Una riflessione a cura di Edoardo Tabasso sui temi affrontati dal presidente francese nella sua intervista
Lo stretto rapporto tra politica interna e politica estera, tra seconda guerra fredda e un nuovo consenso europeo a egemonia francese, questo e tanto altro ancora (scontri di civiltà, mediterraneo allargato, libertà di pensiero, islamismo radicale, sovranità digitale) nella video intervista rilasciata dal presidente Macron a tre giovani studiosi di politica internazionale della Scuola Normale superiore di Parigi, redattori della rivista “Le Grand Continent”.
In uno spazio pubblico dove la comunicazione in tutte le sue declinazioni ha sostituito la politica e dove il Principe e la categoria del Politico inseguono le frenesie dell’attualità a servizio di spin doctor imbroglioni e cinici, Macron prova, riuscendoci, a riempire un vuoto e lo fa con una visione distintiva e con una competenza che gli va riconosciuta.
Un’intervista che ci ha incuriosito e che ha attirato la nostra attenzione e che almeno per ora, per dovere di cronaca, ha ricevuto reazioni piuttosto tiepide. In Italia è stata pubblicata in una versione ridotta dal Corriere della sera e commentata da pochi (su Formiche.net, su Panorama da Lorenzo Castellani e sul Foglio David Carretta). Nella stessa Francia l’intervento de Le Président è stato quasi ignorato da gran parte del circuito polito mediatico, idem nei media degli altri paesi europei.
Guardi e ascolti Macron nell’intervista rilasciata e ti verrebbe da gonfiare il petto e intonare la Marsigliese come avviene nel film Casablanca nella scena del bar, postribolo di intrallazzi vari e gestito da Rick, alias Humphrey Bogart innamorato di Ingrid Bergman, deviato dai suoi impegni di freedom fighter contro il nazifascimo.
Quindi “play it again Monsieur Macron”! Beh il presidente è già impegnato nella campagna presidenziale del 2022 il cui esito, come ci dimostrano le elezioni svolte nei paesi dove si fanno ancora (la nostra analisi su USA2020), non è scontato.
Un Macron differente
Il Macron dell’intervista è cambiato, riflessivamente critico verso quel modello di cultura politica che ha segnato il suo successo politico: coglie che si è chiuso malamente un ciclo e un altro si sta aprendo.
Macron, fece nel 2017 dell’Europa la sua bandiera elettorale, in una sorta di referendum bis dopo il no dei francesi nel 2005 al trattato costituzionale, che aveva provocato la prima grave battuta d’arresto dell’Ue. Fautore di una piattaforma politica ispirata al socialismo liberale, e con grandi aperture alla globalizzazione, Macron fu salutato dai media mainstream, sempre alla ricerca di personalità politicamente corrette, come l’“Obama Francese”.
Senza la Brexit e senza Trump, non avremmo assistito a un neopresidente francese come Emmanuel Macron marciare verso il palco del vincitore accompagnato dall’Inno alla Gioia, soundtrack della malridotta UE, mentre le bandiere a dodici stelle facevano capolino tra quelle tricolori.
Ora abbiamo di fronte un Macron revisionista, probabilmente anche sulla scorta di errori fatti per esempio la sua gestione del fenomeno dei gilet jaune e sul quale ammise di aver detto e fatto conneries (“stronzate”) e con ambizioni neogolliste per tentare di intercettare e convincere i cuori e le menti dei Les Républicains.
Nell’intervista una delle chiavi di lettura è la visione di una sovranità e di una autonomia strategica a guida francese per l’Europa. È l’approccio macroniano al sovranismo europeo, in nome di una indipendenza dall’alleato americano che si assumerebbe l’amministrazione geopolitica sull’area dell’Indo-Pacifico mentre il nuovo consenso francese sul Mediterraneo e sul Medio Oriente.
«La nostra politica di vicinato con l’Africa, con il Vicino e Medio Oriente, con la Russia, non è una politica di vicinato per gli Stati Uniti d’America. È quindi insostenibile che la nostra politica internazionale dipenda da loro o che segua le loro orme» argomenta Macron.
Nel partenariato franco-tedesco l’Opa del modus vivendi del Vecchio continente riconosciamo già che su questo aspetto si profila una divergenza tra l’impegno trasversale dei francesi rispetto alla non disponibilità tedesca a impegnare truppe nelle missioni internazionali.
