Prosegue l’approfondimento dedicato alla figura di Cesare e Ottaviano a cura di Alessandro Cosi.
(Prosegue da qui) Quando Cesare era in Gallia scrisse ed inviò regolarmente a Roma i suoi Commentarii de bello Gallico, non solo opera letteraria e geo-etnografica unica nel suo genere, ma soprattutto strumento propagandistico efficace nell’evidenziare a tutti, popolo e aristocrazia, la sua grandezza di generale vittorioso e di conquistatore inarrestabile. Va sottolineato come i Commentarii fossero una sorta di relazione ufficiale dei governatori al Senato, con Cesare divengono opera letteraria a pieno titolo per lo stile asciutto e diretto, e per la loro eleganza. In essi Cesare dirige con grande maestria il concerto delle sue gesta, in terza persona, modello unico nell’antichità, conferendo un senso di oggettività all’impresa che altrimenti, in prima persona, sarebbe apparsa risibile. Ad es. se avesse detto: ho conquistato tale città, ho compiuto un salvataggio coraggioso ecc, di certo sarebbe apparso vanaglorioso e tronfio.
La gloria ottenuta dall’impresa gallica lo aveva trasformato nel più grande generale di Roma, esaltato dal tutto il popolo romano e italico. Occorre precisare come nel 59 a.C., primo consolato cesariano, fosse Pompeo il vero, grande generale, dato che Cesare non aveva affrontato che poche significative campagne militari. La sua vittoria nelle Gallie ribaltò la situazione, o meglio, lo mise almeno sullo stesso piano di fama e di gloria di Pompeo. Nel momento in cui il Senato, e Pompeo stesso, si misero di traverso, si arrivò allo scontro, alla guerra civile.
Quando poi varcò il Rubicone, 10 gennaio del 49 a.C., con un gesto eclatante e incostituzionale rimasto negli annali della Storia, e costrinse Pompeo alla fuga verso Durazzo, per lui si spalancarono le porte del potere: consolati e dittature si susseguirono in un crescendo di cariche politiche, in un tripudio di dominio concessogli da un Senato impaurito e succube. Fu in quel momento che seppe manifestare la sua grande capacità riformista con due leggi fondamentali, la Lex agraria, che definì finalmente la questione della terra pubblica, e la Lex de repetundis, che regolava, limitandoli, i soprusi dei governatori provinciali. Quando ricevette il titolo di dictator perpetuus, ai primi del 44 a.C., ogni speranza di arricchimento della classe senatoriale sembrò svanire per sempre e così si corse precipitosamente verso il suo assassinio.
Neppure per Ottaviano fu semplice il mantenimento della sua posizione dominante: dovette ricorrere anch’egli al triumvirato (il secondo), fare accordi con gli avversari, Sesto Pompeo, ad esempio, o Marco Antonio, per poi batterli sul campo, in Sicilia e ad Azio, con Agrippa a guidare le sue truppe. Dopo Azio si liberò di ogni potenziale pericolo (Cesarione e il figlio di Antonio, Antillo), spinse al suicidio Cleopatra e lo stesso Antonio, tornò a Roma da dominatore.
Lo sforzo di Ottaviano si concentrò non tanto sulle riforme quanto sulla costruzione, lenta e progressiva, della sua immagine di princeps, accentrando nella sua persona tutte le cariche più importanti dell’ormai morente Repubblica romana e indicando a tutti come il suo potere fosse indispensabile per ottenere finalmente la pace.
La grande letteratura come strumento di propaganda
Anch’egli, come il prozio, volle celebrare la sua persona e la sua gens, ma lo fece attraverso l’opera letteraria di Virgilio, l’Eneide, che costruì il mito laziale di Enea e di Iulo, i fondatori della famiglia augustea. Un mito celebrativo fissato nei secoli come lo sono i Commentarii. In questa operazione Ottaviano ebbe bisogno di un collaboratore professionista, mentre Cesare si riteneva, a buon diritto, anche pregevole autore di una complessa architettura autocelebrativa.
Ottaviano, all’indomani della presa del potere, ebbe il consolato (autoproclamato) per 8 anni consecutivi, dal 31 al 23 a.C., nel 28 divenne princeps enatus, nel 27, il 16 gennaio, ricevette il titolo di Augustus (da aviumgestus o gustus), e nel 27 prese il comando diretto di tutte le provincie più importanti. Nel 23, finito il consolato, ebbe l’imperium maius, e la tribunicia potestas, divenendo nella sostanza un imperatore a tutti gli effetti. Risiedeva a Roma senza mai deporre l’imperium. La storia romana è ricca di episodi legati all’imperium, e occorrerebbe approfondire le vicende di Cesare per comprenderne il peso e il significato. Nel 12 (sempre a.C.) muore Lepido e lui diventa pontifex maximus, carica a vita come oggi, che lo fa padrone della religione romana.
Per ottenere tutte queste cariche aveva blandito la classe equestre, sia romana sia italica, ponendola nei gangli vitali del potere elettorale.
Nel 5 d.C. compì l’atto decisivo della sua politica, inaugurando 10 nuove centurie (Lex de X centuriisCaesarum), infarcendole di cavalieri e senatori di provata fedeltà, preposti all’elezione dei magistrati più importanti: i Comitia (cioè le Assemblee popolari legiferanti) persero la loro autonomia! L’approvazione delle leggi era nelle sue mani.
