Dal Fronte di Trieste: i moti del ’66 e la storia… che non ha scolari

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Dopo la repressione di quei moti, in anticipo sul ’68, la città, naturale porta per la Mitteleuropa, subisce un costante declino industriale.

Il TazebaoL’8 ottobre del 1966 migliaia di operai scesero in piazza per difendere il cantiere San Marco, il cuore pulsante della industria triestina, minacciato dal piano di “razionalizzazione” CIPE.  Il piano prevedeva di chiudere il cantiere navale e delocalizzarlo a Genova. Tutti i partiti di governo applaudirono a questo tradimento. La CGIL, UIL, PCI, insieme all’area filo-TLT, si schierarono invece dalla parte dei lavoratori. Gli operai insorsero e pure la piccola borghesia abbassò le serrande in segno di solidarietà.

Settemila persone, secondo i sindacati, marciarono sotto la sede RAI, poi in piazza Grande e infine in piazza Goldoni davanti alla redazione del Piccolo, presa a sassate, e alla sede del PSI, considerato traditore per il sostegno al governo. La tensione esplose in piazza San Giovanni, presidiata dalle forze governative: ai lacrimogeni della polizia si rispose con una pioggia di sassi. Barricate improvvisate con filobus ribaltati bloccarono Largo Barriera Vecchia, mentre il rione operaio di San Giacomo, in rivolta, veniva isolato e assediato dalle forze dell’ordine. Già il giorno precedente era giunta dal Veneto una folta schiera di celerini pronti a reprimere la protesta. Alla fine della giornata si contavano più di 400 arresti e oltre 70 feriti tra manifestanti e polizia.

Dietro l’azione repressiva ci fu pure l’ombra di “Gladio”. Poco tempo prima infatti, con “l’Operazione Delfino”, erano state simulate rivolte a Trieste: “azioni di disturbo” per giustificare e preparare la repressione.

I documenti parlano chiaro: provocare incidenti e usare la violenza per zittire le proteste. Guarda caso “qualcuno” assaltò la sede dell’ACLI, giustificando l’intervento della celere.

Ad ogni modo la rivolta cittadina venne domata e due mesi dopo il piano CIPE divenne realtà. L’allora ministro Taviani, architetto di quelle trame, accusò i lavoratori triestini di essere “agenti stranieri”, mentendo.

Poco dopo, le promesse di una nuova zona industriale, che sarebbe dovuta nascere al posto del cantiere San Marco, si dimostrarono per quello che erano: menzogne del governo, a cui il giornale Il Piccolo fece da megafono con l’obiettivo di spaccare la protesta.

Come riportava uno striscione della protesta di allora: “La zona industriale è un cimitero di fabbriche”.

Quel giorno segnò l’inizio della fine per l’industria di Trieste e minò la forza e l’unità di quella classe operaia che aveva ancora la forza di fare paura.

Trieste fu separata dal ‘suo’ mare: l’attività portuale ridimensionata, la cantieristica navale cancellata; la nostra città fu relegata ad un ruolo marginale da chi, per motivi geopolitici, non voleva che il nostro porto svolgesse la sua naturale funzione di porta per la Mitteleuropa, area che al tempo stava (in larga misura) dall’altra parte della cortina di ferro.

La storia pare non averci insegnato nulla.

Fronte della Primavera Triestina

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