Ospitiamo tradotto il contributo di Iad Boustany sul federalismo applicato al caso libanese, pubblicato originariamente su Medium.
Per capire il federalismo, bisogna comprendere i concetti sottostanti e, ancor di più, la misura in cui questi concetti sposano la realtà sociale del Libano. Sussidiarietà, autogoverno, secolarismo, localismo sono i pilastri fondamentali di questo modello di governance.
Sussidiarietà
Un oscuro concetto sviluppato da e per le legioni romane ha trasformato il mondo e potrebbe, alla fine, salvare il Libano. Nel momento in cui Catone il Vecchio ripeteva incessantemente “Delenda Cartago Est” e Quinzio Flaminio dirigeva i suoi eserciti nella battaglia di Cinocefale, Roma stava combattendo su due fronti affrontando quelle che allora erano due potenze egemoni nel Mediterraneo: i Macedoni e i Cartaginesi.
La flessibilità, pensavano i comandanti romani, sarebbe stata fondamentale per sconfiggere eserciti altamente centralizzati, comandati e controllati. Il Subsidium, pensavano, il concetto per cui ogni centurione aveva il potere di prendere tutte le decisioni ragionevoli, compresa la chiamata delle unità di supporto, poteva trasformare la sconfitta in vittoria. E infatti lo fece. Il centurione aveva il potere di scalare le sue forze. Scale-up direbbe Nassim Taleb in un moderno gergo di governo.
Nella Cartagine romana Sant’Agostino sviluppò ulteriormente questo concetto, che, attraverso San Tommaso d’Aquino, raggiunse la riforma e fu sostenuto con forza da Johannes Althusius nella sua Politica (1614) dove leggiamo un’attenta difesa del federalismo.
La sussidiarietà era diventata il principio secondo il quale le decisioni dovrebbero sempre essere prese al livello più basso possibile o più vicino alle parti coinvolte. Ma il tempo per una sua affermazione definitiva non era ancora arrivato. La sussidiarietà aveva bisogno di un concetto complementare – Res Publica, Repubblica – prima di poter realizzare il suo potenziale come sistema di governo.
Cuius Regio Eius Religio (autogoverno)
Con la riforma di Calvino che si scontrava con il cattolicesimo, la Res Publica Christiana era sprofondata in una terribile guerra civile, la cui soluzione richiedeva la messa in discussione delle varie basi dell’organizzazione sociale vigente. La filosofia politica della cristianità doveva essere reinventata.
Nel mezzo della “guerra civile tedesca”, con divisioni troppo profonde e conflitti troppo estesi, le soluzioni superficiali non erano più un’opzione. La diversità in seno al dogma religioso era la nuova realtà che disegnava una nuova mappa sparsa del Sacro Romano Impero Germanico e oltre. Solo un concetto forte che si applicasse in modo uniforme ed equo a tutti i domini avrebbe ripristinato una qualche somiglianza di pace. Quel tentativo di trovare una pace globale basata su solide basi filosofiche fu tentato ad Augusta nel 1555. Fu introdotto un nuovo concetto di filosofia politica: Cuius Regio Eius Religio. Perché la pace prenda piede, governati e governatori devono essere della stessa fede.
Secolarismo
Il secolarismo è stato teorizzato con dovizia da Sant’Agostino nella “Città di Dio” (426 d.C.) in cui convoca l’imperatore per tutte le questioni che “cambiano con il tempo” secularum, le questioni secolari. La Chiesa e tutte le questioni spirituali, “tutte le questioni che non cambiano con il passare del tempo” sarebbero rimaste affidate alla gestione dei chierici. San Tommaso e i filosofi politici neotomisti sostennero tale distinzione tra il regno della Chiesa e quello dell’Imperatore. Essi svilupparono ulteriormente il concetto in un concetto politico per la Res Publica Christiana. Mentre i chierici avevano il mandato di gestire la chiesa e le anime, i laici (cristiani non clericali) dovevano governare le questioni secolari. Secolarità e laicità, concetti cristiani come sono, erano emersi dal dogma cristiano stesso e non contro di esso.
Sintesi
La Rerun Novarum, l’enciclica di Papa Leone XIII del 1891, definiva il punto di vista della Chiesa Cattolica di fronte alle “nuove questioni”: progresso, sviluppo, capitalismo, comunismo, povertà e ricchezza, nazioni e costruzioni sociali. In effetti, si trattava di questioni nuove. Eppure, il Papa usava vecchi strumenti per affrontarle. La nazione organica, una geografia costruita dal basso verso l’alto e scalata verso l’ottimalità, aveva dimostrato di essere una struttura adeguata affinché gli esseri umani potessero realizzare al meglio il loro potenziale in un ambiente di valori condivisi. La sussidiarietà, come profetizzato da Leone XIII, era il concetto chiave su cui costruire lo sviluppo sociale in un ambiente politico delineato dal principio di pace di Augusta del 1555. Da questi due concetti emerse il quadro di pace e stabilità che fu fondamentale per porre fine alle guerre civili europee e alle guerre sociali europee, e aprì la strada allo sviluppo, all’espansione della libertà religiosa, alla stabilità sociale, alla tolleranza e alla laicità.
