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Scomparsi: gli altri martiri delle foibe

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La giornalista Simona Sardi condivide con Il Tazebao i risultati di una sua dettagliata e agghiacciante indagine sui minori uccisi per mano di Tito.

“Scomparsi” è l’etichetta di comodo che parla di loro per non usare la parola infoibati. Quasi due generazioni di minori tra 0 e 17 anni, compresi diversi feti, ricercati dalla Venezia Giulia, Istria e Dalmazia, in un periodo che va dal 1943 fino a oltre il 1957. Usciti dalla storia e dalle loro famiglie, ingoiati da un forzato mistero o dal più bieco negazionismo di chi sapeva e non ha voluto parlare neanche dopo lo scadere dei trent’anni anni di segreto militare e oltre settanta, passati dall’esodo giuliano dalmata.

Sugli adulti assassinati, i dati più o meno erano noti, se maschi o femmine, giovani o vecchi, se preti, se ricchi o poveri, se militari o civili, se torturati o uccisi perché sopra ad ogni altra accusa di collaborazionismo, di presunti fascisti, erano italiani da eliminare. Per i bambini invece si sperava che da quella carneficina umana, costruita a tavolino e siglata da odio nazionalista, almeno loro fossero stati risparmiati, nell’assurda convinzione che in fin dei conti era una guerra finita, nascosti, fuggiti o mano sul cuore di qualche partigiano italiano o slavo, lasciati nelle loro case oramai vuote, dopo “la liquidazione” degli adulti.

Sono 55 al momento, i nomi di minori uccisi. Bambini arrestati e violentati, nel caso delle ragazzine, e poi gettati nelle foibe del Carso e dell’Istria, o annegati, nelle foibe blu della Dalmazia, o seppelliti nelle fosse comuni dell’alto goriziano, Udine e Pordenone, prelevati di notte dalle loro case, da soli o con quel che restava delle loro famiglie, legati così stretti dal filo di ferro che, i polsi stessi talvolta si spezzavano.

Qualcuno tra emeriti accademici e studiosi, ha risolto la questione che, se mai fossero finiti in qualche inghiottitoio “ci cascano per sbadataggine, mentre giocano, forse 2-3 al massimo non fanno assassinio, non fanno numero né notizia per i mass media!”

Invece i bambini, conoscono la loro terra come le loro tasche proprio perché bella ed estrema: non è un caso che tra i vari ritrovamenti di vittime, per primi sono i ragazzini del posto, come a Vines nel 1943, a scoprirne le tracce.

I nomi escono, dopo  mesi di ricerche e indagini, oltre due anni di ricerche e oltre 400 esuli raggiunti, per merito anche del Covid, in quanto tutti bloccati a casa, con il supporto documentaristico in primis di Lega Nazionale di Gorizia, Fondazione Rustia Traine, Associazione Silentes Loquimor, Elenco dei Caduti e dispersi RSI Livio Valentini, l’Albo D’Oro di Luigi Papo, l’Archivio storico del Ministero della Difesa e della Farnesina, l’Elenco di Padre Flaminio Rocchi.

Alice, Rino e gli altri “scomparsi”

Muore così Alice Abbà, una ragazzina di Rovigno, 13 anni, secondo la testimonianza della nipote che porta il suo stesso nome. Alice viene arrestata insieme alla madre Giuseppina Micoli, moglie di Giorgio Abbà, vigile urbano, infoibato intorno al 16 settembre 1943, a Vines (oggi Vinež in Croazia): nella prima ondata di arresti compiuti in  molti paesi dell’Istria, con la complicità anche dei partigiani italiani: nel suo caso, sono cinque i partigiani di Rovigno i cui nomi sono ancora al vaglio non per conferma quanto per comprendere lo sviluppo dei fatti. L’accusa rivolta ad Alice Abba? Essere una squadrista fascista perché, secondo documento dell’Ozna, denuncia con la madre, gli assassini del padre. Viene stuprata, picchiata e infoibata si presuppone nella vicina foiba di Moncodogno, il 12 febbraio 1945.

Rino Piani, 14 anni, zona Premiaracco, seviziato con la madre, sepolto in fossa nel gennaio del 1945: viene ritrovato dopo alcuni mesi e seppellito nel cimitero di Ipplis.

