parecchio perplessi. Ma del resto, “Il romanticismo è morto! È stato omogeneizzato alla Disney e venduto pezzetto per pezzetto”, per dirla con la cara Lisa Simpson (a proposito la serie sulla famiglia gialla d’America se l’è pappata proprio la Disney).
Insomma, a indispettirci, non è tanto la perdita di oltre duecento posti di lavoro in tutta Italia, che poi sono anche famiglie, consumatori se vogliamo andare sul gretto, o il portare a termine la dismissione dei negozi – c’era da aspettarselo prima o poi dopo il lungo limbo del blocco licenziamenti – e puntare alle sole vendite online (Amazon! Amazon!), siamo oramai ben scafati alle logiche aziendali e alla primazia del mercato, come non ci aspettavamo una presa di posizione anche pelosa, anche di peluche della politica locale – Nardella stava candidando Firenze al prossimo Eurovision (del resto bisogna stare sul chiacchiericcio trend topic) – ma quell’imposizione tassativa del silenzio ai malcapitati dipendenti, così aliena rispetto alla nostra cultura. Vietato parlare. Altrimenti che succede? Verrebbe da chiedersi. Cosa potrebbe succede di peggio? Drastico ma efficace: tutte bocche cucite al quasi ex Disney Store di via Calzaiuoli.
A far questo è la stessa Disney paladina della diversità, dell’inclusione, del rispetto per chiunque uomo, donna, binario, non binario, binario morto. Disney, la casa madre delle pop star costruite in laboratorio, o meglio a Camp Rock, vedasi alla voce Demi Lovato, la “non binaria” cui dovremo rivolgerci dando del loro. Sembrano storie surreali ma queste carriere costruite dalla culla al Grammy sono emblematiche. E non è nemmeno una questione tra il predicare bene e razzolare male. Quando mai ad “alti” ideali corrispondono azioni ugualmente alte? C’è un continuum tra la propaganda del Mondo Nuovo e la totale spregiudicatezza. Adesso niente più putei piangenti perché vogliono il pupazzetto. Niente più figlie che sognano di vestirsi a festa e cercano il vestitino (ci scuseranno le Lovato se siamo rimasti alle bambine, e non ai bambini, che si vestono da principesse). Niente più babbi spanciati costretti a infinite code, né mamme affannate alla ricerca del Dumbo più adatto. A guardarlo così, sembra pure un mondo migliore.
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