Anche i media nostrani lasciano intendere che gli Stati Uniti, dopo il turbine trumpiano, abbiano scoperto di essere divisi, spaccati. Tra pochi inviati on the ground e fonti ridotte e contingentate, la distorsione della realtà è massima: una misera contrapposizione tra “America profonda” e coste progressiste. Una lettura fuorviante, impolitica, immatura, non attinente alla realtà fattuale.
L’essenza degli Stati Uniti è il conflitto. Etnico, religioso, geoeconomico, cittadino-Stato, è il conflitto a muovere quella che viene detta la più grande democrazia al mondo. Un conflitto motore di cambiamento e sempre, doverosamente, ricondotto nei canali istituzionali e democratici. In effetti, proprio questo continuo scontro, incontro e mediazione tra le élite che compongono il complesso mosaico stars and stripes sembra essere la risorsa politica di un sistema democratico che funziona, ininterrottamente, senza sortite autoritarie, riuscendo a cambiare come cambia l’America stessa, avvicendandosi alla guida dell’Impero.
Per andare oltre la superficie, ci confrontiamo con Alessandro Sorani, osservatore attento, divulgativo grazie ai suoi video sulle elezioni americane, autore de “La comunicazione politica americana da Kennedy a Trump” (Mauro Pagliai, 2020).
Questi risultati, in attesa di riconteggi, ricorsi e ballottaggi (Georgia), sembrano cristallizzare la profonda spaccatura negli Usa.
“Partiamo da un fatto: non è da adesso che il candidato perdente mette in dubbio il risultato delle elezioni. Da Bush contro Gore l’ombra del riconteggio avvelena le tornate elettorali statunitensi ed è pericoloso per la legittimità di tutto il sistema. Su questa divisione emergente in seno agli Usa ho qualcosa da contestare. Gli Usa sono sempre stati divisi, le vittorie molto risicate, ad eccezione di alcuni casi come la rielezione di Nixon nel 1972 o quella per il secondo mandato di Reagan. Questa è la forza del sistema americano. Gli Usa sono divisi da sempre, oggi lo sono sul piano valoriale ovvero si è logorato quel patrimonio di valori comuni che accomunava tutti, vincenti e perdenti. Prima chi perdeva doveva fare un’opposizione rigorosa ma sempre costruttiva, nella speranza di subentrare presto, oggi direttamente non accetta il risultato e si arriva a contestare alla radice l’avversario in quanto tale e non per le sue azioni”.
A cosa si deve questa erosione?
“Come tutti i fenomeni storici e sociali le cause sono molte e di lungo periodo. Provo a concentrarmi su di una. È fin troppo facile incolpare Trump, che forse ne è la manifestazione più evidente. Siamo di fronte a una trasformazione ben più lunga che ha investito i Repubblicani. Le spaccature dentro il mondo GOP emergono nel novembre del 1992 con la candidatura di Ross Perot che impedisce la riconferma di Bush padre, un candidato ancora aderente al canone Repubblicano – lui figlio della Seconda guerra mondiale e protagonista della Guerra Fredda. Fino ad allora l’appartenenza a un’unica bandiera, vissuta come una religione civile, era molto radicata. Da allora qualcosa cambia”.
Il sistema Usa (tempi e sistemi di elezioni sfasati, federalismo accentuato, stato minimo) è così imperfetto che funziona (va) o no?
“È un’imperfezione che permette al sistema di andare avanti. Un sistema sostanzialmente perfetto perché monitora regolarmente il consenso degli elettori, di cui si premura di rappresentare gli interessi consolidati ma anche di registrare gli umori mutevoli.
«In effetti, non è vero che chi vince governa quattro anni: deve dimostrare di essere capace di tenere il consenso dopo due anni. L’elettore, con il voto di midterm, ha, insomma, uno strumento per confermare l’operato di un presidente o per disinnescarlo».
“Di fronte a una società che cambia velocemente, in economia e in politica estera, la scadenza elettorale dei due anni è elemento di forza. È una dimostrazione di grande maturità democratica se penso che da noi si sia persa, in modo forse irreversibile, la rappresentatività del territorio con il taglio dei parlamentari. Una scelta davvero poco meditata!”.
E, nel frattempo, i Repubblicani di oggi sono molto diversi…
“Sì, da Bush a Trump passa un mondo politico ma anche socioeconomico. I Repubblicani di oggi riescono a rappresentare la classe media a rischio e anche gli immigrati di seconda generazione; penso al successo in Florida. Di contro i Democratici, sempre dal 1992 a oggi, hanno iniziato a rappresentare le istanze globaliste, elitarie, riuscendo a sedimentare quella cancel culture che vorrebbe riscrivere una storia, con la sua costante autoflagellazione. Un cambio di genetica del sistema partitico notevole che non può non produrre contraccolpi”.
Contrariamente a una certa narrazione che lo vorrebbe dipingere come vecchio e incapace, Biden ha dimostrato abilità. Ripenso al suo discorso alla Lockheed Martin – la fabbrica che produce i missili che vanno in Ucraina – in cui ha parlato di “punto di rottura nella storia”. Penso anche alla gestione del Medioriente, con gli accordi tra Libano e Israele via Amos Hochstein, la sua visita in Arabia Saudita.
“Non c’è alcun dubbio che Biden abbia gestito con fermezza il fronte antirusso. Nessuno si aspettava questi risultati. Non ci sono state crepe nel fronte Occidentale, come Putin sperava e come lasciavano intendere certe letture. Biden dimostrato forza, determinazione, facendo tornare gli Usa guida del ‘mondo libero’. Di contro, la Russia è sempre più isolata e anche molte ambiguità, come quella cinese, si sono risolte. Curiosamente, gli Usa hanno sempre bisogno di un nemico! E oggi lo hanno ritrovato. Certo, Biden non si presta fisicamente a impersonare un’America forte, è un presidente gaffeur, come ce ne sono stati altri per altro, ma ha una perfetta conoscenza delle Istituzioni, ha rapporti internazionali solidi e ha l’appoggio del suo partito. Con la sua esperienza e la sua pratica politica, che gli deriva da oltre 40 anni dentro il sistema, è riuscito a oscurare Kamala, che troppo presto era stata indicata come successore. Non è un presidente perfetto, scintillante ma rappresenta quell’affidabilità di cui gli Usa e non solo loro hanno bisogno”.
In questa fase di rilancio della Nato, tutt’altro che morta, l’Italia dovrebbe giocare un ruolo, per lo meno nel fianco Sud dove la presenza di Russia e Cina è crescente.
“In politica estera abbiamo proprio bisogno di riscoprire quello che eravamo. Siamo sempre stati abili ed efficaci in politica estera. Non tanto come protagonisti ma parallelamente, nei rapporti bilaterali. Sappiamo essere molto concreti, mediatori. Un’Italia più protagonista è una risorsa per tutti, anche per la Nato”.
E questo attivismo di big-tech? Oltre il televoto, Musk ci ha dato un assaggio del “mondo nuovo”…
“Dopo decenni di dominio dell’economia petrolifera è arrivata la new economy, che non si era mai occupata di politica in prima persona, forse non ne ha nemmeno bisogno. E questo è un primo punto rilevante. Dico anche che questi strumenti sono irreversibili: non mi stanco di ripetere che sono solo strumenti ma prima di tutto luoghi”.