Nel 2 d.C. l’ultimo passaggio: fu acclamato pater patriae. Era già Divi filius, figlio del dio Cesare, la sua consacrazione era completa!
Quale abilità, quale tempistica sottile lo aveva guidato al potere assoluto, lentamente, quasi sottotraccia. Un’intelligenza politica che travalicava la sicumera cesariana e la sua irresistibile imposizione del potere. Notiamo che non si fece mai attribuire l’odiato titolo di dictator, mentre Cesare fu dictator a più fiate.
Quante volte Cesare aveva concluso le sedute senatoriali con espressioni che significavano: “Questo è quanto! Nessuna discussione!”. Come a dire: ciò che decido io è legge! Ottaviano legiferava attraverso senatori e cavalieri completamente nelle sue mani.
Gli atti illegittimi nella corsa al potere
Dopo la rivisitazione generale dell’opera dei due statisti, mi piacerebbe parlare di alcuni episodi significativi del loro viatico politico: il passaggio del Rubicone con Pompeo istallato a Roma come consul sine collega (un dittatore, di fatto) ci fanno capire come Cesare fosse inarrestabile, scenografico, teatrale, sostenuto da un’inarrivabile autostima e sicurezza. Prese il potere violando in armi i confini italici, certo che il popolo fosse tutto con lui; e lo fece alla testa di una sola legione, la XIII.
Ottaviano, a 19 anni rientra in Italia da Apollonia, sbarca a Lupiae (Lecce), corre a Brindisi e, nottetempo, aiutato da una coorte ben foraggiata, si impossessa degl’immensi fondi ammassati da Cesare per la campagna contro i Parti presso l’amico banchiere Balbo. Poi li carica su carri ricoperti di fieno e li trasferisce in una sua proprietà avita nel cuore dell’Umbria. Il tutto occultamente, senza clamori, e si assicura il denaro per future battaglie. Era denaro dell’Erario, ma passò di mano senza che nessuno in realtà ne fosse a conoscenza. Poi mette insieme due legioni, pagandole di persona, che gli assicureranno potenza e sicurezza, e con esse compirà i primi atti che lo metteranno in concorrenza con Antonio.
Antonio stesso, di contro, non riuscirà, nei giorni successivi al cesaricidio, a mettere le mani sul testamento di Cesare, cosa che gli avrebbe dato un’innegabile vantaggio su Ottaviano. Il testamento era nelle mani di Lucio Calpurnio Pisone, suocero di Cesare, padre della vedova Calpurnia, e ne era l’esecutore. La lettura pubblica sui Rostri, di cui tutti sappiamo, consegnò nelle mani del figlio adottivo Ottaviano l’eredità cesariana e fece balzare il giovane agli onori di una fama fino ad allora sconosciuta. Prima di questo atto Ottaviano era infatti pressoché una figura anonima, dopo questo divenne il potenziale continuatore dell’operato politico del Divus Caesar.
Non certo cosa di poco conto! Ricevette in eredità non solo fondi inesauribili ma anche la fama e il favore di Cesare presso la plebe e i ranghi dell’esercito.
Citerò solo un episodio paradigmatico: alla fine della campagna contro Sesto Pompeo in Sicilia, Lepido fu il primo a prendere Messana e pretese di essere considerato il vincitore di tutta la campagna di guerra. Nel frattempo, avendo incorporato tutte le milizie di Pompeo che si erano arrese, e contando anche le 4 legioni che circondavano Agrigento, le sue forze erano salite ad un numero impressionante, 22 legioni. Quando s’incontrò con Ottaviano, gli disse semplicemente che la Sicilia era sua e che l’avrebbe tenuta insieme alla provincia d’Africa. In pratica lo voleva cacciare dall’isola.
A questo punto emerse l’incredibile sagacia politica del giovane Cesare, il quale si presentò nell’immenso accampamento delle legioni di Lepido, in toga e con fare cordiale, complimentandosi con tutti i soldati e riempiendoli di lodi e di promesse. Il suo aspetto, così simile al grande Cesare, e la sua affabilità fecero sì che tutti gli uomini, entusiasti, gli giurarono fedeltà, e si dichiararono completamente al suo fianco. Con un gesto abilissimo, e senza spargimento di sangue, Ottaviano aveva spogliato Lepido di ogni potere, poiché apparve ai soldati come l’unico erede del grande Cesare.
All’ingenuo Lepido, che aveva sognato di sbarazzarsi facilmente di un uomo come Ottaviano, non rimase che la carica di pontifex maximus, ma gli fu di poco valore, infatti fu privato di qualsiasi altra carica politica e fu espulso a vita da Roma. Egli dovette ritirarsi al Circeo per 24 anni, cosa per lui insopportabile! Il Senato approvò immediatamente le decisioni di Ottaviano e Lepido sparì nell’anonimato (continua…).
Bibliografia dell’autore
“Nel cuore della battaglia” (Florence Press, 2008);
“La guerra civile tra Cesare e Ottaviano” (E-Dida 2017);
“Farthan il romano” (Samizdat, 2017);
“L’oro di Tolosa” (E-Dida, 2019).
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