Nell’intervista sentiamo affermare da Macron che la “diminuzione del ruolo dello Stato, le privatizzazioni, le riforme strutturali, l’apertura delle economie attraverso il commercio, la finanziarizzazione delle economie hanno avuto conseguenze su le classi medie in particolare, e una parte delle nostre classi popolari, e sono state la variabile di aggiustamento della globalizzazione“. Un processo afferma Macron “insostenibile“.
Insomma un vero detour perché Macron rimane prodotto delle élite di Parigi e dei grandi centri urbani, in stretta contrapposizione di classe alla Francia periferica.
Un accenno critico alla globalizzazione
Fino ad ora Macron ha giocato su ricette di neosocialismo liberale, basato su buone letture accademiche di sapore progressista alla Tony Blair di vent’anni fa. Se qualche defaillance, a essere generosi, ha svelato, come lo stesso Macron riconosce, e ci ha condotti a una globalizzazione non governata, perché dovrebbe funzionare ora? È la domanda riflessione che Macron pone.
Seppur con garbo e stile evoca la catastrofe visibile di una visione ideologica e trasversale che ha attraversato l’Occidente almeno dal 1989: un trentennio nel quale una autoproclamatasi aristocrazia trasversale detiene la ricchezza materiale in virtù di una sedicente superiorità morale che le ha impedito di cogliere in anticipo fenomeni che giudica deplorevoli come quelli etichettati nella formula valida per tutte le stagioni di populismo.
La soluzione secondo Macron
Macron rivela quindi la sua “grande idea”: un ripensamento globale dell’egemonia liberale a partire del multiculturalismo, bandiera del globalismo, la visione iper-ideologizzata della fase di globalizzazione che viviamo.
“L’intero dibattito che ha preso piede si è fondamentalmente ridotto a chiedere all’Europa di scusarsi per le libertà che permette (…). Non siamo multiculturalisti, non sommiamo l’uno sull’altro, i modi di rappresentare il mondo, ma cerchiamo di costruire un insieme, qualunque siano le convinzioni che abbiamo in ciò che è intimo e spirituale”.
Macron offre una prospettiva che riconosce quanto le relazioni internazionali siano governate dal realismo politico e da quella che, per i realisti, è la sfida centrale negli affari di politica: chi può fare che cosa, con chi e a chi? E come la risposta sia condizionate dagli affari interni dei singoli paesi. Nella prospettiva di Macron l’interno corrisponde ad una mediazione ragionata tra stati europei e un’Unione Europea, ammettendo che non si è ancora realizzata una sovranità europea, perché il potere politico europeo non si è pienamente consolidato.
Carl Schmitt lo preconizzò segnalando nella sua filosofia politica che non può esserci Ordnung (ordinamento sovranazionale) senza Ortung (localizzazione) cioè senza un’adeguata intermediazione dello spazio geopolitico. Quindi se l’Unione Europea è il nostro spazio vitale, per farla funzionare serva ancora la nazione! Tradotto: una Francia europeista a trazione di una Francia sovranista!
Per Macron “si tratta di pensare in termini di sovranità europea e di autonomia strategica, in modo da poter contare da soli e non diventare il vassallo di questa o quella potenza senza avere più voce in capitolo (…) significa che, quando si tratta di tecnologia, l’Europa deve costruire le proprie soluzioni in modo da non dipendere dalla tecnologia americana o cinese”.
In effetti ad osservare il contesto dentro il quale ci ritroviamo, il partito comunista cinese vuole avere una solida base nell’Ue per divenire un contrappeso strategico per Stati Uniti e Russia, mostrandosi paradossalmente come alfiere di una globalizzazione alternativa a quella a traino statunitense.
I cinesi non considerano l’Europa un avversario strategico o una minaccia a lungo termine e questo potrebbe rivelarsi per l’Europa un vantaggio sul quale scommettere per rivelare, dentro un impegno di realismo proattivo, e non di retorica, la sua identità politica senza la quale scivolerà sempre più nei margini periferici dello scenario geopolitico.
Necessario quindi arrischiare e azzardare ma qualche suggestione inquadrando l’intervista di Macron dentro i disequilibri dinamici che stiamo vivendo. Un commento che non scioglierà i nodi geopolitici evocati dal presidente francese, ma che piuttosto si vuole concentrare sul momento di “frattura del sistema capitalistico” evocato nell’intervista.
Uno scenario nel quale le accelerazioni storico-sociali indotte dalla pandemia globale stanno facendo da catalizzatore ad una nuova fase che amplifica gli effetti precedenti, toglie speranza, scava un solco tra le popolazioni, che vedono andare in pezzi il proprio ambiente d’esistenza.
Esiste una domanda politica legittima e comprensibile trasversale a tutti i ceti nazionali: l’autodifesa di società che si sentono impoverite e minacciate. A questa domanda nessuna risposta di buon senso è arrivata da un’élite oramai postmoderna, liquida, multiculturale, tecnocratica, senza senso autocritico, perché incapace di trarre una lezione dai propri errori di percorso.
Somewhere/anywhere
A questo proposito è imperdibile l’analisi irriverente di David Goodhart in “The Road to Somewhere: The Populist Revolt and The Future of Politics” che distingue tra i somewhere, i “da qualche parte”, quel 50 per cento di persone che vive dov’è nato, che pensa prima ai vicini di casa che ai rifugiati e che non ha qualifiche particolari, ma che un tempo aveva una dignità e che ora si ritrova continuamente vilipeso dall’altra tribù, gli aristocratici gli anywhere, i cosmopoliti irriducibili che stanno “da qualunque parte”, quindi in nessuna parte. Sono coloro quelli che hanno i diplomi e la conoscenza per stare bene ovunque e che, pur rappresentando solo il 20-25 per cento della popolazione, dettano egotisticamente un’agenda politica mascherata però da attitudini in overdose di buonismo altruista e sentimenti compassionevoli. Le parole d’ordine degli anywhere a prescindere sono progresso, apertura, individualismo e per rendere cool, distintivo, il loro status e il loro potere hanno bisogno di continue conferme che i media mainstream offrono di buon grado.
Sono gli stessi membri appartenenti alla classe dominante descritta da Angelo Codevilla in “The Ruling Class: How They Corrupted America and What We Can Do About It”, da Christophe Guilluy nei saggi “La France périphérique” e “Le crépuscule de la France d’en haute”, da Richard Reeves “Dream Hoarders: how the american upper middle class is leaving everyone else in the dust”.
Per citare solo alcuni saggi usciti negli ultimi anni che approfondiscono questa new class prodotto sociale ibrido, trasversale e liquido emerso nella recente globalizzazione e in collusione diretta con quello che Jean Claude Michéa, autore de “Le Complexe d’Orphée: la gauche, les gens ordinaires et la religion du progrès”, definisce “il partito dei media e del denaro”.
Una nuova classe di vincitori che prendono tutto, impegnata perfino in un’azione pseudo evangelica di altruismo commiserante e ipocrita perché vuole cambiare il mondo degli altri senza mettere in discussione il proprio, come argomenta con paradossale ironia Anand Giridharadas nel volume “Winners take all. The élite charada of changing the word”.
Fine della Storia?
Le nuove generazioni, evocate da Macron nell’intervista “non hanno vissuto l’ultima grande lotta che ha strutturato la vita intellettuale occidentale e le nostre relazioni: lìanti-totalitarismo”.
Il crollo del muro di Berlino e dell’Unione Sovietica segnò la vittoria di coloro che al conseguimento di quell’obiettivo inatteso avevano dedicato tutte le loro energie politiche. Ma per un concorso non ancora del tutto esplorato di circostanze e di strategie, nell’89 non “finisce la storia”.
Quello spartiacque, piuttosto, comincia a segnare l’inizio della crisi delle democrazie che cominciarono ad erodere la loro attrazione politica e sociale fondata sulla svolta riformista lanciata da Franklin Delano Roosevelt con il discorso del 1941 delle Quattro libertà di cui ogni persona nel mondo dovrebbe godere: libertà di espressione, religiosa, diritto ad un livello di vita adeguato e libertà dalla paura della guerra e dei conflitti e da John Maynard Keynes e da William Beveridge con la creazione del welfare state e la piena legittimazione, teorica e pratica, dell’intervento dello Stato nell’economia per sostenere la domanda globale di beni e servizi e garantire la piena occupazione.
Può accadere – è già accaduto – che ottime intuizioni diventino un ostacolo per il futuro, proprio per la difficoltà di riadattare, in un diverso contesto, l’essenza di quelle intuizioni non avendo il coraggio di abbandonare qualsiasi forma che non sia più in grado di esprimerle.
La sfida politica alla quale ci obbliga questa emergenza sanitaria potrebbe rappresentare una sveglia perché come custodi del canone e della civiltà occidentale, dimensione dell’anima e del Politico, non abbiamo più tempo per continuare a perseverare negli errori e nel prolungare la nostra agonia a causa dell’inadeguatezza di istituzioni nazionali e sovranazionali.