Concetti risonanti nel Monte Libano
Il cristianesimo portò tutti questi concetti sulle coste… e sulle montagne levantine. “Cuius regio Eius religio” era infatti un concetto politico ben riconosciuto quando gli emiri Chehab sentirono l’impulso di convertirsi al maronitismo per governare le aree popolate da cristiani del Monte Libano. Sussidiarietà, localismo e autogoverno erano anche realtà ben radicate fin dai Fenici, un tratto comune ulteriormente rafforzato dall’insularità montana.
Questi concetti hanno avuto una grande fortuna nel modello della città-stato, poi , nei secoli successivi, con i regni crociati retti dalle rispettive casate. La dinastia Ma’an comprese appieno questi tratti specifici delle popolazioni levantine, adottando regole di governo flessibili e decentralizzate.
Non fu così nei secoli successivi. Lo spietato governo del principe Bashir Shehab II il Grande – con le sue tendenze fortemente accentratrici – lo pone in collisione frontale con lo spirito dei popoli e la mentalità localista delle popolazioni che governa. Il feroce rifiuto di questo accentramento si conclude con la caduta della monarchia nel 1840 e dell’intero sistema feudale (1842 e 1864).
Il localismo, la cultura dell’autogoverno e la sussidiarietà trovarono piena applicazione nelle repubbliche di Zahle (1843) e Kesrowan (1859), sorte pochi mesi dopo la fine del sistema feudale. Con la conversione di Bachir III all’Islam, il legame Cuius Regio Eius Religio fu rotto e il regno, a maggioranza cristiana, non si sentì più obbligato verso un’autorità non più riconosciuta come tale.
Il XIX secolo vide il rovesciamento del sistema feudale (come altrove in Europa) e i primi esperimenti di modelli democratici repubblicani. Il tessuto sociale levantino era unanimemente considerato come multinazionale. I levantini si consideravano come nazioni distinte. Gli Ottomani, che dominavano il Levante, avevano classificato i sudditi di quel territorio come “Millet”, una parola turca che significava “nazioni”.
Ugualmente, i regni europei percepivano le varie popolazioni levantine come nazioni. Dal re Luigi IX a Luigi XIV ai Napoleoni, tutti si rivolgevano alle varie nazioni come tali: che si trattasse di sciiti, drusi o maroniti. Metternich stesso alla fine intitolò la costituzione da lui stesso redatta tra il 1861 e il 1864 “Reglement Organic” cioè l’insediamento per nazionalità organiche. Il Monte Libano fu riconosciuto come un paese a varie nazioni.
Il modello basato sulla sussidiarietà e l’autogoverno ebbe un tale successo che il moderno storico turco Engin Akarli rimase perplesso dal suo successo. Tanto da etichettare quell’epoca (e il suo libro che la riguarda) come “La lunga pace”. Akarli arrivò a sostenere che, se la Sublime Porta avesse esteso l’applicazione di questi principi di governo agli altri domini dell’impero, questo non sarebbe crollato.
1926: l’anno in cui i patrioti divennero settari
Questa realtà sociale fu negata nel 1926. Infatti, la nuova Costituzione del Grande Libano si discostò da quella del 1864. Quest’ultima era “federale”, decentralizzata dal basso verso l’alto, cosciente delle multinazionalità. La prima unitariana, amministrativa, centralizzata e ispirata al modello giacobino francese. “Millet” non significava più “nazione”, era tradotto in “setta” e confinato nello spazio religioso. Non era più “identità”, era diventato “fede”. Le etichette possono essere cambiate, ma la realtà no. Le popolazioni erano allora come oggi: nazioni diverse in un solo paese.
La Costituzione del 1864 aveva permesso ad ogni identità di esprimersi liberamente, di rintracciare le proprie radici nella profondità della storia e di disegnare il modo di proiettarsi nel futuro. La narrazione nazionale, essendo il modo in cui le persone vedono il loro passato, costruiscono il loro presente e sognano il loro futuro, era come dovrebbe essere, una visione del mondo coerente che cementava le persone intorno a valori condivisi.
