Alla luce delle ultime evoluzioni, ma anche della rilevanza strategica della Tunisia nel Mediterraneo, sia per le migrazioni sia per i corridoi energetici, Il Tazebao torna ad analizzare la transizione di Saïed, la lunga “eccezione” cominciata il 25 luglio 2021, che interroga sugli effetti delle Primavere arabe e offre un caso di riforme e governabilità di cui tener conto nel Mediterraneo.
Punti cardine
- Uno stato di eccezione destinato a modificare nel profondo il sistema politico e istituzionale;
- La crisi dei partiti politici e un Presidente entrante;
- Il ruolo della religione e del sindacato;
- Il contesto geopolitico: una chiara scelta di campo;
- Una traiettoria comune a molte democrazie.
L’ennesimo strappo
Allontanando 57 giudici accusati di corruzione e di aver ostacolato le indagini sul terrorismo, grave piaga della Tunisia nel decennio scorso, il Presidente Kaïs Saïed aggredisce uno dei gangli del potere, restio a riformarsi e ostaggio della partitocrazia; è ben nota l’infornata di giudici a opera del partito d’ispirazione islamica Ennahda negli anni del consenso. Prima di procedere così e come ha ricordato anche nel discorso alla nazione, Saïed aveva chiesto più volte alla magistratura di “purificarsi”, rimuovendo autonomamente gli elementi compromessi o devianti. Così non è stato e Saïed ha agito, ancora una volta in modo deciso sebbene irrituale. Come sempre avvenuto dal 25 luglio 2021, l’inizio di questa lunga eccezione, ad oggi, la popolazione mostra di condividerne l’operato.
Una modificazione più profonda del sistema politico tunisino?
Questo stato di eccezione è destinato a produrre delle conseguenze e delle modificazioni. Parlare di “uomo solo al comando” come fa sempre certa stampa italiana non risponde a verità. Certo è che si sta formando un sistema di potere dove il Presidente è più incisivo ed entrante, un sistema più incentrato sul Presidente ma questo è dovuto anche e soprattutto alla particolarità di Saïed.
L’attuale Presidente gode di un inscalfibile prestigio personale, confermato anche dall’ultimo sondaggio della Emrhod Consulting (al momento raccoglierebbe oltre il 70% in caso di corsa alle presidenziali, fonte ANSA). Ciò è dovuto anche al suo passato di costituzionalista, quando ha contribuito a redigere la nuova Costituzione del 2014, un ruolo che gli è valso una larga vittoria alle scorse elezioni. Nella società civile il consenso è alto, basti citare il Movimento 25 luglio che sostiene l’eccezione di Saïed. In più, a suo vantaggio gioca la profonda crisi dei partiti politici. Troppi, inconcludenti, lenti e, soprattutto, ostaggio di influenze estere.
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Di contro, Saïed non ha mai avuto un partito ed è sempre stato un indipendente; il che lo rende civico, ma anche “populista”, adattando questo termine passepartout, che in Europa sottointende a tutto e al suo contrario, al caso tunisino. Saïed, tutto antipartitico ma non antipolitico, è comunque un “populista” sui generis; basti pensare ai suoi – importantissimi – discorsi nei quali parla e annuncia, da solo, senza la massa. Non ricorre ad altro canale di comunicazione fuorché quelli ufficiali, incontrovertibili e senza repliche. Una comunicazione diretta con il popolo ma anche sintetica e molto distaccata, con il medium che ulteriormente divarica la distanza.
Sfiducia nel sistema partitico
La riprova dell’inconcludenza dei partiti sta tutta nell’incapacità di opporsi politicamente alla transizione di Saïed. Il partito Ennahda, giunto dissanguato ai 41 anni di attività, è guidato dall’anziano Rached Ghannouchi e cerca di ritagliarsi uno spazio politico come prima forza di opposizione. Ennahda ha già annunciato di boicottare il referendum e le elezioni parlamentari ma vive un’inarrestabile emorragia di voti, figlia di una deludente esperienza di governo e parlamentare. La vicinanza alla Turchia, apparsa sempre più evidente in questi ultimi tempi, non sta giovando.
Il neonato Fronte di Salvezza Nazionale, che raccoglie diversi partiti, tra cui anche Ennahda, è guidato anch’esso da un leader anziano e delegittimato, Ahmed Nejib Chebbi e non sembra scaldare i cuori degli elettori. Anche insieme, i partiti non sono riusciti a portare in piazza che poche migliaia di persone ultimamente. Non possono nemmeno prospettare un’alternativa credibile e rimangono sostanzialmente passivi e senza voce in capitolo, da quasi un anno. Per la popolazione non pare essere un problema.
L’unico attore veramente decisivo è il sindacato UGTT. Il sindacato, che vanta oltre un milione di iscritti, si è mosso con cautela e circospezione in questi mesi. Non ha mai attaccato, non ha mai appoggiato, non si è schiacciato sulle posizioni presidenziali né su quelle degli oppositori. Tenendo il punto sull’importanza di un processo di riforma partecipato, sta facendo sentire tutto il suo peso. Per queste ragioni ha rifiutato anche di prendere parte al dialogo nazionale. Non è da escludere che Saïed veda di buon occhio la presenza di un contraltare legittimato come il sindacato UGTT, che garantisce una rappresentanza.
Il ruolo dell’Islam
Un’ulteriore conferma che quella iniziata un anno fa è una stagione di profondo cambiamento per la Tunisia è data dalla proposta di non avere più in Costituzione l’Islam. Il giurista Sadek Belaid, coordinatore della Commissione consultiva nazionale per l’elaborazione della Costituzione per una “nuova Repubblica”, ha detto alla stampa francese di aver intenzione di presentare al Presidente una bozza della carta – da sottoporre poi a referendum popolare il 25 luglio prossimo – che non menziona l’Islam. Per Belaid ciò rappresenta, innanzitutto, un colpo ai partiti islamici e, soprattutto, al già citato Ennahda.
“L’80% dei tunisini è contrario all’estremismo e all’uso della religione per scopi politici. Questo è esattamente ciò che faremo semplicemente cancellando l’articolo 1 nella sua forma attuale”, ha dichiarato Belaid ad Afp. “C’è la possibilità che cancelleremo l’articolo 1 nella sua versione attuale. Possiamo fare a meno di menzionare alcuna religione”.
«Ennahdha e altri partiti sono gli scagnozzi di diverse forze o potenze straniere o stati o mini-stati che hanno molti soldi che vogliono spendere come vogliono e che usano per intervenire negli affari del paese. Questo è tradimento».
La Tunisia ha una lunga tradizione laica ma con questa modifica sarebbe il primo paese arabo a non avere più l’Islam come religione di stato.
Il caso tunisino e la complessità globale
Ogni analisi sul potere di Saïed dev’essere parametrata alla torsione in senso presidenziale che molte democrazie, quand’anche consolidate, stanno sperimentando negli ultimi decenni; alcune hanno anticipato questo processo anticipandolo con le riforme, mentre altre si trovano a rincorrere il corso degli eventi, come dall’altra parte del Canale di Sicilia con il premierato di Mario Draghi.
È un processo irrinunciabile talvolta, oggi da inserire nel contesto di eccezionalità continua dettata dalla pandemia e dalla guerra. Leggere la transizione di Saied senza la dimensione della guerra, infatti, sarebbe parziale. Perché ogni sommovimento è prodotto da faglie globali.
Al pari del Marocco, pienamente incanalato sulla via del Patto di Abramo, la Tunisia di Saïed e della premier Bouden ha compiuto una chiara scelta di campo, come dimostra la partecipazione agli incontri del blocco occidentale, a partire dal vertice NATO di Ramstein; una scelta che internamente ha incontrato ostilità, vista la storica vicinanza della Tunisia – e del Presidente stesso – alla causa palestinese. Mentre la Tunisia si avvicina alla NATO nella sua versione estensiva di Ramstein, l’Algeria, con cui ci sono storici rapporti d’amicizia, si apre alla presenza economica della Cina con l’accordo da 7 miliardi di dollari finalizzato alla produzione di fertilizzanti e anche per il gas.
Laboratorio Tunisia
La transizione di Saïed può essere interpretata come eccessiva, come antidemocratica, da larga parte del popolo tunisino è accolta, più o meno passivamente, come necessaria, talvolta liberatoria, sicuramente dev’essere studiata.
La correzione o reazione, per i più critici, in fondo, interroga sugli effetti e i reali benefici delle Primavere arabe, salutate con eccessivo entusiasmo, dato che la Tunisia, più che caso di successo della democrazia nel mondo arabo è stata terreno di penetrazione del terrorismo. E qui il quesito se quella di Saïed sia un’interruzione nel processo verso una idea di democrazia, un ripiegamento – la storia è sempre una sinusoide – oppure un nuovo capitolo.
Il 25 luglio 2021 segna una discontinuità con quella stagione, di cui lo stesso Saïed fu protagonista, ma i principi di fondo come la partecipazione popolare e l’uguaglianza, che rimane il vero problema del paese, finiti nell’oblio dopo il 2011, rimangono alla base del progetto politico del Presidente, ripuliti dalle incrostazioni del parlamentarismo.
Il motto delle consultazioni elettroniche andate in scena nei mesi scorsi, anch’esse un unicum nella storia tunisina, ben riassume il pensiero di Saïed: “la tua opinione, la nostra decisione”. Il percorso verso un sistema presidenziale legittimato dal popolo, seppur da una frazione minoritaria (anche in questo caso si potrebbe fare un parallelismo con la bassa partecipazione occidentale), controbilanciato da ben regolati strumenti di partecipazione diretta, esaltando le comunità locali, chiamate a gestire problemi concreti, è un tentativo di governabilità di cui tener conto in un Mediterraneo ancora alla ricerca di una bussola.