Altri piccoli nomi si aggiungono come quelli di Graziella Saturnino, di 5 anni, infoibata nel settembre ’43 vicino Dresenza Picco di Caporetto (oggi Slovenia), insieme ai fratellini Martino, 4 anni, Nerina, 2 anni, Valentino, 10 anni e la madre Firmina: le salme sono  estratte nell’ottobre 1943; di Arnaldo Codan, 17 anni, di Parenzo, fratelo di Mafalda Codan, ucciso dopo atroci torture nelle carceri di Pisino (oggi Pazin in Croazia) e gettato nella foiba di Vines, nel maggio del 1945, Pascolini Noemi, 14 anni, infoibata con il fratellino Odorico, 13 anni e la sorella Matia, 11 anni, si presume seviziate e  violentate. Romano Casa, di 13 anni di Mattuglie Elsane, infoibato con la sorellina, Pasqualina Maria di appena un anno e mezzo e il resto della famiglia Casa, nella zona di Divaccia Erpelle (oggi in territorio sloveno), ucciso perché il padre, casellante ferroviario, si era rifiutato di collaborare con una banda di partigiani per un attentato sulla linea ferroviaria.

Le denunce legate ai minori scomparsi, se verbalizzate sono andate distrutte nei vari bombardamenti, incendi e apposite manomissioni dal 1943 in poi.

Solo quando i corpicini sono trovati straziati, gli archivi cominciano a registrare i loro nomi, come nel caso della famiglia Faraguna detti Bembici, uccisi dai Kos, di Ripenda presso Albona (oggi Labin in Croazia). Un tedesco per secondo marito e qualche invidia di mezzo: 4 adulti finiscono nelle grotte salate di Smokvica verso Fianona, il bambino di 3 anni, Paris, viene ucciso in mare e ritrovato lacerato, sulla spiaggia a parecchi km di distanza. Pietro Ticina, noto farmacista di Zara, annegato con tutta la sua famigli e la piccola figlia Maria, di 4 anni, passati alle cronache perché La Domenica del Corriere dedicò loro la copertina, nel gennaio del ’45 ma anche qui, quell’immagine di bimba è così sfocata che sembra l’effetto delicato di un’onda.

L’elenco sale dove le fosse comuni sono più facili da scavare e oggi coperte da rovi o da vigneti, qualcuno le chiama codardamente “fantasma” anche se, i vecchi ricordano di mattanze su civili inermi,  come intorno a Gradisca, Cormòns, Tolmezzo, Manzano, Oleis, Roccabernarda, Attimis, Premariacco, Corno di Rosazzo, tra la pianura friulana, le Prealpi Giulie e le Carniche, dove i paesi erano più che altro villaggi agricoli.

E nei dintorni di Capodistria, a Maresego, Maria Rosa Umer, prima di morire, rivedeva perfettamente “le processioni, attraverso il paese, di ragazzini e bambine, legati  di notte, scesi da camion rumorosi perché colmi di persone”, talvolta più disciplinati di un adulto nello stare stretti fra di loro per darsi coraggio e scomparsi nel nulla, perché colpi di pistola o urla non si sentivano se terra e roccia li coprivano subito da vivi o da morti.

“Ci vuole l’arroganza di chi nega o sminuisce per pensare che i bambini possano essere stati estromessi da quel piano di pulizia etnica – riferisce una delle persone intervistate che vuole rimanere anonima – uccidere un bambino è fare scacco matto su un palcoscenico di guerra. È un modo diretto per terrorizzare e controllare una popolazione”. 

Dove ancora oggi tra 5000 e 10.000 morti non si trova accordo, neanche sugli oltre 350.000 esuli e si mistificano foibe e infoibatori che vengono onorati e ricompensati con pensioni d’oro e privilegi. E i bambini non sono altro che l’ultima parte di un pezzo di storia marcia, attori perfetti di un supposto lieto fine che non c’è mai stato, dentro una pulizia etnica e politica che coinvolge tanto i partigiani italiani quanto quelli slavi sotto Tito.

Alcuni testimoni dicono che sia inutile cercare, non è rimasto niente in fondo alle foibe: e invece un piccolo fermaglio, una medaglietta, un bottone infantile, raccontano più di quanto la parola colpa o coraggio riescano a dire. E un libro, in uscita il prossimo maggio 2021, dal titolo “I bambini della Bauxite”, potrebbe raccontare una verità fino ad oggi nascosta appositamente e taciuta.

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