Semplici esempi spiegano bene la differenza tra narrazione storica e narrazione nazionale. Prendiamo Waterloo, come fatto storico, per esempio. I fatti storici sono effettivamente noti a tutti e non sono contestati da nessuno. Ma è una vittoria o una sconfitta? La risposta dipende dal punto di vista, dalla narrazione nazionale. Nel Regno Unito e in Germania, Waterloo è una vittoria, ma in Francia è una sconfitta. Applicate lo stesso a Yarmouk, alle Crociate, a Fakhereddine. I fatti storici sono gli stessi, ma la loro lettura è diversa. Santi e demoni, amici e nemici, alleati e traditori, sono definiti a seconda della narrazione nazionale. La narrazione nazionale è il modo in cui i fatti storici sono seminati insieme per dare un senso alla storia e un significato alla vita.
“Sull’identità e il significato” ha scritto l’antropologo Selim Abou. In Libano, la setta è identità e non (solo) fede. La nostra storia (quella di tutti i libanesi) sposa quella delle nostre comunità religiose. Quelli agnostici o atei, rimarrebbero cristiani agnostici o atei, drusi, sunniti o sciiti. Inoltre, le nostre diverse narrazioni nazionali inquadrano le menti in modo da plasmare le nostre divergenti visioni del mondo. Chi è un amico? Chi è un nemico? Chi è il martire e chi il traditore? Da dove veniamo e dove siamo diretti? Qual è il vizio e quale la virtù? Qual è il lecito e quale l’illecito? Tutte queste questioni sono trattate in modo diverso a seconda della narrativa nazionale a cui si appartiene. A seconda che si sia cristiani, sunniti, sciiti o drusi e indipendentemente dal fatto che si sia credenti o meno.
Le pretese di rimuovere il “settarismo” sono in realtà, più o meno nascosti o più o meno candidi, tentativi di rimuovere l’identità. Questo porta ineluttabilmente alla distruzione della comunità e alla sua scomparsa.
Trasformando “Millet” (nazione) in “setta”, la Costituzione del 1926 tentò di cancellare le nazioni organiche e le loro relative identità in favore di una nuova idea nazionale chiamata Libano. L’élite intellettuale dell’epoca fu incaricata di elaborare una nuova narrazione unificante. Asad Rustom, Jawad Boulos e Fouad E Boustany accettarono la sfida. I ragazzi delle scuole impararono a conoscere i Fenici, così come gli emiri che unificarono il Levante sotto il dominio ottomano. Ma poco, se non nulla, è stato insegnato su quei 15 secoli che si estendevano tra questo e quello. Tra la venuta di Cristo e quella di Qurqumaz. Le identità e le nazioni organiche dovevano essere soppresse.
Realtà sociali
Cento anni dopo, non è un segreto affermare che il Libano è uno stato fallito e che tutto il suo popolo ne ha ugualmente sofferto. Un nuovo modello sta per emergere e questa è l’ultima occasione per costruirlo su principi solidi. Questo nuovo modello è necessario per ridurre le tensioni, non per aumentarle, per aumentare la collaborazione, non per ostacolarla, per promuovere la pace e favorire la prosperità di tutti. Questo modello deve basarsi sui due principi cardine spiegati sopra: sussidiarietà e cuius regio eius religio.
Non dobbiamo cercare lontano un tale modello, è stato ben stabilito qui nel Monte Libano tra il 1864 e il 1915 e il suo abbandono nel 1926 ha scatenato i nostri guai e la nostra lenta decadenza. È la nostra ultima possibilità per un contratto sociale valido che favorisca la libertà, la coesistenza, lo sviluppo, la solidarietà, la pace e la prosperità. Tale costruzione ha un nome: Federalismo.
È tempo di una costruzione dal basso verso l’alto. È ora di chiedere al popolo (le varie nazioni/comunità) cosa vuole. È ora di tornare all’entità più piccola (il comune) e dargli il potere di parlare di ciò che vuole. Lavorano negli stessi campi da più di 6.000 anni. Non dobbiamo loro il diritto di decidere del proprio futuro, del proprio destino? Vox populi vox Dei, si dice. E così sia.
Avevo twittato questo il 22 giugno 2021: “I cristiani del Libano presto non ci saranno più. La loro civiltà finirà lentamente. Non in un massacro molto pubblicizzato, non in un’ultima eroica resistenza. La storia non ricorderà una data fatale né un nome glorioso: niente 29 maggio 1453, niente Costantino Paleologo… eppure, le luci di Hagia Sophia si spegneranno. Lentamente prosciugata, esaurita dal tempo e dalla demografia e avvolta dalla vergogna di un sistema corrotto, come assistere al rallentatore di un treno in corsa, la nostra civiltà uscirà presto dalla storia”.
Senza federalismo, questo tweet diventerà presto una profezia.
Il reportage sul Libano è disponibile qui: I Quaderni de Il Tazebao – estate 2021 – Il Tazebao
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