Le classi dirigenti provano a difendere il vecchio quadro culturale, ma smarriscono capacità di indirizzo e incapacità nel riadattare il potere in virtù e in valori politici quali lo spirito di sacrificio e l’assunzione del rischio personale per gli interessi generali.
È nei momenti storici di crisi – epoca di crisi o crisi d’epoca – che deve riemerge il dovere di rischiare, per superare le regole consolidate, che non valgono più nulla, se si vuole dimostrare una reputazione all’altezza di leadership: diversamente si tira a campare.
Il conto della globalizzazione
Il malessere dell’Europa, evocato da Macron, viene da lontano e si sarebbe manifestato anche senza la malagestione del fenomeno immigrazione e le derive che dall’ideologia multiculturalista ne sono conseguite.
Il disagio è più complesso. La fine di quella solidarietà che aveva accomunato le destre e le sinistre democratiche all’uscita della Seconda guerra mondiale e su cui era stato edificato il sogno dell’Unione europea. È il crollo di un’egemonia culturale che delegittimava qualunque pulsione nazionalista. Un’utopia che si sta schiantando contro il riemergere di sentimenti diffusi come la difesa delle proprie radici e l’esigenza di riconoscersi in un’identità anche economica di fronte al ciclone della globalizzazione.
Se è del tutto vero che la globalizzazione ha consentito di liberare e mettere in moto energie come quelle dei cinesi e degli indiani – lo sottolinea Macron nell’intervista – e di alcuni Stati Africani è altrettanto vero che le accelerazioni incontrollate e incontrollabili attivate dalla globalizzazione hanno attivato proteste, suscitate dalle attese deluse, nel cuore stesso delle democrazie europee.
Dinamiche che stanno fomentando la rinascita, sotto nuove forme, di un neo-feudalesimo di un’élite tecno burocratica finanziaria ben posizionata e coperta dai media, vecchi e nuovi che Joel Kotkin, liberal che non ha aderito alla caccia alle streghe contro Trump, ha analizzato nei volumi “Coming of Neo-Feudalism A Warning to the Global Middle Class” e “The new class conflict”. Per l’autore stiamo assistendo al ruolo performativo di una nuova oligarchia, gentry liberalist progressista, della finanza, dell’high tech la cui potenza di fuoco è fornita dall’industria dell’intrattenimento e del consumo, dai media, dalla pubblicità, dalla comunicazione e della tecnologia. Un fronte iperconnesso e trasversale che nella sua eterogeneità è compatto e coeso nel perseguimento di una vaga ideologia globalista.
La perdita della sovranità nazionale è accettabile se, e solo se, è fatta in nome di un’istituzione più capace di garantire la sicurezza e il benessere di ciascuno e, più rispettosa e rappresentativa delle culture e delle tradizioni di quanto non lo siano gli stati nazionali. Altrimenti la marginalizzazione della storia di questo continente, sono un destino annunciato.
Da troppo tempo l’Unione Europea si ritiene infallibile e appare incapace di trarre una lezione dai propri errori di percorso, con la conseguenza di trovarsi imprigionata in una continua fuga in avanti, fatta di continue forzature. Potrebbe essere il momento giusto per mostrare agli europei che l’Europa sa anche essere la soluzione dei loro problemi in un mondo in cui la dimensione nazionale è troppo piccola.
Processi complicati che quando una figura autorevole come il Presidente francese li delinea e li configura consapevolmente, seppur all’ultimo istante, dobbiamo tirare un sospiro di sollievo perché siamo tra coloro che in solitudine e senza nessuna presunzione o certezza hanno compreso almeno due principi per fronteggiare la realtà.
Il primo è che perseverare nella ricerca di semplificazioni per descrivere fenomeni nuovi e complessi da analizzare attorno al tema del cambiamento della Storia, delle società e dei suoi individui, delle collettività nazionali e sovranazionali, delle istituzioni internazionali, delle democrazie, dei totalitarismi politici e religiosi, delle culture politiche, significa essere incapaci di affrontare il cambiamento soprattutto quando non è quello che ci aspettiamo e non è quello che preferiamo.
Il secondo principio è che quando avvengono fatti inaspettati, come quelli legati alla globalizzazione non sono i fatti a essere etichettabili come imprevisti, è la nostra capacità di analisi ad avere qualche problema.
Dello stesso autore
1921/2021, La storia non sarà gentile [seconda parte] – Il Tazebao
1921/2021, La storia non sarà gentile [prima parte] – Il Tazebao
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