L’autonomia energetica e alimentare sono i fondamenti della nuova ambiziosa politica di potenza turca di Erdogan; la religione fa da collante identitario.
Il Sussidiario – È presto per dire se questo sarà “il Secolo della Turchia”, come ha preannunciato il presidente Recep Tayyip Erdogan. La Turchia è già una certezza: molto più che una potenza regionale, e non tanto perché ha il secondo esercito della Nato, di cui è membro dal 1952, con 355mila effettivi (spende in difesa circa il 1,89% del Pil). La sua geografia (e la geostoria), l’essere ponte naturale, piattaforma logistica ma anche la vulnerabilità da più lati, le frontiere terrestri e gli spazi marini ispirano quella politica estera cauta, talvolta ambigua, non di rado sorprendente, di certo proattiva, che sta praticando.
Il recupero di una dimensione imperiale
Il progetto neo-imperiale di Erdogan si innesta nel solco del Millî Görüş (“visione nazionale”) di Necmettin Erbakan (1926-2011), il leader politico che ha cercato di favorire l’unità tra i musulmani e ha gettato le basi per lo sviluppo dell’industria turca.
Si può affermare, con quasi assoluta certezza, che proprio Erbakan abbia aperto la strada alla sostituzione al potere dell’élite laica e kemalista con una nuova élite di ispirazione musulmana, che persegue una visione “pan-islamica”.
Oggi, il disegno di Erdogan si sta declinando nel recupero di una stabile presenza nel Mediterraneo, non solo di Levante, in tutte le aree del fu impero, come i Balcani, il Medio oriente, il Caucaso, l’Asia centrale. Di recente, inoltre, la Turchia ha anche ripristinato, dopo dieci anni, le relazioni diplomatiche con l’Egitto, oltre ad aver potenziato quelle già solide con una “nazione sorella” come l’Azerbaijan.
Come prevedibile, non c’è solo una proiezione materiale, fatta di infrastrutture – Tap su tutti – e investimenti copiosi. Attraverso la religione, solido collante identitario, Erdogan si rivolge agli altri Paesi a maggioranza musulmana (Africa, Corno d’Africa, fino al Sud-Est asiatico), alle masse musulmane emigrate all’estero, spesso emarginate, e alle comunità turcofone, come quella tedesca. I festeggiamenti in tutto il mondo in occasione della sua vittoria elettorale, in Svezia come in Montenegro e a Cipro, hanno confermato che Erdogan è sempre di più il leader di riferimento.
Non stupisca, quindi, che proprio Erdogan abbia guidato la protesta dopo il rogo del Corano in Svezia – il rogo dei libri evoca terribili ricordi – e che abbia incontrato il leader palestinese Abbas confermando il sostegno alla causa palestinese e prendendo una dura posizione contro Israele dopo i fatti della Moschea Al-Aqsa.
Mentre la Nato pone il suo baricentro strategico in Polonia, cui è demandato il Baltico, la Turchia copre il fianco Sud e in particolar modo nel Kara Deniz, il Mar Nero, insieme alla Romania, si erge sempre di più a mediatore o addirittura guida del mondo sunnita. Basti, in tal senso, citare i rapporti con la comunità sunnita in Libano. Anche perché il presidente turco, a differenza di altre personalità del mondo sunnita, ha un profilo popolare e spendibile.
La crescita economica e le sue basi
In parallelo, all’interno, è avvenuto un processo di industrializzazione grazie alla crescita costante del manifatturiero. All’Istanbul Modern Museum di Istanbul, oggi nella nuova sede firmata da Renzo Piano, c’è il quadro L’Uomo della Terra (Toprak Adam, 1974) di Neşet Günal che rappresenta il contadino anatolico, asciutto e coriaceo, come la sua terra: rappresenta bene una Turchia, non più tutta.
L’agricoltura rimane centrale e le esportazioni ampie: nel 2020, ha esportato quasi 1780 diversi tipi di prodotti agricoli in 240 paesi per un totale di 21 miliardi di dollari.
Tuttavia, nell’ultimo decennio la quota del Pil prodotta dal settore manifatturiero ha raggiunto oltre il 18% e potrebbe arrivare almeno al 21% entro l’anno il 2023; i prodotti manifatturieri esportati sono a medio valore tecnologico. Continuando così, è prevedibile l’emersione e la stabilizzazione di un ceto medio turco, nonostante la svalutazione della lira.
La proiezione di potenza e la crescita industriale si basano sulla stabilità energetica che la Turchia si è assicurata. Il paese ha un robusto mix energetico che unisce fonti rinnovabili, molto sviluppate, e fonti fossili: l’idroelettrico genera 31.500 Mw, il gas 25.750 Mw, dal carbone arrivano 20.000 Mw, 19.000 Mw tra eolico e solare insieme, 1.700 Mw sia dalle biomasse sia dalla geotermia; le fonti rinnovabili sono già molto sviluppate (54% del mix) ma il governo si è posto l’obiettivo di istallare impianti eolici e impianti solari per 10.000 Mw ciascuno entro i prossimi 10 anni. Non solo, la nuova centrale nucleare di Akkuyu, che ha ricevuto i primi carichi di uranio, potrebbe arrivare a fornire fino al 10% dell’energia elettrica di cui il Paese ha bisogno: considerando che il fabbisogno, tra popolazione e industria in crescita, aumenta, è una scelta ben motivata. Ciò dimostra che non solo c’è una strategia per l’autonomia energetica oggi ma anche per uno sviluppo futuro “green”.
Dopo aver vissuto il crollo e lo smembramento dell’Impero Ottomano, che non era così arretrato come dimostrano le riforme del periodo Tanzimat, dopo averne ricomposto le spoglie, cento anni dopo la fondazione della Repubblica che ha ridato una stabilità territoriale, la Turchia è tornata a esprimere un fattore di potenza e, nonostante in Occidente prevalgano toni e narrazioni semplicistiche, non di rado velate da una presunta superiorità, è arrivata all’appuntamento con la storia preparata.
Fonte: DALLA TURCHIA/ Da Erbakan al nucleare, la ricetta di Erdogan per tornare potenza
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