Ancora una volta Roma ha parlato al Mondo non come cartolina «dagli atrii muscosi, dai Fori cadenti» ma come luogo centrale della Tradizione vivente
Il Tazebao – Roma locuta. Ancora una volta Roma ha parlato al Mondo non come cartolina «dagli atrii muscosi, dai Fori cadenti» ma come luogo centrale della Tradizione vivente che in se permanens omnia innovat: infatti, contrariamente a superficiali letture presentiste, papolatriche e individualistiche, l’Istituzione per eccellenza Chiesa universale ha parlato in modo duplice e circolarmente convergente, con il linguaggio non solo verbale della durata nei tempi lunghi, che dall’attimo si dilatano all’Eterno: in pieno Giubileo da lui indetto, il giorno dopo ad aver dato la solenne benedizione pasquale, il primo Papa (Sud) americano è morto sul Trono di Pietro da degno Vicario di Cristo morto in Croce − impedendo una deriva funzionariale del Munus Petrinum, ove si fosse dimesso per malattia − e dopo 18 giorni, il nuovo Successore di Pietro (Nord) americano si è presentato dallo stesso balcone, benedicente Urbi et Orbi con tanto di mozzetta rossa e stola pontificia, riconfermandosi Erede dell’Impero romano sublimatosi nel bimillenario Vicariato di Cristo.
In piena dismissione ideologica della globalizzazione economico-politica (post-globalizzazione/de-globalizzazione), nell’arco di soli 18 densissimi giorni, i due eventi consecutivi si sono snodati tramite l’evento assembleare del Conclave, autenticamente espressivo del globo, che in 2 giorni ha assicurato all’Ecumene cattolica il nuovo Pastore, Leone XIV, preceduto dalle solenni esequie di Francesco, cui erano accorsi potenti della Terra di ogni religione o senza.
A testimonianza che la missio ad extra rinforza la missio ad intra, i molti italiani che si attendevano un Papa italiano, in eterogenesi dei fini del voto disunito dei Cardinali italiani, sono stati ripagati dallo Spirito Santo col maggior dono di un Papa appalesatosi autenticamente romano, espressivo di quella effettiva universalità, che dal germe mitologico del migrante Enea, fu tanto della Roma degli Imperatori di ogni dove dell’Ecumene, quanto di Pietro di Cafarnao e Paolo di Tarso e dello stesso Agostino di Tagaste, di cui è figlio spirituale Chi ha scelto il nome Leone, ricollegandosi all’Autore della Rerum novarum sulla Giustizia sociale, tredicesimo di una serie inaugurata da quel Leone I, che Attila re degli Unni (452 d.C.) e Genserico re dei Vandali (455 d.C.) li aveva affrontati di persona disarmato con la veste bianca.
Quella veste candida era già peraltro propria del Pontefice Massimo pre-Cristiano, ad indicare la incompatibilità con la violenza della massima carica sacerdotale chiamata a istituire ponti tra Cielo e Terra e su di essa non è affatto un vanesio orpello il manto rosso, che rimanda contestualmente sia alla Passione di Cristo, cui la regia porpora, per vile scherno, fu gettata dai suoi aguzzini, sia al privilegio imperiale d’indossarla concesso a Papa Giovanni I (523-526 d.C.), dall’Imperatore d’Oriente Giustino, il primo a baciar i piedi papali: la potenza di tali simboli che vengon dal passato e dal trapassato, in un mondo dove l’informazione avviene sempre più per immagini, si congiunge con la vibrante comunicazione non verbale dei gesti e delle emozioni, come la sincera commozione del volto del neo-Eletto, percepibile dall’altro capo del globo, prima che profferisse verbo, ridestando percettivamente la funzione legittimante del Nome del Padre, demolita progressivamente dalla Rivoluzione francese al Maggio del ’68 e dai suoi epigoni woke.
Proprio mentre Pubblici decisori irresponsabili minano l’unità semantico-giuridica dell’Essere umano annichilita nell’irrilevanza della passione e morte di masse di Persone di questa o di quella etnia e langue il primato sociale della Persona sulle contrapposizioni tra Oriente e Occidente, Sud e Nord del Mondo, i bracci di questa Croce si ricompongono a Roma nella orizzontalità dell’abbraccio universale di pace rivolto a tutti del primo saluto leonino e nella verticalità del sublime Regina Coeli cantato dal Pontefice al suo primo Angelus.
Questa efficienza ordinamentale paradigmatica della Tunica inconsutile del Cristo, espressiva di una vis unitiva, che va ben al di là dei confini dell’Unione europea e del cosiddetto Occidente, ha resistito come la Sacra Sindone di Torino, con tutte le sue bruciature, sfilacciature, lacerazioni e ricuciture a tutti gli incendi rivoluzionari della Storia ed agli abbagli, dall’Illuminismo scientista all’Intelligenza artificiale: l’Italia, che si concede il lusso socialmente dis-integrante della non obbligatorietà scolastica dell’insegnamento della Religione, come se Filosofia, Storia, Arti, Politica, Diritto, Economia etc. non ne fossero inevitabilmente innervate, dovrebbe far maggior tesoro del determinante contributo alla identità italiana della Chiesa cattolica, che riconquistò a Roma i barbari conquistatori e senza la quale la Storia dell’Arte sarebbe ferma ai ruderi greco-romani, a tacer del salvataggio monastico della Cultura classica dalla barbarie e della invenzione stessa delle Università e degli Ospedali, oggi considerati templi di una mitologica Laicità, in realtà radicata pur essa nel monito di Chi disse «date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio».