Sul “disagio” dei giovani

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Il Tazebao – È assodato che i giovani di oggi vivano peggio dei giovani di ieri. È una rotta che si può invertire? Il disagio giovanile ha avuto ampio spazio nel dibattito degli ultimi giorni, ma questo disagio è prima di tutto l’effetto di precise condizioni economiche e sociali. L’istruzione, financo nei livelli più elevati, non garantisce un salto di qualità sociale o, meglio, il potere si perpetua attraverso meccanismi di trasmissione di padre in figlio, per cui il figlio studia alla Luiss o alla Bocconi e accede a relazioni e posizioni privilegiate e inarrivabili per chi, volente o nolente, va a quella pubblica, nonostante i sacrifici. Più che disagio, il disastro abitativo: per effetto della rendita fondiaria consolidata, male atavico della nazione italiana, e dei nuovi modelli politici delle città senza cittadini, potenziati dalla pandemia e dalle piattaforme, le nuove generazioni sono impossibilitate ad abitare, cioè a essere cittadini. Come la terra, e i suoi frutti, torna ai discendenti degli antichi proprietari cancellando gli effetti benefici delle riforme agrarie – per citare un grande maremmano come don Ameleto Pompili “la terra non è nostra” –, così accelerano le espulsioni dal tessuto urbano e il confinamento in zone sempre più marginali e frammentate tra loro dei meno abbienti. Il terzo punto riguarda la violenza. Il grado di violenza della società e soprattutto delle nuove generazioni raggiunge picchi incredibili, da Arancia meccanica, ciò investe prima di tutto i modelli culturali e, non c’è altro modo di dirlo, la percezione della “naturale” distinzione tra Bene e Male. Insomma, parlare di “disagio” giovanile seriamente vuol dire mettere in discussione uno stato di cose preciso. Altrimenti è un esercizio di stile che lambisce la superficie senza andare al fondo dei problemi. Semmai, resta da capire come mai tali e tanto profonde contraddizioni non producano esiti politici, spontanei o in forme più organizzate. Forse incide la normalizzazione del “disagio”.

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